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Salirò

da Unò-dué, BMG Ricordi, 2002

È quantomeno curioso che il più importante successo popolare del cantautore Daniele Silvestri sia uno dei suoi brani a ben vedere più tetri, una dichiarazione di sprofondamento nel torpore depressivo camuffata da contagioso inno disco-funk. Però “Salirò”, al netto del suo scintillante vestito musicale, questo è: una canzone sul trionfo dell’inazione e sulla speranza flebile di una ripartenza, in cui persino la consueta ironia alla Silvestri appare come ovattata.

Silvestri presenta “Salirò” al Festival di Sanremo 2002, per lanciare il suo quinto album Unò-duè, il primo (e l’unico) dove la musica elettronica rappresenti il sound predominante. La canzone sembra aggiornare in salsa nostrana lo stile praticato dai Jamiroquai nella seconda metà degli anni Novanta, con i purismi acid jazz della band che hanno già lasciato spazio a un’estetica più space disco, di grande appeal commerciale (in particolare un brano come “Canned Heat” sembra l’influenza più diretta sul brano di Silvestri). È una scelta musicale coerente con l’eclettismo del cantautore romano, capace di alternare folk acustico, rap, jazz, elettronica seminale e persino sfuriate stoner, e che tuttavia in prima battuta spiazza gli ascoltatori, lasciando disorientati.

“Salirò”, in effetti, ha uno sviluppo sghembo e tortuoso, irto di ostacoli. L’introduzione anticipa già il ritornello risolvendosi su un kick elettronico che prefigura la pulsazione generale del brano (“pompa… pompa”). La strofa si evolve su una linea melodica ereditata dal funky, tuttavia supportata solo in parte da un arrangiamento fondamentalmente ritmico, pieno di vuoti, che a un primissimo ascolto lascia intravedere persino una strana dissonanza (fate finta di non conoscere il brano e provate a inseguire il flusso su quel “e invece sto sdraiato”, e vi troverete disorientati). Il ritornello riporta questi piccoli disorientamenti melodici in una struttura più riconoscibile, che riesce a rendersi tormentone senza soluzioni scontate. Qui si impone lo scambio armonico che domina l’intero brano. due accordi minori separati da un tono e mezzo, una soluzione ereditata dall’acid jazz, piuttosto insolita per il pop italiano, che – fuori di tecnicismo – colloca il brano costantemente in bilico tra due tonalità e alla quale l’orecchio si abitua soltanto dopo qualche ascolto. Strano è anche il bridge, piuttosto lungo e articolato, con un richiamo più esplicito agli anni Settanta (quel coretto su “più giù di così / non si poteva andare” a un passo dall’ironia), mentre il finale ormai trionfale riporta il peso sull’intervallo di cui abbiamo già discusso, traslandolo ulteriormente di un altro tono e mezzo. Nel complesso, è un impianto armonico per nulla immediato, drasticamente virato verso toni minori, ma sostenuto da una ritmica nervosa, entrambi intenti del dare l’idea di qualcosa che tenta di ‘ascendere’ in molti modi differenti, ma che puntualmente deve ripartire da capo, come se cadesse sul più bello, facendo indubbiamente una gran fatica.

Anche il testo, in prima battuta, sembra laconico, leggerino, lontano dalle finezze cantautorali a cui Silvestri aveva abituato in particolare il pubblico sanremese (basti pensare che l’ultima partecipazione in Riviera era stata “Aria”, nel 1999, torbido post-rock sulla vita nelle carceri, di pathos quasi insostenibile). Sembra che “Salirò” non vada da nessuna parte, non conduca ad alcuna estasi. La parola è limitata a immagini prosaiche (il tagliolino al pesto scotto, un generale ricorso a frasi minime e spezzate, favorite dalla ricorrenza del verso tronco), metafore elementari (“le rose di questo giardino”, il tagliolino al pesto scotto) o semi-paradossali (la disponibilità ad addormentarsi su un ghiacciaio tibetano congelando piuttosto che alzarsi dal letto). L’impressione a uno sguardo non approfondito è che la vis tagliente e certamente generosa della lingua di Silvestri sia stata fatta a pezzi, come incubata e non portata a termine, o congelata e distorta da una qualche strana patologia frenante, sintetizzata dalla contrapposizione tra l’immagine di un sorriso di un De Niro più indiano che si allarga lentamente e quella di lui che resta “distrutto e disperato” su un letto sfatto. Eppure, a una lettura ripetuta, dai versi emerge una vulnerabilità mostrata senza filtro, un presentare la propria afflizione di eccezionale verità. Chiarendo il valore simbolico del trovarsi incastrato tra le rose del giardino (pertanto, sottinteso, trafitto dalle spine e incapace di procedere) il bridge assume la forma di una preghiera alla persona amata, in cui dichiarare ufficialmente – facendo leva sul discorso diretto – la propria intenzione di rinascita: “E prenderei tra le mie mani / le tue mani e ti direi: / «amore in fondo non c’è niente da rifare»“. E tuttavia, nonostante l’intenzione sia positiva, lui ammette l’attuale condizione di nadir personale, sotterramento dell’umore: “Per riprendermi / per riprenderti / ci vuole un argano a motore”. In altre parole: dietro la grana dance e le immagini come avvizzite di un ex poeta, c’è l’esplorazione di uno stato depressivo profondo, talmente nel pieno della sua manifestazione che non si è in grado di leggerne le cause, ma solo di osservarne gli effetti. Per essere l’exploit pop in salsa sanremese di uno tra i più impegnati cantautori italiani della sua generazione, è un bel coraggio.

Nella seconda metà del Festival le esibizioni di “Salirò” passano dall’enigma alla luce piena. Sul palco dell’Ariston Silvestri compare affiancato da uno strano soggetto: è l’attore-prestato-alla-danza Fabio Ferri, che con baffo vintage, capello lungo impomatato e abito da John Travolta der Testaccio, colloca semanticamente la canzone in un territorio tra il trucido e il sublime. Dopo essere rimasto immobile per l’intera parte iniziale del brano, Ferri si attiva in un grottesco passo di danza in solitario, bissato dallo stesso Silvestri. È qualcosa di assolutamente imprevisto, bizzarro e in fondo tenero: questa danza in fondo astratta, scalcinata eppure perfetta, sembra improvvisamente riassumere lo spirito della canzone, fotografarlo in un’immagine lampante di pietas e partecipazione emotiva. Per quanto sgarbata, la danza contiene tutto l’imbarazzo e insieme l’orgoglio di chi mai pensava che si sarebbe ridotto in questa condizione di ‘auto-umiliazione’ (“più giù di così / non si poteva andare / più in basso di così / c’è solo da scalare”), e però invece che flagellarsi o vergognarsi ha deciso di mostrarsi con fierezza, nonostante tutto. E godersela. Ecco allora che l’esibizione, una delle più memorabili di sempre a Sanremo per chiunque abbia avuto la fortuna di vederla in diretta, fa esplodere il senso della canzone, creando un’empatia tra la performance e l’ascoltatore superiore e dando a quel “salirò” stra-ripetuto, finalmente, un senso universale di riscatto alla portata di tutti. Ci riesce proprio perché quelle due figure lì sul palco più importante d’Italia (o, nel video della canzone, in piena Roma) sono assolutamente inadatte al ballo, eppure la fierezza che hanno nel mostrarsi è un punto motivazionale fortissimo, che incita alla partecipazione: solo un ritmo obliquo e liberatorio, come l’armonia intricata del ritornello, la struttura ascendente dell’intero brano, le deviazioni, i ritorni, la fatica di un bridge affannoso come una scalata, ebbene solo una canzone così architettata può contenere il vero segreto per canalizzare le energie dove sembra non ci siano più. Fino all’ultima spinta, verso il punto più alto, tra le rose di un giardino fiorito.

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