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Pleiadi in un cielo perfetto

Come fosse in una riserva indiana Umberto Maria Giardini continua da anni a esplorare una forma canzone costruita, per semantica e stile, tutta dentro la nebulosa del post rock e del rock cantautorale, anche nel momento storico in cui le chitarre avrebbero teoricamente perso il loro appeal presso le nuove generazioni (o forse a maggior ragione, proprio perché ciò sta accadendo, disinteressato a ‘inseguire’ alcunché come si è sempre dimostrato).  Attorno a queste coordinate musicali la sua scrittura si raffina sempre più a ogni album, germogliando spesso in equilibri a tratti miracolosi, in cui gli elementi entrano in connessione reciproca: le parole acutamente soppesate, i riverberi, gli strati di distorsioni sovrapposte, le ritmiche dispari, i vuoti e le dilatazioni.

Quinto album a nome Umberto Maria Giardini e all’incirca 15esimo contando i lavori a firma Moltheni e i progetti Pineda e Stella Maris, Forma mentis non compie alcuna deviazione drastica o tentativo di sorpresa, che sarebbe persino pretestuoso, giunti a questo punto. Al contrario, come in un perpetuo gioco ricombinatorio, l’album fa ciò che hanno fatto i suoi precedenti: sottrarre piccole dosi di alcuni elementi e convogliandole su altri fattori, fino al punto in cui se Futuro proximo era più solare e melodico di ProtestantesimaForma mentis è così un po’ più prog e distorto di Futuro proximo, e così via. In particolare, in Forma mentis si avverte una tendenza lievemente più accentuata a uscire dall’interiorità della dinamica a due e a guardare il mondo in chiave apocalittico-finale, sebbene a ben vedere il privato e il cosmico siano sempre interconnessi nelle sue lunari canzoni, talvolta scaturendo l’uno dall’altro.

È finale e apocalittica la bellissima Tenebra, auspicio al contrario per un mondo che collassi sul serio, che faccia fuori tutto l’orrore di cui si è popolato – coerente, nella sua visione del mondo, con un certo senso del disgusto per la società che traspare qua e là in tutta questa discografia (e che, a volte, è persino più lampante nelle interviste rilasciate da Giardini, spesso sottilmente velenose). Èd è di devastante suggestione, in particolare, Pleiadi in un cielo perfetto, scelta come singolo di lancio di Forma mentis (e, a quanto pare, già contemplata dai suoi fan come uno dei suoi vertici artistici).

Quasi marziale nell’incedere, Pleiadi evoca due poli sensoriali che il testo lascia scoprire lentamente. Da un lato la corporeità viscerale e intima, suggerita dal richiamo al mondo animale e dalle urla, dall’altro la dimensione naturale e ‘cosmica’, con un accento piuttosto forte sui suoi connotati ambientali, in particolare quei “campi in fiamme” che richiamano sciagure e disastri irreversibili, e che potrebbero suggerire implicitamente una visione rassegnata e disastrosa sugli effetti del cambiamento climatica:

“campi in fiamme e colpe tante”

lettura che il video della canzone, girato nella distrutta foresta dell’altopiano di Asiago, non fa che rafforzare, specialmente con quel gioco di rimandi alle “chiome di alberi”.

Questa visione terminale, di fine e devastazione, viene spazzata via dalla rivelazione stessa della potenza della natura, che si manifesta in un’immagine di atroce bellezza, un cielo perfetto. Le Pleiadi, la costellazione più mitologica dell’arco celeste, diventano pertanto una sorta di presagio funesto, un anticipazione della morte del mondo che viene fortunatamente ancora sconquassata dalla forza carnale dell’umano, dalla consistenza stessa del desiderio, per quanto ferino e mortuario esso possa essere: “Cedo e mi arrendo al tuo corpo”.

Pessimismo e forza, rassegnazione e meraviglia: Pleiadi in un cielo perfetto costruisce il suo fascino nel dondolarsi tra queste due tendenze dell’animo, al punto che sono molteplici i significati che vi si possono potenzialmente associare (la depressione, la non reversibilità del consumo terrestre, il sesso nel suo rapporto con l’universale, ma si potrebbe giocare a ipotizzarne ancora altri). Il segno dello straordinario livello in termini di qualità della composizione a cui è giunto Giardini è, per me, nella sua capacità di contrapporre queste due forze sul piano meramente musicale, nel dare corpo con i suoni a due anime che si combattono e non si fondono, si rovesciano reciprocamente senza che una delle due vinca definitivamente: la forza oscura in un ambiente sonoro dilatato e pensoso, cupo e rimbombante, trainato dalla linea melodica dilatata dalla voce, rituale, liturgica, abile nel creare sospensioni space-rock; quella più energica del ritornello in una sfuriata in tonalità maggiore tra la psichedelia e lo stoner, genialmente sostenuta da una metrica ‘sghemba’ (una battuta intera, una dimezzata) che altro non fa che innescare un meccanismo circolare a miccia continua, come se il canto potesse andare avanti all’infinito. E infatti va avanti ad aeternumPleiadi, come una volta, finisce con una lenta dissolvenza, a suggerire che questa battaglia-mondo e battaglia interiore non è destinata ad arrestarsi. Almeno per ora.

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