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copertina rolls royce

Rolls Royce

prod. Boss Doms e Frenetik & Orang3, da 1969, Sony, 2019

Esclusa l’ipotesi che si tratti meramente di un’equazione matematica (2019 – mezzo secolo = 1969), il riferimento di Achille Lauro all’immaginario datato 1969 è incoerente e infedele. Jimi e Janis sono morti nel 1970, Jim Morrison nel 1971 e l’Italia mainstream che avrebbe fatto il suo 1968 soltanto nel decennio successivo ha premiato a Sanremo l’antichissima Zingara di Iva Zanicchi. Certo, nel ’69 Brian Jones è affogato nella piscina e Charles Manson ha compiuto il massacro di Bel Air, ma sono dettagli che sembrano contare molto poco rispetto alle intenzioni che sembra avere Achille Lauro nel momento in cui pubblica un album a titolo 1969, e lo fa aprire dalla fenomenale Rolls Royce, la sorpresa di Sanremo 2019, una canzone che mette in fila una sequenza festosa di richiami a vite ‘straordinarie’ del passato: Marylin, Elvis, Mick

Le molte citazioni rock’n’roll del brano sono deliberati cliché agiti in funzione di una loro trasmutazione dal passato all’oggi: l’eroe è mitico in quanto maledetto, la liberazione dei costumi è stata una rivoluzione, l’iconografia rock è simbolo di una vita vissuta al massimo delle sue possibilità (non come oggi, è il sottinteso). Non c’è nulla di vero, ma poco importa. La modalità di citazione dei miti rock tradisce un’attitudine totalmente rap, ne adotta l’iper-sintesi che consente, a livello linguistico, di evocare un intero contesto citando soltanto un nome proprio, magari senza cognome come in questo caso, rafforzando la dimensione della familiarità del personaggio:

Perdo la testa come Kevin

a ventisette come Amy

Che questa arbitrarietà sia palesemente posticcia nella rievocazione di un fumoso “sessantaqualcosa” è evidente già dal fatto che abbracci da Van Gogh a Paul Gascoigne – quest’ultimo, l’unico ‘non artista’ in senso stretto a entrare nel Pantheon, non solo dà il la a un’altra traccia dell’album, Hooligans, ma si guadagna anche il verso più ironico del brano, un’ellissi geniale: “No, non è un drink / è Paul Gaiscogne”.

Ma poco importa alla fine se i riferimenti sono bizzarri o persino forzati. Non è un trattato, ma una canzone, che ragiona su una mitologia in senso ampio, su un culto. Anzi: Rolls Royce è una canzone-cero-in-chiesa, una collezione di santini di chi ha rappresentato simbolicamente un modello di vita vissuto al massimo fino a bruciarsi.

Il libro “Sono io Amleto”, pubblicato nel 2018 da Rizzoli, è una summa della narrazione Achille Lauro.

Se è una religione, è coerente al 100% con la parabola dal margine estremo al riscatto che permea “la narrazione Lauro”. Il colpo di genio è aver dato vita a questa consacrazione avendo il fegato di condurre gli stilemi trap (autotune, flow romanizzato) dentro il codice del rock, un gesto che finora sembrava sconsigliabile se non impensabile, considerata anche l’aura di ‘sfiga’ che il rock sembra essersi conquistato agli occhi di tanti negli anni Dieci.

Forse è proprio questa nuova possibilità al rock, più idealizzata che concreta, che ha stimolato la forte simpatia del brano, pescando pubblico anche tra chi associa la trap al voltastomaco. Il merito è da ripartire con Boss Doms e Frenetik & Orang3, che per raggiungere questo scopo senza snaturare l’eclettismo di Lauro hanno confezionato un’ipotesi di suono punk-rock leggero e frizzante, capace di sfiorare tante aree musicali contigue e accessibili, dal Vasco della Steve Rogers Band a certi Franz Ferdinand, fino a 1979 degli Smashing Pumpkins, citazione palese e altra collocazione temporale ‘stilizzata’ (il brano è del 1995). All’autotune – il suono di Satana digitale per i puristi, uno spauracchio più dogmatico di un dogma – è affidato il senso condensato del brano, quel bridge in cui Achille sembra tracciare una linea sotto tutti i personaggi rievocati per far venire a galla il filo comune, che li lega tra loro e a lui:

Non è follia ma è solo vivere

Non sono stato me stesso mai

No, non c’è niente da capire

Ferrari bianco si Miami Vice

A confermare la natura sacrale-liturgica del brano è il finale che prima tenta un altro gioco ironico sul satanismo rock (che riprende anche la figura di Lucifero, leitmotiv delle canzoni di Achille), poi si traduce in una vera e propria preghiera di elevazione (che usa i versi già editi di Barabba II, da Ragazzi madre), una consegna al Dio delle rockstar per l’eternità che, nelle intenzioni di Lauro, suona come un investimento di quelli importanti, un vendere l’anima: “Dio ti prego salvaci da questi giorni / Tieni da parte un posto e segnati sti nomi”.

“Salvaci da questi giorni”, perché è il sottinteso che conta: questi giorni mediocri, lugubri, questi giorni senza mitologie o idoli, senza eroi, senza artisti maledetti che muoiono affogati in una piscina, senza eredità capaci di attraversare il tempo. Senza visioni. Altro che ecstasy e tributi all’autodistruzione: “Rolls Royce” è una canzone sulla nostalgia per l’ebbrezza di una regola infranta, sull’amore assoluto contro la penuria di icone.

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