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Senza essere Spielberg – intervista a Samuele Bersani

Conosciamo da quasi trent’anni l’effetto magico della scrittura di Samuele Bersani, ma non eravamo mai riusciti a dargli un’origine così nitida. Un po’ sbadatamente, a dire il vero, perché era tutto lì, chiaro e lampante: la fuga verso la morte di Chicco e Spillo candidi come Cesare e Vittorio del futuro Non essere cattivo, mentre passa “ancora un altro film di Alberto Sordi alla televisione”; le troupe della tv che si affollano davanti alla scena dell’omicidio a caccia di testimoni desiderosi di farsi intervistare (Cattiva), tra Eroe per caso, Truman Show e, ovviamente, Lynch; quel ricordo di “Mastroianni anni fa” che si fa immagine a disposizione per cristallizzare il fallimento di un amore, mentre “si bagna la fiamma, rimane la cera e non ci sei più”. Cinema insomma. Ettolitri di cinema che scorre in una delle scritture cantautorali più inconfondibili del nostro panorama, segnata dal racconto per immagini, dalla precisione descrittiva dei protagonisti, da una ricerca del dettaglio spiazzante che lascia attoniti per acume. Perciò ora che Bersani – viva Dio – è tornato a pubblicare un disco dopo sette anni non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione di fargli qualche domanda a proposito. Anche perché il disco, voilà, si chiama Cinema Samuele, le dieci canzoni sono “sale” di un multisala nella sua mente e certi grandangoli così luminescenti (ascoltate subito Le Abagnale) era così tanto che non li vedevamo nella canzone italiana che, lo ammettiamo, è un happy end da commozione prolungata. 

Con un titolo come Cinema Samuele devi avere un rapporto vivissimo col cinema.

Assolutamente. Con il cinema come luogo. Poi è chiaro che ciò che perdo dalla programmazione lo recupero a casa, ma credo che la sala sia davvero l’unico spazio dove non hai paura del buio. 

E con le serie tv?

Con le serie la situazione è più complessa, mi sono arenato. Mi fanno un po’ l’effetto della musica di oggi, pubblicata in grande quantità. Non hai il tempo di un innamoramento autentico, le vivi come se mangiassi tutto insieme, come fosse un’indigestione. Riconosco alle serie di aver cambiato il linguaggio del racconto e anche la fotografia, ma con il cinema ho un rapporto più autentico e misterioso. 

La tua scrittura è cinematografica fin dalle tue prime canzoni. La fantascienza de Il mostro, il realismo di  Chicco e Spillo…

Per i pochi minuti che ha a disposizione una canzone – tre di solito, cinque quando esagero – può avvicinarsi a un piccolo film. Riconosco di usare elementi della lingua del cinema. C’è del montaggio, ci sono gli stacchi, i primi piani. Però ciò non è tanto una scelta, quanto la natura stessa dello scrivere. Chissà, forse la causa è anche nel fatto che avrei voluto avere la forza d’animo per fare il regista, ma il mio è un lavoro più personale, e forse solitario, rispetto alla realizzazione di un film. Anche se anche per fare un disco c’è una troupe, che può aggiungere o togliere alle canzoni. 

Ci sono film che hanno influenzato la scrittura delle canzoni o il disegno dei personaggi?

Magari a livello inconscio, non consapevole. Potrei aver assorbito delle suggestioni come una spugna. Ma forse è più divertente che chi ascolta e analizza le canzoni giochi a cercare dei riferimenti, anche perché il cinema si presta molto al gioco.

Qualche indizio.

Su Pixel, ad esempio, c’è qualcosa delle atmosfere di Vangelis per Blade Runner, che mi rapiscono tutte le volte che guardo il film. Il protagonista di Harakiri potrebbe avere qualcosa dell’immaginario di Kusturica o del neorealismo italiano. E poi alcune sequenze de Il tiranno potrebbero avere dei richiami che arrivano da Mario Bava (“Trovo la porta aperta già / e lungo il corridoio procedo a piedi scalzi / nella mano tengo un rasoio / e poi c’è la luna che si gode dall’alto la scena / a un millimetro dalla sua gola / la mano però mi trema”, ndA).

È impossibile non pensare a Lucio Dalla, divoratore di film e autore di canzoni “filmiche”. Meri Luis, per esempio, che tu spesso hai citato. 

Certo, Meri Luis è come i racconti di Raymond Carver da cui poi Altman ha fatto America Oggi.

Dalla a parte, ci sono altre scritture che ti hanno influenzato e che magari non consideriamo spesso pensando alla tua canzone?

Posso dire che se oggi faccio il cantautore lo devo molto all’entusiasmo che mi provocò, quando ero bambino, Angelo Branduardi. E poi Battiato: La voce del padrone è stato un meteorite che si è abbattuto sulla mia estate di ragazzo a Cattolica, ricordo ancora di aver comprato il disco con la paghetta. E poi, per la musica, Lucio Battisti. 

Non c’è solo il cinema in Cinema Samuele. In Scorrimento verticale al centro c’è un altro tipo di schermo. 

Era una canzone già pronta prima del Covid. Una notte sono andato dai miei genitori e sul lungomare di Cattolica osservato dei ragazzi completamente assorbiti dagli schermi dei loro smartphone. La sensazione che avevo era quella di una passività assoluta. Anche io quando guardo una serie sono in qualche modo passivo, ma se questa forma di passività diventa H24 vuol dire che c’è qualcosa che non va. Questa immagine mi ha ispirato per scrivere la storia di un uomo totalmente disorientato e in un certo senso tossico digitale, che sa di esserlo ma lo dimentica. Però ho voluto comunque evitare di puntare il dito, perché alla fine parlo anche un po’ di me. 

Insieme ai brani in cui canti di personaggi che filmi, ci sono anche delle canzoni più platealmente intime. Il tuo ricordo, per esempio. 

In Il tuo ricordo ho immaginato che il passato e il presente fossero due personaggi in carne e ossa che si rincorrono, e alla fine bisogna vedere se vince il ricordo o il tentativo di lasciarlo alle spalle. Per metterla sempre sul cinema, probabilmente canzoni come questa appartengono a quei momenti in cui non esiste un campo largo, esiste solo un primo piano, se non un primissimo. Soprattutto quando ti racconti, anche nel breve tempo di una canzone, non puoi che avvicinarti. Ma questo alla fine vale per tutti i capitoli del disco: si intuisce che ci sono sempre io dietro. È un po’ come quei registi che, pur attraversando tutti i generi, riescono sempre a raccontare se stessi.

Mi colpisce che il finale di Cinema Samuele sia Distopici (Ti sto vicino). La distopia. 

“Distopico” è una parola che ricorre molto, specialmente nelle serie Netflix, ad esempio. Ho preso questa parola e ho voluto applicarle una specie di trasformazione, come un morphing: da distopici si arriva a ti-sto-vici-NO. Nella canzone parlo di distanziamento già prima del lockdown, perché immagino uno scenario apocalittico in cui la Natura è stata distrutta e gli esseri umani cercano un posto dove nascondersi.

Ma si chiude su una nota luminosa: è una speranza per il periodo che viviamo?

È chiaro che in termini non solo materiali ma anche psicologici ci sarà una ripercussione di tutto questo che stiamo vivendo. Però, nonostante tutto, io vedo comunque la possibilità di una luce. Dico sempre che non sono obbligato alla speranza: perciò penso che sia nella Natura umana di riuscire, a un certo punto, a rialzarsi. 

Se mi concentro riesco a restare in equilibrio.

Questa è Meraviglia, già (da Caramella smog, 2003, ndA). Siamo sul filo ma restiamo in equilibrio.

Intervista apparsa su FilmTv, n. 42/2020