
Altrove
da Canzoni dell’appartamento, Columbia, 2003
L’origine di Canzoni dell’appartamento, l’esordio solista di Morgan, ha l’aura di certi album leggendari, nati da condizioni di isolamento o dentro contesti fuori dal comune. Dopo aver messo in pausa i Bluvertigo (una pausa eterna, scopriremo), Morgan si chiude in un appartamento della residenziale via Sismondi a Milano, in zona Piazzale Susa. La ricerca di un arbitrario smarrimento e un paesaggio urbano di anonima discrezione ma brulicante di vita hanno un forte impatto sulla sua ispirazione; l’effetto è un innamoramento per la melodia anni Sessanta, italiana e internazionale, in un abbraccio che va dal rigoglioso pop orchestrale della gaberiana Non arrossire alla psichedelia morbida dei Pink Floyd di Se (If) (due cover che danno l’idea dello spettro sonoro dell’album) e che alimenta il barocchismo sfrenato della scrittura, tra arrangiamenti pomposi, soluzioni beatlesiane e digressioni lisergiche.
Anche il lavoro sui testi è privato come mai prima ad ora: la normalità urbana dell’appartamento è illuminata a giorno dall’idillio familiare (la relazione con Asia, trasfigurata nel nome e nel brano Aria, e la nascita della figlia Anna Lou, un esplosivo incontro di vulnerabilità destinato a finire); al contempo, Morgan si scopre lucido analista di se stesso, in squarci riflessivi di sobrietà inedita. Ne viene fuori un capolavoro degli anni Zero, un album che vive e pulsa ancora in uno spazio acustico tutto suo, inattaccabile dai mutamenti passeggeri del gusto perché possibile soltanto dentro il labirinto Morgan.
Ad aprire Canzoni dell’appartamento è Altrove, inarrivabile miracolo della canzone italiana tutta, di qualsiasi epoca. Al tempo sostenuto di un pop beat che richiama un po’ il primo Scott Walker e un po’ Città vuota di Mina (il vero calco ritmico e armonico del brano), racconta la messa in discussione di una serie di certezze che rappresenta un cambio radicale nell’esistenza di un uomo.
Esposta in brevi nuclei lirici c’è la scelta consapevole di Morgan di perdersi nel mondo, lasciarsi attraversare dalle onde che muovono le acque della vita senza opporvi resistenza, nella certezza che sorpassare il crinale del buon senso vuole dire correre il rischio di farsi passare – come il matto di De André, che reinterpreterà qualche anno dopo – per folli:
Forse già lo sai
che a volte la follia
sembra l’unica via per la felicità.
Anche l’avvio è mitologico: “Però (che cosa vuol dire però)” è il salto improvviso a capofitto dentro il processo di messa in discussione di tutto, la violazione drastica della certezza (e della vecchia regola: mai mai mai cominciare un periodo con una congiunzione avversativa!). La parola è catapultata in modo secco e subitaneo nel vuoto dello spettro sonoro generato dalla ritmica basilare, quasi fossimo improvvisamente proiettati nello scarno appartamento di Morgan, tra i suoi pensieri che procedono per asserzioni, dubbi che le mettono in crisi, bilanci, scoperte e deragliamenti, che prefigurano perfettamente la natura irregolare dell’artista, il suo vivere da sempre (e per sempre) sul crinale tra calcolo razionale e dissociazione dadaista: “C’era una volta un ragazzo chiamato pazzo / e diceva sto meglio in un pozzo che in un piedistallo”. La voce filtrata (“che cosa vuol dire però”) e i cori ascendenti moltiplicano i piani della coscienza: chi è che parla, la ragione o l’istinto? Il corifeo dentro o le multiple coscienze risvegliate?
La maturata consapevolezza di voler perseguire l'”altrove” Morgan la enfatizza come raramente si era ascoltato in una canzone: quel “Ho deciso / di perdermi nel mondo” è scandito dalla metrica e dall’ascesa della melodia con l’energia dei grandi annunci e con il trionfalismo con cui si può guardare una vetta conquistata a fatica. Mentre gli archi dipingono dissonanze, traiettorie oblique e deviazioni di senso, si capisce che questa conquista non è senza prezzo, che l’arrivare all’altrove avrà un costo, in alcuni casi elevato: la stessa carriera successiva di Morgan, con il suo randagismo irrisolvibile e le vertigini di estro che nessuno pare riuscire a tradurre in concreta materia discografica, è la dimostrazione di quanto sia non soltanto profetico ma identitario questo raccontarsi in Altrove.
A questa presa di coscienza la canzone arriva attraverso lampi stranianti di confronto con se stesso, epifanie svelate da piccoli gesti di un quotidiano domestico su cui Morgan sembra, d’improvviso, focalizzare l’attenzione: uscire con la giacca dell’anno scorso per riconoscersi, scegliere il piede sinistro per scendere dal letto, concedere un ultimo sguardo commosso all’arredamento – simbologia del posseduto immobile, pesante e irremovibile, ma custode delle memorie – prima di disfarsene del tutto, magari buttando via la mobilia insieme alle parole non dette, alla cosmogonia, a se stessi.
Alleggerimento, mutazione, confluenza: Altrove è l’esplorazione di un punto e a capo, combattuto tra la convinzione del gesto e certi ostacoli della mente, piccoli ma ostici. È l’espressione peculiare del mondo Morgan che si è resa fotografia universale di un desiderio di rimescolarsi con il mondo, di “svincolarsi dalle convinzioni / dalle pose e dalle posizioni”. Dal tetto dove la voce è riuscita ad arrivare dopo un’arrampicata coraggiosa, tra vertigini armoniche e salti nel vuoto, non si distinguono i contorni del domani ma si gode una vista epica: sull’infinito, sull’altrove.