A me ricordi il mare
da Il latitante, Sony/Epic, 2007
A me ricordi il mare è una contro-canzone dell’estate, o meglio: è il raro caso di una canzone estiva negativa, che non invita alla spensieratezza nello spirito musicale ma al contrario filtra il ricordo di una relazione agli sgoccioli attraverso una serie di immagini avvizzite, anti-retoriche e persino un filo sull’orlo del degrado, che non degenera in rancore soltanto perché graziata dalla consueta abilità descrittiva intrisa nell’ironia di Daniele Silvestri. Inclusa ne Il latitante e coerente con lo spirito in parte ombroso dell’album, A me ricordi il mare è una ballata acustica a tempo medio immersa negli umori tra pop, dub ed elettronica che hanno fatto la fortuna, tra la fine degli anni Novanta e il Duemila, degli Otto Ohm, ospiti del brano. Una buona metà del brano è affidata alla voce del leader della cult band romana, Andrea Vincenzo Leuzzi, che compare anche come co-autore di musica e testo (e si sente, specialmente nell’apertura melodica delle sue strofe).
La canzone ricostruisce, con dovizia di dettagli, la dinamica irrequieta di una relazione andata a male, un tira e molla tra abbandono e contenimento, “tra il gesto di chi afferra / e quello di chi si trattiene”, in cui sincronizzare gli umori reciproci era impossibile, e prevedere le mosse di lei era diventato talmente arduo da risultare sfiancante:
“a me succede che va bene
e invece non va
e se migliora allora peggiorerà
oppure
sono sicuro che va male arrivo di là
e te lo dico tu mi dici “ti va”?
ma io così non vado avanti”.
Silvestri traduce musicalmente tutto ciò in un paio di strofe in metrica rap su un registro decisamente basso, quasi sottovoce, in un gioco di semplificazioni che taglia fuori posto la poesia, e riduce tutto a un bric-à-brac di monosillabi e pronomi, in una geniale sincronia tra ritmo, prosodia e testo.
A Leuzzi, invece è affidata la parte cantata, più malinconica nei toni melodici ma dissacrante in termini lirici. Come in una revisione degli eventi trascorsi, la canzone mette in fila una serie di dettagli indicativi del tono pauperistico del quadro romantico, le file in tangenziale con un condizionatore che non funziona, il sugo andato a male, il sudoku “scritto a penna e già da cancellare”. È come se le cose materiali già contenessero, come un’anticipazione, quanto di ‘piccolo’ vi fosse alla base della storia, la sua impossibilità di librarsi.
E poi c’è quella “discesa libera sui sassi senza aver le scarpe / per fare i fricchettoni”, affiancata dall’immagine di un accendino che va di tasca in tasca e “ti ritorna quando non hai niente da appicciare”: estromessa dal contesto della relazione amorosa, diventa una sequenza emblematica della fine dell’idillio alternativo degli anni Novanta, contenendo in sé la perdita irreversibile del fascino delle dancehall sulla spiaggia e dei campeggi in Salento, e di tutti i vezzi freak che Samuele Bersani, in luminoso anticipo, prese di mira già nel 1994. E non è soltanto una questione di dettagli materiali: dal momento che quel qualcosa che “uccide ancora” la voce che canta, nei comportamenti di lei, è la incapacità di stabilizzarsi, di trovare una pace tra attese e delusioni, la canzone sembra tracciare in filigrana un nuovo ritratto generazionale, la fotografia di un gruppo di persone rimaste incastrate nel loro precariato sentimentale praticato come libero arbitrio, un tempo iconografia di una nuova coolness, oggi stantia ritrosia nel sentimento. La dichiarazione di fine di una mitologia in fondo mai esistita, sintetizzata alla perfezione dall’immagine del “tutto compreso inclusa la consumazione”, e legittimata proprio dal fatto che a cantare siano Silvestri e gli Otto Ohm, un tempo santini di questa generazione oggi incastrata: e chissà che non fossero proprio “Crepuscolaria” o “Amore al terzo piano” a risuonare, giusto qualche estate prima, sulla stessa spiaggia un po’ desolante dove oggi l’armonia resta in minore, sfumando senza alcun climax.