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Rapide

da Rapide, Island, 2020

La struttura metrica del canto in Rapide di Mahmood deriva totalmente dagli schemi della trap. Basta ascoltare il modo in cui i versi vengono scanditi o il dialogo tra la ritmica sicura e incalzante nonostante il tono intimista generale per rendersene conto. Anzi: si può dire che senza l’immersione trap degli anni Dieci un pezzo così non sarebbe immaginabile.

Però i salti armonici, l’inclinazione del timbro, il generale languore romantico-malinconico sono un’evoluzione piena della tradizione melodica italiana, vicina per attitudine al solco scavato per sempre da Tiziano Ferro. Conservazione, rottura, riformulazione.

Certo è presto per capire se è un brano destinato a rimanere o meno (anche se è chiaro che Mahmood ha investito un pezzo di cuore in Rapide, e che questo è un brano “speciale”, destinato a occupare un posto centrale nel suo repertorio). Ma è anche pressoché oggettivo che oggi, in Italia, non esiste un artista di ampio appeal popolare che riesca a combinare l’umore della trap e delle nuove forme di R&B con le nostre fisiologiche esigenze melodiche come fa Mahmood, inventandosi una terza via. C’è chi usa il termine urban per definire questa direzione: a me non fa impazzire, mi sembra un modo per non ammettere fino in fondo che questo oggi è il pop italiano, con il midollo modificato dal rap.

Mahmood è un “bender” del pop italiano: lo piega, modella, riconfigura a ogni balzo della melodia. L’intimo si spezza all’improvviso ad aprire cascate esplosive. Il maschile, come nel gioco delle figure concave e convesse, si ribalta d’impulso a svelare il femminile.

Che poi questo “piegare” non è solo stile, ma estetica in senso completo: ecco perché la corporeità esposta del video di Rapide passa in un istante dalla virilità esibita come emblema di autodeterminazione all’omoerotismo come specchio di vulnerabilità, e viceversa. Ecco perché la carnalità che evoca il testo – indipendente dall’amore come vincolo che trattiene – è una sfida all’ordine sociale, al vivere l’amore come divieto, che anche quando è teoricamente finito, può agire come un ricatto.

Quindi perché mi sputtani in giro?
Dimmi cazzo ne sai di me, ora vado a divertirmi
È una cosa comune
Dormire con altre persone

Mahmood usa le parole in modo sorprendente. In Rapide mette insieme la topografia spiccia della Milano anno 2020 (le scarpe Nike iconografiche di uno streetwear come segno di riconoscibilità, i luoghi-cardine della nightlife come il Love o il crocevia simbolico di Piazzale Loreto) con richiami metaforici arditi (“il ricordo è peggio dell’Ade”), con la stessa scioltezza con cui in Soldi mescolava lo zaino Invicta e il Ramadan, in Gioventù bruciata i Pokemon con la Sfinge, o in un’altra suggestiva canzone Il Nilo sul Naviglio. È come se le sue immagini rimbalzassero continuamente tra la concretezza del quotidiano e il distaccamento dal reale, cercando l’altrove dentro la vita di ogni giorno, come un rapimento costante, nel bene e nel male. L’abilità metrica di cui abbiamo dicevo all’inizio gli permette anche rime non comuni: le sdrucciole di “ràpide”, “iride”, “lapide”. Ancora, più che sfoggio tecnico, è la rivelazione atletica di un modo di esistere liquido, che evoca l’abilità di muoversi con agilità tra le intemperie dell’esistenza, concrete o interiori che siano.

Le “rapide”, in particolare, sono l’immagine dell’acqua che scorre improvvisamente violenta, fino a risucchiare nel suo vortice. Valgono, nello specifico del brano, come la metafora di un senso di colpa per una relazione che è ormai al punto finale ma che non riesce a distaccarsi completamente. E chiaramente  sono proprio “lacrime”: l’assonanza vocalica dei due termini (“rApIdE – lAcrImE”) è rinforzata dalla presenza dell'”iride” come luogo dove le rapide si generano, e più in generale dall’idea di qualcosa che trascina giù, risucchia fino all’inazione, al bloccare un processo che dovrebbe essere ormai irrimediabile verso il domani.

Rapide è l’espressione interiore di come ciascuno di noi, alla fine di una storia importante, debba affrontare una battaglia stremante per superare quel tremendo passaggio che è un misto di rimorso, tentazione di ritornare sui propri passi e difesa della propria riconquistata libertà, quasi che questa fosse un reato. Rispetto a questo punto in particolare, Mahmood carica il testo di un connotato carnale importante: “ti amo solo quando veniamo”, così come il già citato richiamo al fatto che sia “una cosa comune dormire con altre persone” è la rivendicazione di una riconquistata spensieratezza anche sessuale, un aspetto che implicitamente – rispetto a una storia appena terminata – diventa per il senso comune l’emblema di una frivolezza da condannare: ci stiamo lasciando, sei già in giro a scopare, per dirla in modo non poetico.

Così le rapide sono una prova di resistenza: contro la possibilità di “spezzarsi” sotto l’effetto dei sensi di colpa e di debito verso l’altra metà, che basta un attimo e ci si fa risucchiare all’interno, così come contro il suo non essere in grado di vedere un domani, perché vede la relazione imbrigliata dentro quel che è stato ieri.
“Nelle tue rapide non cado”: nelle forme di una contro-canzone d’amore, Mahmood ha dato corpo a un altro atto di difesa della propria autonomia emozionale, che vuol dire tutela della propria diversità rispetto a quello che si impone, spesso senza una reale intenzione, come fosse dato per scontato, come lo standard attuale del vivere le relazioni. Scalare le rapide, per non caderci dentro, a costo di distaccarsi, facendo ascoltare, tra note bassissime e intime e impennate improvvise verso l’alto, tutto lo sforzo fisico del gesto: una grande canzone d’amore del 2020.

 

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