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Accetto miracoli

da Accetto miracoli, Virgin, 2019

“E ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornare”: così cantava Tiziano Ferro, tre anni fa, in Potremmo ritornare. Era un condizionale che suonava come una sbarra di ferro piantata lì tra lo stipite e la porta che si chiude: un’ultima speranza, forse disperata.

E invece non c’è più nessun “potremmo”. Quel tempo verbale è stato solo un trattenere a tutti i costi, una tagliola tra corpi già feriti, un prolungare ciò che è stato già dilatato oltre la sua più strenua resistenza. Ora è proprio il tempo di chiamare le cose con il nome della realtà, senza ferocia, ma con la lucidità di chi può veramente dire che è finita, e magari – o certamente – ne soffre ancora un po’, perché è impossibile non starci male, è un attimo che scivoli di nuovo e stavolta proprio no, non è più il tempo di ridare fiato ai tormenti:

Non mi toccare perché ti odio

non cancellarmi perché ho bisogno

di rimanerti in testa

il tempo di sfatare il sogno.

E forse va bene così, non serve più recriminare, perché in fondo l’amore che non si voleva lasciare andare ha generato altro: un nuovo giro di giostra, amare-illudersi-promettere e poi fino a chissà cos’altro ancora. Un altro esistere, un altro amore:

Nasce dal colore di una rosa appassita un’altra vita

poche idee o sempre le stesse, prometto: “Basta promesse”

e ho cambiato e ho cambiato e anche fosse l’ultima fermata

lascio la mia vita molto meglio di come l’ho trovata.

Quella fede al dito, fotografata di sfuggita ma anche unico punto di attenzione di un primissimo piano di una nudità essenziale, quasi minimalista, è la chiave di accesso del nuovo ciclo: l’illusione di tornare a sognare ancora dopo lo sprofondamento, che è poi quello che la canzone d’amore tutta, quale che sia il suo genere di appartenenza o lo spirito che lo guida, chiede di essere per noi che ascoltiamo. Un accordo di pianoforte che scioglie il gelo, una melodia che si inerpica negli anfratti del cuore segregati alla rassegnazione, per riportare luce. Di quella fede noi tutti sappiamo il significato, perché Tiziano ha chiesto, voluto e preteso che la sua musica fosse così: un diario aperto e condiviso, una valanga di parole troppo emotivamente coinvolte per lasciarsi ingabbiare nelle rigidità della metrica. Quella fede è una storia universale di riscatto dentro il grande inganno del pop: l’infallibile narrativa di un cuore torturato e afflitto che si fa coraggio, si libera, si apre al mondo e riscopre la normalità dell’amore, con i suoi punti bassi e le risalite, i nadir e i lampi di tuono, la rassegnazione e i miracoli.

Accetto miracoli è il Tiziano più disarmante, quello che scava le verità dell’amore come nessuno, con un piano, qualche briciola di elettronica e una voce che sembra arrivare nel punto esatto dove puoi guardare la vita senza sapersi dire felici o distrutti, ma intanto è un miracolo esserci arrivati:

E con tutto ciò che ho visto

e difficile capire se esisto.

 

 

Leggi la discografia completa di Tiziano Ferro analizzata da Unadimille

 

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