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Il cielo in una stanza: raccontare la rivoluzione

Ho conosciuto Laura Rizzo prima come autrice e, recentemente, anche di persona. Qualche anno fa ha pubblicato un libro dedicato a Canzoni a manovella di Vinicio Capossela (Arcana), tuttora una delle più complete e stimolanti opere monografiche su un solo album italiano mai edite dalle nostre parti. Purtroppo la monografia dedicata a un singolo album è un concept editoriale che da noi non ha mai preso troppo piede, escludendo i lavori dedicati ai grandi classici del rock internazionale o, raramente, del jazz, che in generale sembrano i soli ad attirare lettori, forse per ragioni meramente anagrafiche. Negli anni Zero l’editore No Reply ci aveva provato con una serie di monografie a oggetto misto (italiano e internazionale) e alcuni titoli in catalogo di un certo coraggio (dai Matia Bazar a Ugolino!), ma poi più nulla. Considerando che l’omologa serie americana 33 1/3 esiste dal 2003 e conta tutt’oggi circa 150 titoli, alcuni dei quali persino tradotti in Italia, ciascuno può facilmente trarre le sue deduzioni sull’editoria di settore in Italia e, in genere, su quanto ancora da analizzare ci sia del nostro patrimonio musicale (ma questo è un tema enorme, e ne parleremo di seguito).

Amare digressioni a parte, Rizzo torna con un nuovo libro stavolta dedicato a una traccia singola, pubblicato nella collana Songs di GM Press che prova, con un certo fegato, a colmare il vuoto editoriale sul tema. Il titolo è Il cielo in un stanza. Paoli, Mina e una canzone rivoluzionaria e la canzone scelta è l’equivalente di una Guernica per la nostra canzone, una rivoluzione copernicana dietro la quale c’è il cambiamento intero di un sistema di valori, gusti e abitudini che attraversa l’Italia del boom e, in qualche modo, si protrae fino ai nostri giorni. È uno di quei rari casi di libri a tema musicale che riescono ad appagare l’addetto ai lavori ma, soprattutto, a stimolare piacevolmente chi abitualmente si tiene a distanza dal genere. Parliamone.

Dove nasce l’idea di un libro intero su una canzone singola e perché “Il cielo in una stanza”?

Appena terminato il mio primo libro a tema musicale, dedicato al compleanno di un disco bellissimo e meritevole (a mio parere) di una intera monografia (Canzoni a manovella nel 2015 ha spento 15 candeline), pensai di dare seguito a questo filone degli anniversari, ma affinando la ricerca, un po’ come una sfida. In un laboratorio di critica musicale tenuto con una classe avevamo smontato “Se telefonando”, per sequenze, cercando di individuare i momenti salienti e anche provando a cambiarne il finale. Da lì mi venne l’idea di un libro intero sulla canzone, che nel 2016 compiva 50 anni. C’era bisogno di sentire i protagonisti, ne avevo tre a disposizione, viventi. Iniziai da lei, inviando una mail all’ufficio stampa di Mina. Ricevetti risposta, la stessa risposta che danno a tutti: da 40 anni a questa parte non rilascia interviste a nessun titolo. Nemmeno sottolineando se. Provai con Morricone, che ne aveva scritto la musica, ma nemmeno al Maestro riuscii ad arrivare, nel 2016, tra l’altro reduce da un Oscar, quindi imprendibile. Ecco, Maurizio Costanzo, autore del testo (insieme allo scomparso Ghigo De Chiara) non lo contattai. Sarebbe stato un progetto incompleto, una parte di tre solamente. Questo mancato libro mi è rimasto di traverso e dopo 3 anni ho incontrato e conosciuto Donato Zoppo, giornalista e curatore della collana Songs per GM Press. Presentai un paio di volte in giro il suo volumetto su Something (che è il primo della collana) ed ebbi l’idea di proporgli un lavoro su una canzone italiana. Io vivo attraverso i versi delle canzonette. Le ascolto sin da bambina, le studio, le cito come un lessico famigliare, tanto da averne fatto un mestiere, scrivendo di loro. Il periodo dei ’60 mi è carissimo, “Il cielo in una stanza” era nel mio walkman a 15 anni, andando in gita in Grecia, mentre le mie compagne ascoltavano i Duran Duran. Nessuno capiva perché ascoltassi musica “vecchia”. La nemesi lo ha dimostrato: ho incontrato dopo 30 anni Paoli e su quella canzone – che mi ha anche accompagnato da sempre, sia attraverso i vinili che erano in casa, sia nella versione di Mina il cui arrangiamento mi faceva letteralmente impazzire (e innamorare) – ci ho scritto un libro. Gli amori sono amori.

C’è chi sostiene che sia una canzone-caposaldo dell’intera modernità musicale italiana.

Il libro è incentrato proprio sul carattere rivoluzionario di Il cielo in una stanza. Lo stesso sottotitolo la definisce così. Provando a non svelare troppo, ritengo che un brano che riesca a superare il tempo senza sgualcirsi ha in sé qualcosa di eterno, come può capitare a un romanzo, a un dipinto, a una qualsiasi forma d’arte. Il cielo in una stanza non ha rughe, lo ballavano i miei sulla mattonella nei favolosi ’60, l’ho ballato io, nei primi ’90, quando si facevano le feste coi super lenti (cosa che stupidamente è passata di moda): tra le hit del momento, questa arrivava e senza nessuno stupore degli astanti impegnati nella danza guancia a guancia. Paoli continua a cantarla, con nuova veste; e quando parte sul piatto, in radio, in un lettore, io sono convinta che non stanchi mai. La modernità è qui. Esserci e non avere rughe. Avere una vita fuori dal tempo (senza pareti), travalicando anche lo spazio, ma soprattutto riuscire a raccontare generazioni diverse. Nella sua genesi, che ho raccontato, e che è parte fondante del libro, risiede uno dei momenti cardine della svolta nella canzone italiana. Questo brano, il suo autore e la sua interprete portano una ventata di novità sconvolgenti, destabilizzanti che spezzano stilemi e spettinano parrucconi. Il perché è tra le pagine. Sono riuscita ad eludere la domanda?

Nel libro hai raccolto direttamente le parole di Paoli e ti sei potuta avvalere di una preziosa prefazione di Gian Franco Reverberi, un protagonista del tuo racconto. Quale metodo hai adottato per organizzare i contenuti del libro?

Sono di formazione un’archeologa. Ho lavorato in Università e sui cantieri per 15 anni, scrivendo contemporaneamente di musica e questo amore per il passato, per lo srotolamento del tempo è stato evidentemente travasato anche nell’approccio con il giornalismo. In modo spontaneo e naturale procedo per stratigrafie, indago, leggo come un detective, tutto, senza mollare la presa, scandaglio fonti, date, versioni inedite, foto, notizie. Per cui l’organizzazione di questo libro (come anche del primo) è stata necessariamente filtrata attraverso la lente del tempo e di ciò che viene prima, per descrivere il poi, cercando di portare su due binari diversi i due protagonisti, tenendo in piedi il loro pregresso, andando verso il futuro rivoluzionario e lasciando al centro la canzone.

Una singola canzone può essere uno specchio illuminato sui tempi che viviamo. Ma, anche nei casi più platealmente commerciali, è trattata come un soprammobile, un prodotto di industria come un the alla fragola. Che cosa ne pensi?

Mi costringi a fare la passatista, ma tant’é. Sì, vero, siamo in tempi in cui si morde e si fugge, in cui poco senso si trova nei dischi (non sempre, ma spesso). Sono lontani i concept album da me molto amati che dipingevano intorno a un filo conduttore bozzetti cantati di diversi colori e fogge. La canzone oggi ha più packaging che corde (nel senso di cor, cordis: cuore e di tavolozza espressiva); c’è, esiste per un breve tempo, viene infiocchettata e proposta sempre come l’ultimo capolavoro, ma sfiora la pelle, non entra nello sterno. Il coyote di Dalla, per farti un esempio, avrebbe avuto vita a sé anche fuori da quel disco meraviglioso? Sì, per me senza dubbio. Per mille motivi che oggi non sono nemmeno da considerare, per una forza di cento cavalli, per una unicità compositiva, per una idea fortissima dietro. La domanda è: perché oggi nessuno scrive più Il coyote?

In Italia c’è un’iperproduzione di libri a tema musicale che dovrebbero interessare un pubblico fondamentalmente non soltanto di nicchia, ma anche di età media piuttosto alta (i giovani, purtroppo, non leggono libri). Che cosa pensi dell’editoria a tema musicale?

Ritengo che sia operazione comunque salvifica per tutto quello che è il patrimonio musicale. Chi scrive di musica parte senza dubbio da un amore grande, da passione irrefrenabili, da una voglia di raccontare cose che gli hanno squarciato il cuore. Difficilmente si fa per commissione. Scrivere di musica presuppone una preparazione sul tema che deriva da mille ascolti. Ognuno nel suo settore. Che poi si realizzi bene o meno bene, beh, è come in tutte le cose della vita, ma in generale approvo ogni idea nuova o approccio anche folle che possano far avvicinare persone e canzoni, occhi e testi, orecchie e note.

Puoi dirmi chi sono gli “scrittori di musica” che rappresentano per te un riferimento e suggerirmi anche delle opere che consiglieresti come letture imprescindibili?

Ho scritto questo libro con “Canzoni” di Edmondo Berselli (Il Mulino) sotto il polso sinistro. Ritengo sia uno dei libri più belli scritti in materia, almeno se assecondo il mio gusto per l’aneddoto, la precisione della notizia, la leggerezza, l’ironia, la competenza e il saper passare dalla storia del costume all’analisi della poetica di un artista. Che poi sono quelle penne illuminate alla maniera di Mura, di Minà. Testimoni di un tempo, narratori inarrivabili. Tra gli “scrittori di musica” che per me sono un riferimento c’è senza dubbio Vincenzo Martorella, da cui ho imparato questo mestiere. L’ultimo suo libro “Ascoltare/scrivere. Manuale (improprio e antologico) di critica musicale” (Ottotipi) è una summa di articoli davvero illuminanti per stile, modalità, colori, idee, costruzione e un utilissimo vademecum per imparare l’arte difficilissima del narratore di musica (cosa che io ho avuto la fortuna di fare sul campo, frequentando i suoi seminari di critica e giornalismo musicale).

So che sei molto scettica sul contemporaneo, ma ci provo: escludendo qualsiasi artista che abbia esordito prima del 2000, ci sono artisti/cantautori che secondo te tratteremo tra 50 anni come tu hai trattato Paoli?

Ne parlavo l’altro giorno con Gian Franco Reverberi. Se ti dico che lui, classe ’34, è più possibilista di me, vale come risposta?

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Laura Rizzo, esperta e studiosa di canzone italiana, critico musicale, conduttrice radiofonica e autrice. Ha collaborato con «Muz», «Pool magazine», «Musica&parole», «Jazzit». Attualmente scrive per «L’isola che non c’era», «Vinile» e «Quisalento». È autrice e conduttrice di «Storie di casa mia» su Radio Bachi. Insegna italiano agli stranieri in una scuola media serale e collabora con diverse case editrici in qualità di autore ed editor. Nel 2015 ha pubblicato «Vinicio Capossela. Canzoni a manovella» (Arcana). Originaria di Taranto, vive e lavora a Bari. Studia canto leggero.