
Le canzoni di Tolo Tolo
Per un miglio di libertà
Articolo apparso su “FilmTv, n. 3/2020″
Che entusiasmi o lasci interdetti, Tolo tolo è il film dell’ambizione di Checco Zalone/Luca Medici, il grande disegno che supera i confini di un cinema che poteva dirsi pago della sua formula e invece si popola di una miriade di segni, riferimenti, trappole, livelli da incastrare su altri livelli, con la difficoltà aggiunta di mantenersi immediati, far ridere comunque. Nell’architettura comica di Medici, che resta complessa – perché deve apparire bassa anche quando non lo è, vedi la raffinata demolizione della retorica del posto fisso in Quo vado?, per raccontare un Paese costretto a reinventarsi davanti ai nuovi ricatti del mondo del lavoro globale e flessibile – le canzoni giocano un ruolo da sempre cruciale. Se nei quattro film precedenti i momenti cantati entrano direttamente nella narrazione (Gli uomini sessuali dal primo Cado dalle nubi) o come “a parte” ricalcati sul modello del cinema neomelodico post-sceneggiata napoletana (in chiave dissacrante), in Tolo tolo l’uso delle canzoni si stratifica, ragionando sul loro valore dentro la storia del Paese.
Composti con la collaborazione di Giuseppe Saponari e Antonio Iammarino (co-autore di Accetto miracoli di Tiziano Ferro), i brani originali puntano alla dimensione di un para-musical vero e proprio, guidati dal desiderio di maneggiare gli archetipi del cinema classico. Il balletto in stile Esther Williams potrebbe lasciare esterrefatti per la brutalità con cui si appropria di un’immagine “intoccabile” del contemporaneo (i naufraghi nel Mediterraneo) per farne commedia, se non fosse praticato con un candore che è totalmente dentro la sospensione del consentito insita nel musical, da Cabaret al paradosso di Dancer in the Dark. Così come il formidabile finale de La cicogna strabica si appropria del codice della canzone toon per illustrare direttamente ai bambini, tra disegni bidimensionali e sovrapposizioni live action degne di Pomi d’ottone e manici di scopa, la fatale casualità del nascere in un luogo più svantaggiato di altri.
Ma è soprattutto col repertorio tradizionale che Medici alza la posta, adoperando classici di ieri e oggi (Endrigo, Pausini, Ferro) come soundtrack e materia da gag, per raggiungere l’obiettivo principe del film: capovolgere la prospettiva su un tema costringendo l’italiano-tipo-Zalone (e quindi il suo spettatore) a entrare emotivamente nei panni dell’apolide che non ha più nulla da perdere.
Anche se questo comporta persino piegare il senso già condiviso di un brano: La lontananza di Domenico Modugno diventa il lamento deluso che accompagna la presa di coscienza di Checco, reietto dalla famiglia di appartenenza, per quanto possa essere spietata la distanza fisica nel costringere il cuore a un irrigidimento triste quanto necessario per sopravvivere, suggerendo così il dramma provato dai nuclei familiari divisi dalle migrazioni; Viva l’Italia di Francesco De Gregori si rigenera nella celebrazione di quell’altra Italia contemporanea, umana oltre le divisioni politiche, che tutto Tolo tolo cerca in buona sostanza di risvegliare, udita proprio mentre la nave dei naufraghi viene fatta finalmente sbarcare (“Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare” è una risonanza semantica semplice, ma potente).
E poi c’è Vagabondo, il bel classico di Nicola Di Bari uscito due anni prima di Io vagabondo dei Nomadi, che fa gemmare le letture. Baluardo della tradizione, Di Bari ha donato eleganti slanci melodici a storie di nuove famiglie che cambiano l’esistenza degli uomini (La prima cosa bella, già “saccheggiata” da quel Virzì qui sceneggiatore) e nomadismi esistenziali che placano il mal d’amore (Il cuore è uno zingaro). Vagabondo è la canzone di un uomo senza amore che lascia tutto per affidarsi a una tormentata ricerca di buona sorte: integrandola in una scena chiave del film, quando Checco comprende realmente di essere rimasto solo, Medici la trasforma in un canto universale sulla disperazione che motiva alla fuga verso la salvezza, oltre ogni ragionevolezza. Ma poiché Di Bari era anche l’epitome del meridionale in cerca di fortuna al Nord negli anni dell’emigrazione di massa, la canzone riesce a creare un corto circuito temporale, puntando proprio al cuore di quelle fasce d’età più mature che oggi chiedono uno stop all’accoglienza perché, in buona sostanza, non vogliono che “nuovi disperati” possano mettere in discussione la sicurezza economica maturata dopo decenni di fatiche.
Se poi si aggiunge che Di Bari è anche attore nel film, nei panni di uno zio che da Spinazzola architetta la scomparsa di Checco per recuperare i soldi dell’assicurazione – ancora un simbolo dei vecchi un tempo custodi dell’umanità e oggi fautori di una materialità cinica e greve, che non può non essere tramandata – il gioco dei sensi esplode: più dei vari Nuovomondo del cinema italiano degli anni Dieci, più di mille post virali che rapportano invano l’emigrazione di massa degli italiani all’inizio del secolo a quella attuale, Medici/Virzì hanno creato una visualizzazione emotiva perfetta dell’equazione migrante italiano = migrante africano, spina dorsale del film. Prima ancora che con le storie, lo hanno fatto con una canzone: perché la risonanza di una storia cantata sopravvive al tempo e si rigenera sempre, attraverso i gangli della Storia, nel presente.