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migliori canzoni italiane 2018

Le 40 canzoni del 2018

Questa è la mia lista di fine anno. È una consuetudine che ho avviato l’anno passato, con una lista di 40 canzoni, che però per il 2018 ho trasformato in una vera e propria classifica, con posizioni, un podio, un vincitore. Naturalmente un calendario di uscite tanto fitto non consente uno sguardo ‘completo’, pertanto chiedo venia in anticipo delle omissioni dovute ad ascolti troppo rapidi o non approfonditi. Altre mancanze, magari clamorose, potrebbero tuttavia essere volute; la classifica rispecchia i criteri di questo blog, perciò ragiona in maniera trasversale ai generi, noncurante delle dimensioni: artisti che hanno centinaia di milioni di views sullo stesso piano di esordienti la cui fama è ancora molto ristretta, produzioni di major con esperimenti di label piccolissime. Come parametro generale, ho scelto chi secondo me spinge la canzone sempre un passo più in là, chi non si è accontentato di fare il minimo essenziale, chi oggi può condensare e ‘rappresentare’ una scena. La posizione numerica deriva da criteri sottili e anche un po’ soggettivi di confronto tra le canzoni: detto ciò, tutte le 40 selezionate sono pezzi imprescindibili di questo diario personale di un anno di canzone. Buona lettura. Ah: potete ascoltare tutte le canzoni nella playlist di Spotify. E per continuare a seguirci, Unadimille è anche su Facebook.

40

Lucia Manca – “Maledetto”

Maledetto e benedetto di Lucia Manca è un album circondato da un’aura di seducente atemporalità, forse uno dei lavori più affascinanti del 2018 sul piano meramente sonoro. Meritevole è stata l’artista salentina nel voler mettere in discussione le coordinate del suo fare canzone, fino a stravolgerle (il confronto ravvicinato con l’esordio del 2011 sembra quasi parlare di due artiste differenti). Quanto mai determinante tuttavia è stata anche la produzione artistica di Matilde Davoli, capace di dare vita in meno di mezz’ora a un universo musicale vrtuale, stratificato e fluo, in cui far convivere modernità e nostalgia di epoche quasi nemmeno mai esistite, tra tonalità fuori fase, beat elettronici iper filtrati e riverberi sintetici capaci di allineare le epoche, il Neon Indian di Psychic Chasm con la Mina di Studio Uno, il Mac DeMarco in versione synthwave con i Matia Bazar di Melò. Tra torch song vellutate (“Noi”) e un audace tentativo di sex anthem a trama Lgbtq (“Eroi”), la traccia più consistente è proprio quella che dà il titolo all’album: una canzone di ‘maledizione’ contro un amore che si è temporaneamente riaffacciato a creare una nuova illusione, per poi sparire di nuovo. Liricamente fatta a pezzettini, tra frasi a metà e ripetizioni che sanno di flusso di coscienza, “Maledetto” (analisi completa qui) trasferisce tutto il livore istintivo in una baraonda di effetti sonori, talmente accentuati da far apparire la voce della Manca come implorante da un baratro, sempre più lontana. (Malinka Sound)


39

Funk Shui Project & Davide Shorty – “Blues di mezzogiorno”

Destinati a incrociare le strade, Funk Shui Project e Davide Shorty hanno pubblicato nel 2018 un album a doppia firma dal centrato titolo Terapia di gruppo. È un lavoro elegante e godibile, che evolve con fluidità i percorsi di entrambi: ai Funk Shui Shorty ha dato la possibilità di immergere il loro groove dentro umori più melodici, almeno rispetto all’omonimo album del 2014 con Willie Peyote; per l’interprete palermitano Terapia di gruppo è invece un esercizio di versatilità, in cui il suo afflato neo-soul di caratura sempre più importante viene affiancato da un flow rap sciolto e intrigante. Si sperimenta con la trap (in “Fuori di noi”, con Tormento) e con l’elettronica in chiave alt R&B (“Come si fa”, tra Kelela e Nao), ma alla fine la traccia più appiccicosa è il singolo “Blues di mezzogiorno”, sorta di lamento di uno Shorty che si descrive svogliato fino allo sfinimento, a letto tutti i giorni fino a mezzogiorno, colto nel pieno di un momento buio di una storia d’amore. La canzone è divisa in due atti, con la prima barra che racchiude il sogno di uno Shorty finalmente pronto a ripartire e la seconda che invece ripiomba nel quotidiano della relazione che – forse – non si vuole più veramente ma non si ha il coraggio di far finire (“Ed è cosi strano che sorrida, che tu poi mi abbracci / Io col senso di aver perso un’altra sfida / Tu che mi incoraggi / Ancora un sogno che mi prende a calci”). Se il testo è efficace senza però particolari originalità, è la struttura musicale che rapisce: “Blues di mezzogiorno” fa tesoro della lezione sui microcampioni di J Dilla scegliendo come materia prima, incredibilmente, “La ballata dell’amore” di Luigi Tenco. I Funk Shui rimescolano le carte di questo classico tra i più jazzati del cantautore appropriandosi tanto del sinuoso trillo di pianoforte quanto dell’intero andamento ritmico, sovrapponendo il beat funky in 4 al tempo ternario del brano, mentre Shorty sigilla il ritornello con quell’”Amore, amore, amore” che apre l’intero brano di Tenco. Se non è il sample dell’anno, ci siamo quasi. (Macro Beats / Music First)


 38

Delmoro – “Fuji”

Friulano, laureato in architettura con un passato tra Londra, Lisbona e Copenhagen, Delmoro ha pubblicato nel 2018 Il primo viaggio, album ‘narrativo’ di una certa ambizione. Otto canzoni concepite come dialoghi tra coppie di personaggi, seguendo il filo conduttore di una famiglia che decide di improvvisare una vacanza insieme, un viaggio simbolico che è un tempo di sospensione per ritrovare se stessi ritrovando gli altri, dopo un lungo tempo, riannodando fili e schiarendo ombre. Nel complesso è un esordio suggestivo, garbato e non immediato sul piano lirico, forse proprio per questo passato un po’ in ombra tra le centinaia di proposte ‘post-itpop’, ben più sfacciate, scaraventate sul mercato nel 2018.  Il vertice emotivo e cuore dell’album è “Fuji”, il brano in cui Delmoro e la sorella, entrambi adulti, improvvisano una ‘fuga nella fuga’, come accadeva un tempo. Cercano disperatamente di non piombare in un cul-de-sac nostalgico, finendo a rimpiangere i film di Jerry Calà (un ribaltamento del culto à la Paradiso non privo di veleno), in un sushi bar “a parlare di quanto bella era la vita pre-internet” per evitare “di fare i conti con noi due”; ma alla fine, sembra suggerire il brano, è proprio così che andrà, con i due a cercare di darsi umanità tra le ferite della vita, persi tra battute che non fanno più ridere e pensieri affogati “dentro nella soia / per non vederli più”. La voce a tratti spezzata di Delmoro, confidenziale e sfuggente, si muove in un’atmosfera ovattata e sognante, con i synth a tentare voli battistiani (à la Io tu noi tutti) e gli accordi in settima maggiore a sguazzare romantici tra il Mac DeMarco di This Old Dog e il Raf più intimo. Tutto sa di dolce sconfitta e di tepore, come se a riscaldarsi i cuori bastasse comunque il puro atto di ritrovarsi, comunque, qui. (Bizarre Love Triangles)


37

Ginger Bender – “Cumbia nera”

Le Ginger Bender sono Alessandra Di Toma e Jeanne Hadley, duo nato nel fertile humus delle Scuole Civiche di Jazz di Milano. Tra i tanti debutti di un’annata ipertrofica, il loro è uno dei pochi che si è tenuto distante da influenze synth, itpop o neocantautorali, optando per un carosello variopinto e un filo vintage di richiami latin-jazz, giochi vocalici alla Trio Lescano, folk da battaglia ed echi poliritmici di matrice afro. Una formula certo non innovativa, eppure qui piena di luminosità ed energia, disciolta in una soluzione che lascia traspirare con sobria naturalezza un vivido orgoglio femminista: come i due bellissimi album delle Ibeyi, al netto dell’elettronica.  Al di là della freschezza acustica, le Ginger Bender non sarebbero in questa lista se il loro Tieni accesa la luce non si aprisse con “Cumbia nera”, canzone di forza fuori dal comune, soprattutto per un esordio. Rifacendosi a una classica ma funzionale struttura ad anafore, “Cumbia nera” contrappone il nero e il bianco associando, per ciascuna delle cromie, immagini di dolore, sofferenza, sopruso, ingiustizia. Non è una banale contrapposizione tra male e bene, anzi: il pregio del testo è di partire da uno stereotipo (“Nero l’inganno”,“Bianco senza peccato”) per ribaltarlo, evidenziando nella descrizione del bianco il suo falso candore, la capacità di prestarsi al gioco delle apparenze, fino a difendere l’essenza stessa del male: “Bianco è il potere, la luce che acceca / la pelle di pecora che veste il lupo”.  Questo testo ricco, astratto e poetico, che rivela dettagli a ogni ascolto, le Ginger Bender lo aggrediscono su una ritmica che incalza citando (inconsapevolmente?) “Jockey Full of Bourbon” di Tom Waits e che fa da sfondo a un trionfo di voci che ha l’odore di un lamento popolare e la brutalità di un passo marziale. E che lascia davvero la sensazione di un talento vero, che spero possa trovare il suo spazio. (Rocketta)


36

Sxrrxwland – “Cattedrale”

Tanto imponente è diventata la domanda di trap in Italia, che inevitabilmente anche i più importanti portatori del genere in Italia hanno cominciato a viaggiare con il cambio automatico: salvo delle eccezioni, molti album di successo del 2018 mi sono suonati sterili, ripetitivi, ingabbiati in un linguaggio che gli stessi artisti sottostimano nelle sue possibilità. Va a finire che l’attenzione cala e si cerca altrove, dentro nicchie più o meno invisibili, spesso attorno a label che, fiutata la saturazione a livello mainstream, hanno scelto come strategia proprio il supporto a chi sta intendendo i generi come ponti per arrivare a territori ancora ignoti. Come accade per Asian Fake (segnatevi il nome: lo ritroverete in questa chart), etichetta che non è etichetta in senso antico, collettivo artistico, progetto di valico tra musica, street culture, illustrazione, comunicazione. Per Asian Fake è uscito l’ep Buone maniere per giovani predatori a firma Sxrrxwland, trio romano di estrazione mista (musica, arti visive, performance), fautori di una delle più promettenti operazioni dell’anno. Suonano come un’antitesi dell’emo-trap verso cui si indirizzano i vari Ketama126 o Fasma: se il mood generale resta introflesso e cupo, in Sxrrxwland la musica si sparpaglia in un pulviscolo stellare, dirigendosi verso le praterie elettroniche e avant pop aperte da personaggi come Oneohtrix Point Never e oggi presidiate da miracoli come SOPHIE o Holly Herndon. “Cattedrale” è ammaliante proprio per la sua opera di decostruzione totale: il beat si disperde a ogni battuta, i synth viaggiano come senza meta, sparando note in assenza di gravità, e tutto suona più o meno come una monade che implode ed esplode nel vuoto, ciclicamente e senza sosta. Anche i versi suonano come rimossi dal loro peso, frammenti scagliati senza energia, da un “Mister Triste” che dice a lei, che non capisce: “Ricordi siamo pixel”, mentre tutto il testo sembra ruotare attorno a un’idea fisiologica di separazione da tutto, di impossibilità di farsi decifrare (“Non parlo mai con una logica / Non parlo con ‘sta stronza, si crede psicologa”). Negazioni, rifiuti, strade mozzate, “croci sulle cose”, fino al punto di ritrovarsi “in una cattedrale”: può sedurre o irritare, ma questa trap in versione beta, distorta, allungata, innestata su esseri di incerta provenienza, suona davvero come il suono realista dell’isolamento digitale, rivestito di un’aura liturgica, di orrido mistero. (Asian Fake)


35

Paletti – “La notte è giovane”

Copertina Paletti SuperNelle sue canzoni Paletti spesso racconta chi vive l’esistenza come una performance da garantire, la cui realizzazione al massimo dei livelli è messa in discussione dai limiti della propria umanità. Come lo era Qui e ora, anche Super è un titolo che condensa questa attitudine, senza  sacrificare il consueto atteggiamento ironico e auto-ironico. L’io cantante di Paletti è il maschio-tra-i-30-e-i-40-residente-a-milano, combattuto tra il dover essere e il quel-che-si-è; la sua smitizzazione è parte centrale di questo intendere la canzone, e la sua sagacia nel farlo è ciò che rende questa canzone più stratificata e ricca di tanti altri simili.  In “La notte è giovane” (che ho analizzato per esteso qui) questo modo di leggere l’esistenza viene rappresentato da chi vive un’ossessione quasi atavica nei confronti della notte, una notte che non termina mai, da vivere oltre ogni risorsa, capace di rendere i doveri, la crudezza e le necessità del quotidiano qualcosa di prosaico, di piccolo e irrilevante.  Naturalmente la canzone ironizza su questa attitudine mettendosi dalla parte opposta, incarnata egregiamente dal Paletti giovane vecchio, che si barrica in casa “a guardar documentari su foreste e macrocefali” e, all’occorrenza, a tirare lui qualche secchio d’acqua in testa ai vecchi lì fuori. Solo che mentre questo mettere al centro il paradosso di se stessi sembra funzionale ad alleggerire il peso complessivo, in questa notte tanto agognata si muovono coni oscuri: il lavoro impossibile, il denaro che non basta, i “vestiti, politici, lampeggianti ed auto blu” che viaggiano su “piste innevate”. Perché è soprattutto questa la notte che non si regge più, una notte in realtà vecchia come le prime repubbliche di un Paese che giovane non è mai stato davvero, da molto tempo: e non è una questione di età. (Woodworm)


34

Paolo Saporiti – “Arrivederci Roma”

Acini Paolo SaporitiSongwriter lunare e ombroso, esordiente in inglese poi virato verso l’italiano, con un percorso parallelo nei Todo Modo (peraltro chiuso ufficialmente proprio quest’anno), Paolo Saporiti è una delle voci ‘nascoste’ più intense del post Duemila italiano. Dove il gusto del cantautorato più mainstream ha imposto a tanti visioni più solari e meno angosciose, pena l’oblio, Saporiti ha invece perseguito uno sguardo totalmente introspettivo e oscuro, attorcigliato al tema portante della sua scrittura: la non risoluzione del conflitto familiare, il suo peso che si perpetra anche nella maturità. Riprendendo titolo e traccia narrativa da un racconto del padre, “Acini d’uva”, Saporiti ha costruito l’album Acini attorno a uno spiraglio di luce, una  via d’uscita che comincia timidamente a mostrarsi sul fondo, mentre tormenti e rimorsi, lasciati alle spalle, vengono quasi ibernati, diventando piano piano dei fantasmi sullo sfondo, e la vita comincia a scorrere di nuovo. In “Arrivederci Roma”, analizzata approfonditamente qui, lo spunto narrativo è l’abbandono della città della madre, a favore di un rifugio in solitaria in collina, ma la canzone è in termini universale la descrizione di una resa, del sentimento che si prova quando si decide di desistere nei confronti di una battaglia interminabile. Ribaltando la visione romantica del classico di Renato Rascel, Saporiti costruisce un’elegia della città che è anche un punto e capo, un canto universale su quello che succede quando si decide di tirarsi indietro dalla guerra della vita. Che comunque non finisce mai, ma se così è, tanto vale sublimarla. (GoodFellas)


33

Subsonica – “L’incredibile performance di un uomo morto”

8 è un passo significativo nel percorso dei Subsonica. Intanto perché arriva dopo la prima pausa ufficiale della band, in cui ciascuno ha potuto dedicarsi a progetti solisti. E poi perché, a ogni ascolto, sembra non mascherare la sua tensione sincretica, l’obiettivo di scrivere insieme un bilancio e una ripartenza recuperando quella che può essere definita l’‘identità sonora’ del gruppo, levigata fin quasi a diventare un pattern, uno schema standard della canzone-Subsonica, ad uso delle generazioni che verranno, come per dire: da qui la musica alternativa è passata, rendete onore, fate tesoro. Se in diverse tracce questa tensione tradisce una specie di ostinazione verso il passato (quanto è abitudine un pezzo come “Fenice”?), altrove la sintesi si tramuta in un sentiero raggiante verso il domani, verso un’idea di pop elettronico per il futuro fine e distinta. “L’incredibile performance di un uomo morto” è un brano dal suono dotato di una precisa espressività, studiato nel dettaglio e giocato soprattutto sulla sottrazione e sulla sparizione. Del personaggio protagonista, prima di tutto: le liriche tipicamente laconiche eppure intrise di una malinconia vibrante, a tratti quasi letteraria (“Segnali che ora fumano / E un’ascia che si affila”), raccontano in prima persona la sequenza di un addio che sa di assoluto e irreversibile, che si tratti di una relazione terminata per sempre o, su un altro livello, di un abbandono alla vita (l’ambiguità sull’”uomo morto” del titolo, stemperata dall’ironia di quell’”incredibile” apposto al termine “performance”, a suggerire che tutto ciò è in realtà una recita, una messinscena anche un filo megalomane). Parzialmente smaterializzate da un’eco atmosferica, le parole scorrono leggere e quasi impalpabili, fili sottili a ricondurre l’ascoltatore tra gli ampi spazi aperti dall’armonia suadente e dai morbidi rintocchi electro, come un brano dei Blue Nile rifatto oggi da Rhye. Nel finale la voce di Samuel viene anch’essa smaterializzata, mentre il quadro sonoro si fa più intenso e tutto diventa un’unica bruma, drammatica e scura: i contorni non si distinguono più, l’uomo morto è andato, “non rimangono resti / né ferite o alcunché”. (Sony Music)


32

La rappresentante di lista – “Questo corpo”

Mentre scrivo non conosco i dettagli di Go Go Diva, l’album di prossima uscita di La rappresentante di lista, ma posso ragionevolmente supporre che si tratti di un lavoro ambizioso, che potrebbe far bene alla canzone italiana, e che sicuramente sarà una svolta per il percorso del progetto. Posso basarmi soltanto su “Questo corpo” (video compreso, semplice e magnetico) che del repertorio della band sembra già la traccia più ampia nella visione, nonché un unicum tra le canzoni uscite nel 2018, sul piano tematico. Cogliendo il pretesto di una relazione terminata, verosimilmente un abbandono, la voce di Veronica Lucchesi scandaglia la relazione con il proprio corpo di donna, affidandosi a un racconto che inanella un dettaglio fisico dopo l’altro, tenendo la narrazione strettissima sulla pelle, le ossa, le mani, la testa, la lingua, il seno. E il sesso, che Lucchesi fotografa come fosse un’entità autonoma, una creatura suadente e tremenda insieme. Descrizione di fascinosa autenticità, l’immagine del sesso dotato di una volontà indipendente condensa il tema più ampio del brano: il corpo amato ed odiato insieme, desiderato e rifiutato, come campo di battaglia di una vita, che porta addosso tutti i segni di ogni perdita, con traccia fisicamente tangibile e come inganno della memoria. La canzone ondeggia tra sprofondamento e energia per ripartire, muovendosi sinuosa proprio come se stesse esplorando le nudità dello stesso corpo, tra cicatrici e movimenti indipendenti, gonfiori improvvisi e lacrime incontrollate. Intanto la ritmica incalzante e i synth sparati verso i registri più alti iniettano un’ebbrezza euforica dentro ogni verso, come se la canzone fosse attraversata da un fremito, senza riuscire a contenersi, dichiarando la sua resa al vincitore: questo corpo, appunto. (Woodworm)


31

Giorgio Canali & Rossofuoco – “Fuochi supplementari”

Errori, guerre, colpi inferti, difese, violenze gratuite, violenze accidentali, scazzi, esplosioni, capitomboli e fallimenti vari, di ogni specie possibile: l’universo celebrato da Giorgo Canali è sempre riconoscibile, come se ne fosse uno dei pochi tutori (se non l’unico, con questa credibilità). Il suo suono è astratto dal tempo, immerso in una visione in fondo utopica di canzone rock, resistente alle mediazioni e ai caratteri passeggeri, dritta e decisa quando deve tagliare, senza concessioni, eppure pronta a rendersi vulnerabile, a lasciare entrare dubbi, indecisioni e sconfitte. Talvolta fino a toccare vette di sacralità. Accade per esempio in “Fuochi supplementari”, da Undici canzoni di merda con la pioggia dentro, che ovviamente oltre alla pioggia e alla merda, dentro sembra serbare qualcosa che risuona di assoluto, un assoluto totalmente terreno, nichilista, anti-religioso, eppure covato attorno al piccolo mistero. Forse per la sequela persino rigorosa di ‘anti ex voto’ che Canali suggerisce al suo interlocutore, organizzati in una struttura poetica quasi classica, una lunga lista di fiamme da accendere come tributo a tutte le fonti di infelicità contemplabili, a costruire un ipotetico candelabro dei vinti, da incendiare tutto insieme, come in un sabba doorsiano. Né ci si può aspettare redenzione né sollevamento: è Canali, è Rossofuoco, che cosa vuoi sperare, al massimo si può soltanto disintegrare tutto: “Guardati attorno, c’è qualcosa che non sia incendiato?”. Eppure, dietro lo slancio di ambigua dolcezza che Canali porta con se dietro la ruvidezza del tocco, sembra scorrere un’energia benefica, che ha a che fare con la riduzione a zero delle aspettative e dell’annichilimento della frustrazione, per trarre l’unico giovamento possibile dalla brutale onestà dell’azzeramento totale, dal suo mettere a nudo la crisi più nera: “E non so nemmeno che giorno è / ma son sicuro che sarà peggio di ieri / ecco, vedi, c’è il sole e / piove sui miei pensieri”. Forse, canta Canali, un mondo migliore c’è, ma di sicuro è da qualche altra parte: qui si vive con la merda dentro, da sempre; ma almeno di fiamme ne possiamo aggiungere ancora, quante ne vogliamo, ad libitum. (La Tempesta Dischi)

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