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Bologna è una regola

“Piazza Maggiore è accogliente, rassicurante, rassicurata anche dai portici che la circondano. È sempre stata il salotto nel quale anche divergenti pensieri si ritrovavano”, afferma il regista Massimo Martelli intervistato in La piazza della mia città. Bologna e lo Stato Sociale. Diretto da Paolo Santamaria, il concert-film intreccia la parabola ascendente della band più dibattuta della scena indie-pop anni Dieci con una storia sentimentale della Piazza centrale del capoluogo emiliano. Attraverso i micro-racconti di figure di spicco della cultura e dello spettacolo cittadine appartenenti a generazioni diverse, da Luca Carboni al direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli fino allo youtuber Luis Sal, si rievocano momenti e aspetti cardine dell’identità collettiva di Bologna, molti dei quali hanno proprio la piazza come teatro elettivo: la compresenza di religiosità istituzionale e laicismo nell’identità del bolognese-tipo (S. Petronio e il vicino palazzo del Comune), la Resistenza e Liberazione, lo stragismo e i funerali di piazza. Anche se naturalmente ci sono gli omaggi Lucio Dalla, Francesco Guccini e soprattutto Roberto “Freak” Antoni, la figura forse più influente sulla “non-estetica” de Lo Stato Sociale, il documentario non si sofferma più di tanto sul legame tra “Bologna vissuta” e “Bologna cantata”, una traccia che potrebbe essere al centro di intere disamine (e infinite puntate di Techetechete, che attendiamo sempre con giubilo). 

Nel gioco eterno della topografia urbana della canzone italiana, una sorta di medievale Palio dei Comuni sopravvissuto e riconfiguratosi anche nell’era dello streaming, Bologna difende da sempre un posto in zona Champions, con qualche Scudetto di mezzo. La sua forza è da sempre il legame con la canzone d’autore, l’essersi offerta come teatro urbano accogliente e informale tanto agli artisti nati nel labirinto dei portici, tanto a quelli che qui son venuti a insediarsi (c’è un civico anonimo diventato più iconico del 43 di Via Paolo Fabbri?). La mitologia attrattiva è quella delle notti senza fine in luoghi fumosi come Da Vito o la gucciniana Osteria delle Dame, sperando di ritrovarsi magari in una jam session alcolica da raccontare ai posteri per l’eternità, ma in verità il rapporto fecondo tra Bologna e i suoi artisti si spiega solo allargando lo sguardo alla lungimiranza e al coraggio del suo intero sistema culturale pubblico e privato: il DAMS, le accademie di jazz, la Cineteca, l’imbattibile rete di sostegno pubblico al teatro, per citare solo alcuni elementi, e naturalmente gli studi di registrazione come la Fonoprint, dove nasce e si consolida il suono italiano del pop anni 80 (da Bollicine ai gioielli di Carboni, tuttora emulati). 

Oggi la Bologna dei cantautori è un brand buono per farci mostre e itinerari turistici alternativi, ma limitante verso quel che la città ha fatto per la musica leggera tutta nazionale, soprattutto quando la fase esplosiva del cantautorato ha cominciato a declinare lasciando campo alla domanda di suoni altri. Sarebbe più consono sostenere che, più che dare il concime alla canzone d’autore in sé, Bologna ha sviluppato negli anni un’innata capacità di intercettare il nuovo e concedergli un tessuto libero a cui intrecciarsi, probabilmente grazie alla sua naturale inclinazione a farsi punto di convergenza di altre italianità in cerca di approdo (“Bologna ombelico di tutto”, cantava Guccini) alla sua inclinazione a irridere ciò che nasce nell’underground e sogna il mainstream (sempre Santi furono gli Skiantos), al suo essere transito perenne di fuorisede e accampati della vita, semiologi dell’inutile e antagonisti dell’antagonismo dell’antagonismo… Una mescola stupefacente, un propulsore di idee puntualmente fagocitate e trasformate in industria o ministero da Milano e Roma, che Bologna ha continuato ad alimentare paradossalmente proprio allontanandosi dalla sua Maggiore delle piazze e sedimentandosi nelle periferie: dal Covo al Q Bo, dall’Isola nel Kantiere al Link fino al Cassero, Bologna dopo i cantautori ha fatto fermentare l’hardcore e l’alt-rock italiano degli anni Novanta, la cultura dell’associazionismo gay nazionale e la primissima scena rap italiana, quando le posse erano una proposta artistica integrata nel palinsesto dei centri sociali. Basterebbe ricordare che è profondamente bolognese, nei crediti e nelle immagini evocate dei suoi testi (“Cani nelle strade delle città / etutto sembra uguale, ma qualcosa non va”), l’album tuttora ritenuto dalla quasi totalità degli addetti ai lavori il più importante del rap italiano, o almeno quello generativo: SXM di Sangue Misto, cioè Deda, Dj Gruff e Neffa, uno che per la sua carica innovatrice meriterebbe sì una statua cittadina (che però, per la sua ostinata discrezione, troverebbe inopportuna).

Tutte queste scommesse Bologna le ha avanzate assorbendo le ultime energie ispide e radicali delle Orde barbare che occupavano le case del Pratello all’inizio degli anni Novanta (per citare un illuminante documentario d’epoca del regista Cosimo Terlizzi), forse le ultime onde contestatorie vere e proprie prima che la città entrasse anche lei, in fondo indifesa di fronte all’urto di fuoco del mondo globale, in un’epoca di gentrificazione e spopolamento del centro, di amministrazioni (bi-partisan) elette con l’illusione eterna del richiamo all’ordine e alla sicurezza e di telecamere all’ingresso delle sue antiche porte. La ZTL come fine simbolica di un’utopia, non a caso evocata come spauracchio da ben due recenti canzoni di artisti che sono pezzi inscindibili del suo DNA cantautorale: Dark Bologna di Lucio Dalla (“Chissà se in questa strada si può entrare oppure no? / Ah no, c’è Sirio, ma che due maroni”) e la straordinaria A Bologna di Samuele Bersani, velenosa fotografia della fine di un’era (“Con i sonnambuli sul cornicione / fra telecamere antintrusione / a ritmo dei semafori io resto immobile / chiudendo gli occhi per riaprirli altrove”). 

Dunque è tutto finito? Tutt’altro che no. “Mi ricordo le strade in cui ti ho promesso che sarei cambiato / ma non ho capito come si fa, come si fa”, canta Carboni nella recente Bologna è una regola, e coglie nel segno. Bologna è diversa ma è ancora Bologna, magnete del nuovo che avanza e rimette in crisi quel che c’era prima, solo che il suo ruolo è in parte meno visibile di prima, ovattato forse proprio da quella sua mitologia ingombrante. Negli anni Dieci l’industria ha dovuto rivedere con urgenza i suoi canoni di fronte alla nuova lingua praticata da artisti emersi rapidamente grazie al self-made digitale e – ancora una volta – a un’improvvisa necessità di irridere le parole e i suoni di chi c’era prima; e così il nuovo indie (o l’itpop, a seconda delle etichette apposte), coagulato attorno alla Roma più decadente di sempre, comincia a emettere segnali di fumo in realtà proprio a Bologna, scegliendosi come nume tutelare un altro bolognese fiero (Cesare Cremonini), come squadrone d’assalto Lo Stato Sociale e come profeta un fuorisede-tipo, di quelli che a un certo punto ci si chiedeva se esistessero ancora, se fossero ancora deambulanti tra la presentazione di un graphic novel a Modo Infoshop in via Mascarella e i questuanti di Piazza Verdi: si chiama Calcutta, è nato a Latina e nei suoi versi c’è ancora tutto quel che Bologna sa farsi da sempre: il sogno di una città-portico-rifugio per qualsiasi residuato umano, un fondale contro cui urlare senza passare per strani, il set di una notte da vivere come un disperato erotico, un esorcismo contro la solitudine di una generazione modificata biologicamente dalla precarietà materiale e sentimentale. Bologna casa – da abitare, o da occupare – in cerca dell’amore: “E ho fatto una svastica in centro a Bologna / ma era solo per litigare / non volevo far festa e mi serviva un pretesto / per lasciarti andare”. 

*Volevo fare una playlist per raccontare Bologna in canzone, ma alcune tracce sarebbero state imprescindibili e altre, forse, inspiegabili. Perciò non aggiungo parole, e mi limito a depositare qui un’oretta di suggestioni. 

Articolo apparso su FilmTV, n. 37/2020