
Le 40 canzoni del 2020 di Unadimille
Premessa. Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di compilare una classifica di canzoni in un anno in cui la musica è stata sospesa, congelata e messa rapidamente in una dispensa ben lontana dalle necessità primarie della società dell’emergenza. Io stesso ho scritto pochissimo su Unadimille: le parole, semplicemente, sembravano fuori contesto. Ma ragionando sull’eventuale lista sono arrivato alla conclusione che le canzoni esprimono l’anima del loro tempo anche nel loro essere platealmente fuori contesto: la presenza di un prima e di un dopo il virus risuona, a volte in maniera lancinante, nell’alternanza tra le canzoni che ho selezionato, tra quelle che – a posteriori soprattutto – rimbombano di futuro e pulsione trasformativa e quelle altre che si lacerano dentro l’impotenza dell’artista costretto al brutale distacco dal pubblico, mai ricompensato abbastanza dall’amara consolazione dello streaming. Non può che essere una classifica ancora più relativa delle altre che ho prodotto negli anni passati, a maggior ragione visto il numero esorbitante di uscite che hanno segnato l’anno: perciò leggetela in questi termini, come un album di spaesamenti, disorientamenti, speranze cadute ma ancora non stecchite.
Questa classifica è stata pubblicata in versione cartacea, per la prima volta, come inserto di otto pagine staccabile su FilmTv n. 51/2020. Alcune delle schede che leggete qui di seguito sono riviste e ampliate. Le posizioni sono comunque conservate.
Per ascoltare la playlist, cliccate qui.
Se volete approfondire, è disponibile “Unadimille – 1000 canzoni italiane dal 2000 a oggi, raccontate“, il mio primo libro: 500 pagine per scoprire come le canzoni hanno interpretato pulsioni, emozioni e tensioni di questi vent’anni.
40 – La Scapigliatura – Rincontrarsi un giorno a Milano (feat. Arisa) (Tetoyoshi)
La melodia leggiadra, ossigenata dal canto di Arisa, non dà conto dell’amarezza di Rincontrarsi un giorno a Milano: nel breve incontro tra ex amanti che passavano le domeniche fumando spinelli, ascoltando i Baustelle e parlando dei guai del PCI, c’è l’impietoso specchiarsi di una generazione rimasta stordita da un passato di inedia dandy e peso politico decrescente fino all’irrilevanza. E il ricordo, pur tenero, non lascia strade ad alcun futuro: salutarsi dicendo “Tu sei sempre da Lele Battista” equivale ad ammettersi ancora marginali (Battista, già leader dei La Sintesi e autore di pregio, è l’emblema dell’indipendente ignorato dal pubblico). La Scapigliatura ha vinto la Targa Tenco nel 2015 per poi fermarsi cinque anni, quelli in cui l’indie è stato fagocitato dal pop: che ripartano proprio da qui, è una scelta perlomeno audace.
39 – H.E.R. – Il mondo non cambia mai (Joseba Publishing)
Premio Amnesty emergenti e finalista a Musicultura 2020, dove è stata respinta da un voto popolare fin troppo tradizionalista, Il mondo non cambia mai è una delle più importanti canzoni transgender italiane di questi anni. Ritmicamente serrata e umoralmente abrasiva, esprime l’urgenza di un punto di vista che, dove non è trattato con pietismo insopportabile, è oggetto della crescente minaccia di sparire dal radar della difesa dei diritti essenziali, specialmente in una società dove persino la comunità LGBT sta implodendo in una serie di divisioni assurde. Ma è anche un brano sul confine tra rivendicazione e pretesa, sui nuovi tribalismi e sulla pericolosa parificazione delle istanze, temi che la voce e il corpo di H.E.R., con una punta di sarcasmo, rivestono di inedita credibilità.
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38 – Venerus – Canzone per un amico (Asian Fake/Sony)
Confezionata in un paio di settimane all’inizio della primavera e pubblicata senza il vincolo di un album, Canzone per un amico è la You’ve Got a Friend di Venerus, affine nello spirito e persino nella struttura al classico di Carole King. L’eccellente produzione di MACE guarda al nuovo RnB (JMSN, Anderson .Paak) riempiendo il quadro sonoro di una sensazione calda e tattile, di grande intimità. Pare di essere stati autorizzati a entrare in punta di piedi in uno spazio privato, abitato da un conforto così tangibile che riesce a investire anche noi che ascoltiamo. Perché, sebbene non venga mai menzionato, il motore che anima la dedica lo conosciamo tutti: la solitudine forzata. E magari, se le canzoni non curano, sanno ancora fare quel che fanno da secoli: farsi messaggere di cose buone.
37 – Anna Tatangelo – Guapo (feat. Geolier) (Argentavision)
Che i tempi siano tornati clementi verso il napoletano lo rivela non solo il successo nazionale di una pletora di nuovi rapper (come Geolier), ma persino il fatto che un’artista come Anna Tatangelo abbia impiegato quasi vent’anni per adottarlo, e farci persino un singolone estivo. E meno male: grazie a un impianto musicale sinuoso e non assordante – l’idea di una bossa intinta nella trap – Guapo spezza le reni a molti emuli latineggianti fabbricati in serie per il caldo. Lui promette lusso e si strugge per la sua imprevedibilità, lei rivendica la sua follia come gesto di autonomia: l’archetipo è granitico ma Lady Tata sembra divertita e sciolta nel gioco delle parti. E quella punta di dileggio ironico e provocante che c’è nel suo “guapoooo” fa parteggiare per lei senza riserve.
36 – Francesca Michielin– Riserva naturale (feat. Coma Cose) (RCA/Sony)
Prodotta da Frenetik & Orange, Riserva naturale è l’episodio più suggestivo di Feat, l’album urban di Francesca Michielin. La metrica spezzata e contemporanea si adagia su un suono nu-soul notturno e sfumato, con qualche richiamo alla Giorgia del periodo Stonata, che traduce con intensità le immagini del testo, in bilico tra la ricerca di contatto in una società iper-tecnologizzata e il richiamo alla natura come evasione curativa. I Coma Cose ci mettono i loro consueti calembour, ma il brano funziona perché il totale è superiore alla somma delle singole parti. La versione live in studio visibile nello speciale Il mio stato di natura (su Raiplay) rende giustizia alle qualità della Michielin più di quanto faccia l’intero album, un po’ schiacciato dalla sua frammentarietà.
35. Populous – HOUSE OF KETA (feat. M¥SS KETA, Kenjii) (La Tempesta)
Concept sulle incarnazioni del femminile nell’era contemporanea, W è un disco che fa a pugni con il distanziamento sociale: la sua musicalità gioiosa e iper-fluida non può essere goduta appieno senza il concreto intrecciarsi dei corpi del clubbing o di un Pride. HOUSE OF KETA ha l’allure del Manifesto: “My house, my rules, my pleasure” fa imperiosa la MYSS e cita luoghi, personaggi e serate tratte dal lemmario base della notte queer milanese, destinando espressioni cifrate ai suoi fieri abitanti (“Walko la runway andando a lavoro”). Un codice non escludente, che punta a sedurre chi ne è fuori: perché è dai tempi della disco HiNRG dei primi anni Ottanta che la notte sa farsi Casa per tutti, seminando la trasformazione culturale. E che la house riapra, oggi, è una necessità politica.
34. Carolina Bubbico – Bimba (Sun Village Records)
In Il dono dell’ubiquità, terzo album di Carolina Bubbico, il jazz agisce come un’aura ludica e mai seriosa, tra future RnB, disco sfacciata e detour subequatoriali (c’è anche Baba Sissoko tra gli ospiti), in un clima di rara vitalità. Emblema del tenore generale è Bimba, elettrizzante future-funk che omaggia Call Me Maybe di Carly Rae Jespen e cita Little L di Jamiroquai. È il ritratto ironico di una donna la cui sfida alla notte si carica anche di una valenza femminista, ma si può leggere anche come una metafora del ruolo della Bubbico nel panorama italiano: troppo irrispettosa delle cerimonie del sistema jazz per essere trattata come una fuoriclasse (lo è) e troppo elaborata (o troppo jazz?) per diventare una popstar. L’identikit di un’artista contemporanea, insomma: se non fosse Italia.
33 – Speranza – Iris (Sugar/Universal)
L’ultimo a morire, album d’esordio di Speranza, conferma la sua statura da rapper di prim’ordine, poco interessato allo sfoggio gratuito, molto attento alla verità del suo storytelling. Iris è il perno emotivo del disco, in cui il flow crudissimo ribolle più che altrove: fotografia un rancore che monta per un amore tradito e ci conduce nella visione di una vendetta autodistruttiva, tra minacce supposte, fughe nell’alcol e persino un arresto. Un itinerario duro che cerca la sua sublimazione dentro la testa (e nello stesso fare musica) per non sfociare in realtà, come il finale sembra suggerire, e che il multilinguismo di Speranza – che apre in arabo e rappa in francese, italiano e napoletano, su un beat venato in gypsy – potenzia nell’effetto, quasi che per esternare tutto non bastasse una lingua sola.
32. Marco Giudici – Nei giorni così (42 Records)
È bello e sorprendente l’esordio di Marco Giudici, un tempo attivo con il moniker Halfalib e qui finalmente cantante in italiano. Prodotto con Adele Nigro (Any Other), Stupide cose di enorme importanza è tra i pochi album del 2020 che esplorano nuove strade, tant’è che per cercare parentele bisogna chiamare in causa nomi come Robert Wyatt (si!). Nei giorni così è una sintesi del suo metodo: melodie che si arzigogolano senza difese attorno a poche note di piano elettrico immerse nel silenzio, squarciate da strisciate distorte o fantasmi jazzati. Tutto è interiore, come i frammenti emotivi che si aprono nei versi, ideali per un tempo della limitazione assoluta: “Le botte sullo sterno e poi corrodersi il dorso / col vuoto d’aria / che buca il petto / per dirmi che / sei un guaio allo sterno”.
31 – Ghali – Good Times (Sto/Atlantic/Warner)
Presentata a Sanremo e subito rilanciata da uno spot, Good Times è forse la hit più parodiata dell’anno, suo malgrado o per suo beneficio. Non solo per i tanti che hanno storpiato “il mood” da non uccidere in un surreale “il Buddha”, ma anche perché la preghiera di mantenere una “bell’atmosfera” è sembrata un’antifrasi beffarda per l’Italia colpita in knock out dal virus. Eppure il suo segreto è lì, in un’allegria che sembra sempre a un passo dal disperdersi, e in un passo electro-funk che procede dinoccolato, quasi mantenesse Ghali in equilibrio precario. Chi ha amato il ritratto che ne ha fatto Ivan Carozzi in L’età della tigre, può leggerci una rappresentazione del suo turbolento status da popstar sfuggente: “Giornalisti si moltiplicano, Gremlins / Ho già risposto a ‘sta domanda se rileggi”.
30 – Ernia – Superclasico (Island/Universal)
Gemelli, l’album della consacrazione del rapper Ernia, è stato astutamente lanciato da una morbida ballad che attinge ai codici del pop-rap più collaudato (vedi alla voce: Coez). Esperimento riuscito: Superclasico è una delle poche hit che abbia colpito il pubblico in maniera intergenerazionale. Perché “però mi si ferma il battito”, scagliato così, sospeso un secondo nel vuoto dopo l’esclamazione “Dio che fastidio” è un gancio perfetto, una costruzione lirico-ritmica degna del Max Pezzali più in forma: traduce l’eterno sobbalzare del cuore per la persona che si ama e per cui si prova tormento magari, idiotamente, a causa di un vecchio ex “che è un coglione galattico”, un’altra rima che sta esattamente dove deve stare. Non è un conforto che il pop sappia essere ancora soltanto questo, nel 2020?
29 – Bonetti – Non ci conosciamo più (Bravo Dischi)
Qui di Bonetti è disco sulla ricerca di punti fermi di una generazione di quarantenni che si percepisce sormontata da un senso di solitudine ineluttabile, come intende evocare l’uso di una bella foto di Luigi Ghirri per la copertina. Incrociando Destroyer con il Battisti dell’era Io tu noi tutti, Non ci conosciamo più colloca questo disorientamento nel cuore della Milano post-Expo, crocicchio di speranze quanto facile mantello dell’invisibilità. Con un’abilità descrittiva così acuta da farsi preveggente, come se il lockdown, su un piano emotivo, fosse già cominciato: “Ora che il presente è passato / che quello che era certo è cambiato / che aspettiamo un abbraccio ad un binario abbandonato / che c’è una voce che dice per ore, mesi ed anni / che non bisogna aver fretta, niente affanni”.
28 – PSICOLOGI – Spensieratezza (Bomba Dischi/Universal)
Che rivoltino l’emo-rap, il nuovo indie o persino il rap di vecchia scuola, le canzoni degli Psicologi non sono mai questione di genere ma di colore, e di colore generazionale: le categorie sono già acquisite, una paturnia da vecchi, puntiamo al cuore dell’emozione. In Spensieratezza la perdita della tenerezza si riflette nel paesaggio: marciapiedi sporchi, panchine in rovina, feste di merda, un cielo visto da un parcheggio, tutt’altro che blu. È uno spazio concreto – Napoli e Roma gusci inospitali per un ventenne – ma è soprattutto una dimensione mentale, questa sì, universale: il domani è già afflitto da una mancanza che pesa come una voragine, e i versi concitati come un moto d’ansia cronico parlano di un aggrapparsi all’idea di una spensieratezza passata come unica resistenza possibile.
27 – Joan Thiele – Puta (Polydor/Universal)
Sinuosa e aerea, dotata di una sensualità sfuggente, Joan Thiele è un’artista molto più contemporanea di quanto il panorama pop nostrano sia oggi in grado di assorbire. In Puta ridisegna il suo passato al di sopra delle identità nazionali (lei sarebbe italo-svizzero-colombiana, ma la biografia è più complessa di così) tessendo un filo sottile quanto di fremente intensità con la figura paterna, in cui convivono spagnolo e italiano, geli electro, rap e tenerezze folk. Affine a Soldi di Mahmood ma meno inquisitoria, è anche una canzone di auto-affermazione della propria coscienza di donna, che spegne la rabbia immergendo il riconoscimento dei limiti dell’altro in una dolcezza tutta musicale. Non perdetevi la live session del brano pubblicata su youTube, vetrina del suo carisma urban.
26 – Tutti Fenomeni – Trauermarsch (42 Records/Sony)
Prodotto da Niccolò Contessa, Tutti Fenomeni è una delle proposte più singolari dell’anno. Il lessico, tra filosofia ed esistenzialismo trap, è frullato fino al punto in cui è impossibile separare la sagacia dal nonsense, e i richiami a Depeche Mode, Bluvertigo e gli stessi I Cani sono così esibiti che più che debiti di stile paiono attentati ludici di un situazionista. La sua marcia funebre ha il passo del Rondò alla turca malsuonato al basso sintetizzato di una vecchia tastierina Roland, tira in ballo Carlo Magno, Enrico Fermi e Richard Feynman e finisce in un inquietante antro rituale, tra Chopin e l’autotune. Un patchwork così spiazzante da intrigare e, forse, una celebrazione di chi scombussola i piani della Storia, in forma di reincarnazione: “Sono lo spartiacque, sono la trauermarsch”.
25 – Lucio Leoni – Nastro magnetico (feat. Mokadelic) (BlackCandy)
Ambizioso nelle intenzioni e gratificante negli esiti, Nastro magnetico è un oggetto di confine: in otto minuti racconta una storia usando i codici della sceneggiatura e fornendo esplicite indicazioni di regia, quasi filmasse cantando; la storia, a sua volta, ruota attorno a un Vhs smarrito e ritrovato, e si attorciglia nel finale. Ah: c’è anche un corto vero e proprio (regia: Zero), che devia alla sua maniera la sceneggiatura cantata. Cervellotico? Un po’, ma avercene: il pericolo del giochetto metafilmico sfuma proprio in virtù della qualità immersiva della musica, tra il recitativo solenne e misterioso di Lucio Leoni e la ricchissima colonna sonora dei Mokadelic, massimi esperti del tema. E alla fine è soprattutto una storia d’amore perduto, contorto come i veri rimpianti.
24 – Blanco – Notti in bianco (Island/Universal)
Dove si è rifugiata l’origine demolitoria della trap in fuga dal brodo freddo dell’omologazione? Forse un indizio ce lo dà Blanco, classe 2003, dal Garda ai giri virali di youTube con un paio di tracce di cui una, Notti in bianco, di potenza travolgente. La produzione di Michelangelo dondola tra nostalgia e furia hardcore come una Born Slippy per l’era del Soundcloud rap, mentre la voce ulula di sesso ricordato e perduto con una dirompenza che sembra scassinare la freddezza di ogni filtro digitale sulla voce. Il calco di Achille Lauro è palese, ma lì dove Lauro è sulla strada dell’artificio massimo, qui è tutto umorale, marcio e fieramente sudicio. L’atto masturbatorio come immagine della libertà, come Chiamami con il tuo nome: la giovinezza, insomma, anni luce più viva della trap da delivery.
23 – Lucio Corsi – Freccia bianca (Sugar)
Nelle canzoni di Lucio Corsi le emozioni dei marginali della società sono trasfigurate in racconti popolati da creature fantastiche ed entità inanimate che prendono vita. Dopo l’intimismo magico di Bestiario musicale, in Cosa faremo da grandi? si apre a un racconto più autobiografico, sempre piegando il realismo all’immaginazione. In Freccia bianca la malinconia del pendolare filtra dal viaggio di un treno descritto come “lo spirito di un capo indiano”, che entra “dentro le bocche spalancate delle montagne in Liguria / per poi sparire nel manto bianco della pianura”. Anche la musica lavora per trasfigurazioni: la tristezza suburbana si scioglie in scintillanti colori glam, tra Bowie e i Mott the Hopple, quasi bastasse cantare e suonare per sostenere tutto. Quasi bastasse non smettere di sognare.
22 – Ariete – Amianto (Bomba Dischi)
Chiudendo live e altre forme di promozione fisica, il lockdown ha fatto implodere la scena indie pop già satura. Così è già tempo di nuove scritture, figlie dell’isolamento come dato di fatto e pensate, prima di tutto, per riempirlo. Classe 2002, Ariete ha concepito l’Ep Spazio durante il lockdown primaverile, in una stanza da liceale, con un iPhone e le sue cuffiette. L’ascolto sorprende perché è tra i pochi suoni che rimbomba realmente di quel tempo sospeso: fantasmatico, consapevole della sua gracilità forse eterna, eppure immerso in una dolcezza confortante, che sa di autenticità da preservare. In Amianto canta l’amore che ha già la coscienza della sua tossicità, ma che non può che essere attraversato per intero: sul fondale, l’amianto e le esplosioni irradiano il colore plumbeo di un’apocalisse già avvenuta.
21 – Umberto Palazzo – Il moscone (2093500 Records DK)
Ci sia aspetterebbe che un disco nato in piena solitudine epidemica irradi umori oscuri. Invece L’Eden dei lunatici, il ritorno di Palazzo nove anni dopo il notevole Canzoni della notte e della controra, sprigiona essenze breezy e pre-estive e canta baie e riviere in un microclima riscaldato da Battisti e Enzo Carella. È un suono benefico, che distoglie dal peso mentale del virus. Sibilante come Il moscone dell’omonima traccia, in cui Palazzo filma una fuga in barca venata di erotismo adriatico e morbidamente allusivo, tra Malizia e Lina Wertmuller, citata nel testo. Una canzone sulla necessità di lasciarsi distrarre, magari dal sesso, anche solo insinuato: “Molto bene, immaginavo / cara Giulia neanche a lei piace il lockdown / com’è dolce cara Giulia / star con lei e andare alla deriva”.
20 – Anna – Bando (Virgin/Universal)
Nel 2020 non c’è forse stato nulla di più virale, nel senso di ossessivo, di quel «bendo sopra il booster» che ha tracimato l’argine di TikTok per invadere ogni spazio vitale concesso all’acustica. Un po’ come era accaduto una decade fa con 212 di Azealia Banks, il segreto del contagio è in un granitico beat house-rap (del producer Soulker, che ne ha prima bloccato l’uso e poi, fiutato l’andazzo, ha autorizzato il tutto) e nel rapporto ritmico con la voce che lo cavalca: sciolta, sfrontata e arrogante quanto serve. Anna Pepe, 16 anni, è una scommessa ancora tutta da definire, ma forse il fascino di Bando è anche qui: in un’apparizione dal nulla che si appiccica all’istante con il suo mastice di neo-girl power in salsa rap, cassa dritta e ambizioni da instant classic: “Anna fattura e no, non parlo di buste”.
19 – Frankie Hi-NRG MC – Nuvole (Materie Prime Circolari)
Decano del rap italiano quanto eterno estraneo alle questioni sull’evoluzione della scena nazionale, Frankie è l’autore di uno dei pezzi rap più importanti dell’anno, che si rifiuta di inseguire i mutamenti del gusto e invoca l’utopia di profondità della scuola degli anni Novanta (scratch compresi). Inquadra, con lucidità letteraria, lo stato sociale del vivere ai tempi della pandemia, fuggendo dal descrittivismo spicciolo e inabissandosi nell’oscurità dei comportamenti. Tra droni che inseguono corridori e vicini che trascinano “cani di cartone sui vialoni”, coglie la tesa battaglia mentale tra un’illusoria fiducia negli altri e l’insofferenza che monta per il loro menefottismo. Rap condominiale, dove il condominio è un Paese sprofondato nel buio, cupo e (finalmente) realista.
18 – Paolo Benvegnù – Pietre (Black Candy)
Superata la ricerca cosmica di H3+, in Dell’odio dell’innocenza Paolo Benvegnù guarda la realtà con occhi disillusi e versi densi e insieme immediati. Con una caparbietà che elettrizza persino il groove, Pietre inchioda al muro categorie dell’umano indefinite eppure riconoscibili: “venditori del mondo in occhiali assolati”, ladri usurpatori del futuro, criminali sponsorizzati. Da un lato la parola manipolatrice che domina un mondo già finito, dall’altro la resistenza della natura che ignora l’uomo e si riprenderà tutto: una visione dell’Antropocene, filosoficamente contemporanea, che poteva farsi emozione musicale solo grazie a una sensibilità visionaria come quella di Benvegnù. “Più conosco gli umani più capisco le pietre / aspettare in silenzio, aspettare la quiete”: ed era solo gennaio.
17 – Post Nebbia – Televendite di quadri (Dischi Sotterranei/La Tempesta)
Una voce filtrata e sotterrata nel mix biascica come se non avesse la facoltà di agire, mentre un ritmo staccato lo incalza con fermezza. Sprofondata nel divano si dichiara pilotata da un telecomando, mentre lo schermo passa sempre la stessa immagine: vendi, compra, fatti comprare anche tu. Il tema di Televendite di quadri non è la teledipendenza ma la vita nell’era della sorveglianza, ed è inserito in un disco, Canale Paesaggi, in cui si canta di bolle e streaming. I veneti Post Nebbia ne fanno il nucleo di un brano che sa di rintontimento psicotico. Tra psych-pop (Tame Impala) e jazz-funk futuristico (alla Tyler, the Creator), la musica è tra le più singolari e immaginifiche emerse in Italia nel 2020, e rimbomba di un presente allucinato, pervasivo e magnetico.
16 – Ghemon – In un certo qual modo (Carosello)
Se in Mezzanotte si era immerso nell’abisso dei propri tormenti, in Scritto nelle stelle Ghemon certifica il raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio, che investe la musica di un’inedita giovialità. Più che di felicità, si tratta di comprendere gli effetti delle forze che ci agiscono intorno. E se la forza è il contatto con un nuovo amore, goderne anche se non si è in grado di razionalizzare. In un certo qual modo brilla di tutto questo: la voce si esalta acuta in preda all’euforia, mentre l’anima ritmica – elegante electro-funk che tiene insieme gli Incognito e i Disclosure – sembra farle da tappeto elastico, quasi imponendole di danzare in aria. Ghemon resta uno dei più fini esploratori dell’ombra nel panorama attuale: qui riesce a farsi leggero senza perdere sostanza, ed è uno spasso.
15 – Carl Brave, Mara Sattei, Tha Supreme – Spigoli (Island/Universal)
Tra le rare tracce multifirma del 2020 che non sembrino mostri a più teste e nessuna anima, Spigoli prende il meglio delle tre identità in campo: la liquida sensibilità urban-pop di Carl Brave, il colore stellare della voce di Mara Sattei (pronta ormai al lancio nel mainstream) e la singolarità melodica del fratello Tha Supreme, passato in un anno da novità da inquadrare a modello da copiare. Mondi lontani che dovrebbero cozzare tra loro e che invece suonano complementari, per una traccia che racconta l’amore come un respingersi e attirarsi tra forme angolari, un perenne credere di fare pace con se stessi per scoprirsi nuovamente inadatti all’altro, ben tradotto nel zigzagare senza tregua con cui il brano supera la soglia dei 4 minuti: un’eternità, per il suo genere.
14 – Achille Lauro – 16 marzo (Elektra/Warner)
Autore a Sanremo di uno stupefacente progetto di autonarrazione artistica brandizzata (da Gucci), firmatario di uscite geniali (1990), atroci (il disco swing) o soltanto alimentari (il repacking di 1969), Achille Lauro è ormai un jolly che finge di prendersi sul serio per proseguire la sua prolifica operazione di rimaneggiamento del nostro pop. Connessa anche a un libro, 16 marzo gioca alla power ballad da stadio, con superdosi di Vasco e del Max Pezzali più glicemico. Funziona? Naturalmente: la rielaborazione del cliché è così accurata da colpire per mimesi, come se Lauro avesse fatto un viaggio nel tempo a uso di tutti i nostalgici di quel modo di fare melodia. E quale miglior canovaccio della nostra tradizione se non la lettera di addio (“Te ne vai come non fosse niente…”) con tanto di data?
13 – Madame – Baby (Sugar/Universal)
Nel 2020 Francesca è diventata maggiorenne, non ha ancora fatto un disco e l’aura di mega-talento che la circonda si è ingigantita ancora più di un anno fa, quando la partecipazione a Persona di Marracash l’aveva esposta senza precedenti. Prima che la responsabilità rischi di schiacciarla, lasciatela divertire ancora come fa in Baby, in cui sfila il miglior armamentario: sensualità sfrontata, naturalezza disarmante, carattere imprendibile. Con intelligenza, il beat dance-rap di Crookers & Nic Sarno nasconde un’anima da tango, ma Madame che fa la ribelle chiedendo libertà ma poi torna a colpire quando Baby si distanzia è soprattutto uno dei suoi più potenti canovacci sulla messa in crisi del cliché di genere (“Le minigonne le lascio alle Ferrari”). Un tratto distintivo che, per ora si spera, la rende unica.
12 – Pino Marino – Calcutta (O’Disc/Pineta)
Tilt, come il suono che fa il cambiamento epocale, è il nuovo album di Pino Marino, cantautore stimato e mai abbastanza conosciuto dal grande pubblico. Si apre con Calcutta, una traccia visionaria, nervosa e poco accondiscendente, che accumula moniti e profezie sulla fine già avvenuta, come se Marino fosse un oracolo inascoltato. Teatro e protagonista della canzone è una Roma malata e incattivita, laboratorio delle nuove paure. L’associazione con la metropoli indiana è un enigma: è un allarme agli usurpatori sulla pericolosità della sua decadenza? O un richiamo alla sua centralità men che mai in un mondo che implode (“Alle lucciole passate da Roma / ai pidocchi che ci vivono in poltrona / qualcuno ricordi che Calcutta rimane / anche per oggi la Capitale indipendente del Bengala Occidentale”)?
11 – ColapesceDimartino, Carmen Consoli – Luna araba (RCA/42 Records)
Omaggio al Battiato pop – nell’accumulo delle immagini come nelle soluzioni melodiche – Luna araba è il brano più solare e lenitivo della joint venture tra Colapesce e Dimartino. Come in Lo stretto necessario, scritta dai due per Levante e anch’essa accarezzata dalla voce di Carmen Consoli, è una costruzione corale che si genera da micro-frammenti di vita e indole siciliana. Le immagini di gare di rutti tra bambini annoiati e di ragazzi scesi dai paesi “a cercare di conquistare nuove terre straniere” evocano la potenza degli istinti primordiali (l’animale che mi porto dentro…) e del desiderio come motore del rimescolamento geografico: protetto e indotto da una luna araba nel sangue, emblema della vita che resiste ai confini imposti in nome di qualsiasi sicurezza.
10 – Brunori Sas – Per due che come noi (Island/Universal/Picicca)
Per due che come noi esplora la fatica delle coppie di lunga durata, non ritraendosi di fronte alla brutalità del quotidiano ma nemmeno cedendo a un cinismo ad effetto. È una scrittura anti-intellettualistica, che non si arrende all’ipotesi di non lasciare una speranza, e questo lo ribadisce nei testi (“che poi chi l’ha detto che è peggio un culo di un cuore” è puro Vecchioni) come nella musica, con il suo placido rimaneggiare Dalla e De Gregori come fossero porti sicuri dove accogliere chi ascolta (il finale alla Futura). Forse la Targa Tenco a Cip! per il miglior album nasconde un intento tradizionalista, ma è indubbio che non c’è un autore come Brunori oggi in grado di cantare la fragilità di una generazione con la chiarezza necessaria per farla comprendere alle altre.
9 – Diodato – Fai rumore (Carosello)
Plasmata in un’economia assoluta degli elementi drammatici, Fai rumore è il classico esempio di canzone che la Storia sottrae al suo scopo originario e applica a nuovi contesti, universalizzandola. Il rumore è quello che disturba il silenzio autoimposto dell’amante che ha perduto l’amata, ma in bocca a una nazione improvvisamente traumatizzata e rinchiusa in casa il “fai” diventa imperativo e incarna una richiesta disperata di presenza. Distesa e dolente, serena nel suo attingere al calco Radiohead anni 90 (Fake Plastic Trees), Fai rumore grida vendetta per un Eurovision che avrebbe certamente vinto, ma almeno lascia in eredità l’accreditamento tra i nomi che contano del nostro pop di Diodato, cantautore dalla sensibilità trasversale e dal pedigree di concreto attivismo politico: ci voleva.
8 – Francesco Gabbani – Viceversa (BMG Rights Mgmt.)
Viceversa è un brano cruciale nel percorso di Francesco Gabbani, il migliore che abbia scritto finora. Complice il tocco di Pacifico che co-firma il testo, esprime una visione fortemente paritaria dell’equilibrio di coppia – rispetto a mille tracce pop in cui continua a prevalere la presenza di un maschio-driver o di una femmina-subente – e una piena coscienza del sogno d’amore che è destinato a scontrarsi con la realtà. Il senso di una vita in due ondivaga e sbilanciata tra alti e bassi, tra sbandate e recuperi, è tradotto da una melodia irta di saliscendi, momenti intimi, crescite euforiche, su scale che si ripiegano su se stesse e che tornano sempre alla base: un motivetto contrappuntato da un fischiettare sornione che sembra scandire l’esistenza quotidiana con precisione infallibile.
Leggi l’analisi integrale della canzone
7 – Elodie – Andromeda (Island/Universal)
Mahmood e Dardust hanno architettato Andromeda come un tour de force interpretativo, con passaggi rapidi, mutamenti improvvisi, saliscendi, ammiccamenti, versi spezzati, acuti screziati. È un pezzo obliquo anche nello stile: se il ritornello suona chiaro e luminoso come l’Europop che cerca il punteggio pieno all’Eurovision, la strada per arrivarci è tortuosa, e passa in pochi attimi da insolite scariche sintetiche (un po’ PC Music) a reminiscenze italo-disco per come potrebbe immaginarsele una Roisin Murphy. Massimalismo e ambizioni future-pop compresse in tre minuti secchi: forse un po’ troppo per vincere Sanremo, dove il brano non supera il 7° posto, ma abbastanza per imporsi come hit più contemporanea dell’anno. E certificare Elodie, versatile e fascinosa, nuova diva urban nazionale.
6 – Tosca – Ho amato tutto (Leave Music)
Targa Tenco 2020 per la miglior canzone, Ho amato tutto si muove dentro la contraddizione tra la mancanza bruciante e il ritorno dell’amato/a che conforta. È una canzone di emozioni assolute e totalizzanti, con il tutto del titolo che evoca abbandono senza razionalità, addii inaccettabili anche se temporanei, desiderio impetuoso di rivivere un’istante. Composta da Pietro Cantarelli, è hollywoodiana nella progressione e teatrale nell’interpretazione di Tosca, intima e spaziosa, flessibile come il mantice di un bandoneon: silenzio, sottovoce, poi una rincorsa di note, la voce che si raschia inseguendo il cromatismo jazz, fuga e sospensione, e di nuovo sottovoce, pianissimo, silenzio. Eleganza, controllo tecnico ed emozione: cose di cui abbiamo perso l’abitudine, cose che si addicono ai classici.
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5 – Francesco Bianconi – L’abisso (Ponderosa)
Forever, l’esordio solista del leader dei Baustelle, è un disco di rara bellezza e profonda nudità, in cui la richiesta suprema di bene è l’appiglio disperato contro un mondo la cui logica è tutta nell’impietosa immagine dei “discografici morti”. Nel flusso continuo che le canzoni tessono tra loro, L’abisso è un picco dolente: il racconto di una battaglia con la paura che tiene in scacco e resta indenne a ogni palliativo (“Le ho provate tutte: psicofarmaci, dottrine / psicanalisi, preghiera ed altri sport”), con un finale che si schiude con decisione all’amore, come arma ultima per affrontare la nuova guerra che incombe. L’arrangiamento soppesa intimismo e dramma come il Battiato più classicista, mentre la voce di Bianconi non è era mai stata così vicina al timbro di De André. E così scoperta.
4 – Samuele Bersani – Il tuo ricordo (Columbia/Sony)
Strabiliante vetrina delle sue qualità di narratore in musica, Cinema Samuele ha il suo climax emotivo in Il tuo ricordo, in cui Samuele Bersani personifica il passato e il presente impegnati in un perverso gioco al gatto e al topo, in cui a capitolare è sempre la pace interiore. La densità metaforica dei versi è impressionante: senza alcun riferimento realistico, tracciano un’esperienza diretta di pulsioni ed emozioni, di ampia immedesimazione (“Il tuo ricordo trova un buco nella rete / si infila dentro il mio cervello e fa il padrone”). La musica segue questo moto di dare e togliere, minaccia e difesa con frasi che ascendono e discendono, simmetriche e complementari; la tensione monta in un crescendo plumbeo e teso, alla National, ma il finale è puro cinema d’autore: apertissimo.
3 – Mahmood – Rapide – (Island/Universal)
Rapide descrive il passaggio più difficile nella conclusione di una storia, quando gli ostacoli alla pace da ritrovare sono messaggi da non mandare, scenate, voci che si mettono in giro. E lacrime travolgenti come rapide. Lo fa con una lingua tutta sua, fatta di iperrealismo urbano (“Quindi perché mi sputtani in giro?”), localismo (Loreto, il bar milanese Love) e ricercatezze (“Il ricordo è peggio dell’Ade”), piegate a una metrica di straordinaria originalità, che applica i codici trap e urban alla melodia all’italiana. Complessa eppure trascinante, Rapide è anche un coraggioso invito alla riconquista dell’autonomia emozionale, in un mondo educato alla schiavitù delle relazioni tossiche: tra note basse e intime e impennate improvvise verso l’alto, c’è tutto lo sforzo fisico del percorso da fare.
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2 – Margherita Vicario – Pincio (Island/Universal)
Da quando lavora con Dade (Linea 77), Margherita Vicario ha pubblicato una sequenza formidabile di singoli (Abauè, Romeo, Giubbottino, Pina Colada) che si fanno beffe con astuzia dei cliché riconducibili al maschiocentrismo del pop (dalle pose da trapper alla pretesa di dominio sessuale). La sua è oggi la più intelligente scrittura al femminile italiana, e Pincio ne è il vertice: una canzone sulla maternità (degli altri), sulla coscienza dell’invecchiare e, soprattutto, sul valore dell’amicizia, che non si tira indietro da espressioni di amore diretto (“Tu non sai quanto ti voglio bene”) ma sa sottolinearle con ironia. Costruita su una pulsazione electro-ambient che cresce e travolge pur cullando l’intimità dei versi, Pincio ha anche il più emozionante video sul lockdown dell’anno: cercatelo, ci siamo dentro.
1 – Bugo e Morgan – Sincero (Tetoyoshi/Mescal/Columbia)
Ci sono canzoni buone e altre con la magia nel midollo: le riconosci quando la Realtà riesce ad appropriarsene, espanderne e trasformarne il senso. E se ci si mette pure la Storia di mezzo, la canzone ripudia le intenzioni dell’autore e diventa un fatto collettivo e in qualche modo eterno. Prima del 7 febbraio Sincero era un’ode dolceamara alle aspettative della vita che si infrangono contro gli eventi e alla necessità di pacificarsi rispetto alla delusione, per potersi comunque inserire nel presente (“Abbassa la testa, lavora duro / paga le tasse buono buono”). La notte del 7 febbraio, nella scena-rosebud del 2020, l’Uno cambia i versi della canzone dell’Altro per insultarlo e l’Altro lascia la scena inquadrato di spalle: la Realtà fa capolino a dire che quei buoni propositi non portano mai al traguardo sperato, e il fallimento non smette mai di sprigionare la sua forza distruttiva (“Scegli il vestito migliore per il matrimonio / del tuo amico con gli occhi tristi”). A quel punto il prisma della Realtà irradia nuova luce su tutto: nei replay ipnotici di quel video un intero Paese vive Sincero come la prova dell’esasperazione da parte di tutto ciò che affossa la nostra rigenerazione e come la possibilità eterna di una rottura del protocollo, in nome di quel che sembra dignità. La canzone rifrange nuova luce e l’Italia si specchia nell’infinito duetto tra il genio sregolato che fa saltare i piani e il mite di cuore a cui strappano anche l’ultima occasione, ride, si intristisce, partecipa, esorcizza. Infine, arriva la Storia, che ingurgita il 7 febbraio e ce lo lascia oggi traccia di un tempo finito per sempre, da rivivere con lancinante disperazione e grande tenerezza, come se Sincero non fosse altro che una dichiarazione di resa, di sincerità tragica ed epocale insieme. Ciò che eravamo non volevamo esserlo, e ciò che volevamo essere, ahimè, non saremo più: “Anche se affoghi rispondi sempre / tutto alla grande”.