Il trip che mi hai dato
Maledetto di Lucia Manca da Maledetto e benedetto, 2018

“Maledetto e benedetto, ma quale stralcio hai lasciato?” C’è qualcosa di sostanzialmente vivo nel raschio che taglia in due la voce di Lucia Manca nel brano che dà il titolo al suo album pubblicato nel 2018. Secco, lasciato cadere senza addolcimenti o dinamiche crescenti, il verso riproduce efficacemente – nei suoni, più che nelle parole – quel particolare senso di soffocamento e ira che si genera nel corpo nel momento immediatamente successivo alla scoperta di una cocente delusione, magari incentivata e fomentata proprio per scelta personale.
Un investimento in cui si è creduto e che invece ha lasciato a tasche vuote, con solo l’umiliazione di un groppo in gola e un cumulo di rabbia, che deve però paradossalmente fare i conti con le proprie responsabilità, l’averci creduto nonostante tutto, in una tipica forma di cecità amorosa.
Maledetto e benedetto, come tutti gli amati ormai finiti altrove: l’ossimoro di un qualcosa che si vorrebbe poter mettere al centro di un odio onnicomprensivo e che invece è per forza anche meritevole di tante altre cose, anche solo del fatto di esserci stato, di aver consentito che quell’amore si espletasse. Attorno a questa contraddizione sentimentale la letteratura del pop italiano cantato da donne potrebbe costruire un volume intero, tra classici e contemporanei: Mina, Ornella Vanoni, Antonella Ruggiero, Carmen Consoli, Cristina Donà, Maria Antonietta, e soprattutto e naturalmente le sorelle Bertè.
Oltre a fornire il titolo, “Maledetto” gioca un brano centrale in Maledetto e benedetto, l’album che segna il ritorno di Lucia Manca a sette anni dal suo esordio omonimo (prodotto da Giuliano Dottori) e che, in qualche modo, rappresenta un punto e a capo di questa esperienza artistica. Tra le canzoni lunari e molto ‘suonate’ di quel disco e questi otto quadretti pare infatti esserci un abisso, intanto in termini vocali.
Manca rinuncia a virtuosismi ed esercizi di dote e sembra costantemente alla ricerca di un punto timbrico in cui la voce sia in grado di trasferire emotività alla stessa maniera di un impasto sonoro per sintetizzatore. Così un effetto graffiato cerca il colore della nostalgia (“Bar Stazione”), un bisbiglio in più cerca di infondere seduzione e dolcezza a un notturno passo a due (“Noi”), e un eccesso di filtro porta con sé il groppo in gola di un tradimento cocente e insieme la sensazione di allontanamento crescente, come nel bridge di “Maledetto”, in cui Manca ricorda con rabbia “quel disco maledetto” mentre la sua voce sembra smaterializzarsi sullo sfondo, come un urlo destinato ad ammutolirsi, diventare eco piano piano sempre più impercettibile.
Un ruolo essenziale è da attribuire alla produzione di Matilde Davoli: portando a compimento molte delle idee sviluppate nel suo bellissimo I’m Calling You From My Dreams (dove portarle a compimento può voler dire passare dal frammento alla canzone autosufficiente, dalla suggestione alla forma geometrica definita), Davoli sviluppa un punto di incontro ideale in cui far convergere la produzione Bertè degli anni Ottanta e la vaporwave, i migliori album sofistipop dei Matia Bazar (più che i più sperimentali Tango e Aristocratica, il trittico Melancholia, Melo e Red Corner in certe loro estasi al di sopra del tempo come “Souvenir” o “Mi ami ancora“) e l’anima protesa verso la synth wave dell’ultimo album di Mac DeMarco (soprattutto “One More Love Song” e “On the Level”). Senza dimenticare però un passaggio essenziale: quella “Hotel Riviera”, unica canzone pop in quel trip sonoro che è Mechanics di Jolly Mare, in cui Lucia Manca ha dato voce a un personaggio a doppia faccia, deluso dal sentimento e insieme pronto alla vendetta, in un pastiche di taglio cinematografico che già prefigurava l’abbraccio dell’italo pop anni Ottanta come nuovo eden d’adozione (qui la nostra analisi completa).
Su questo tessuto che suona incredibilmente nostalgico e insieme radicato nel contemporaneo, si innestano le canzoni di questa nuova Manca: frammentate, piene di vuoti, affidate a versi che sembrano piombare sul pavimento dal nulla, fare una nuvola di polvere e un rumore assordante per poi scomparire nel vuoto.
Il telefono che suona
in agguato affondo lenta
il trip che mi hai dato
il trip che mi hai dato
Tutto è un flash, è dettaglio senza contesto, luce che d’improvviso illumina parte della sequenza scoprendo contorni persino inquietanti per poi spostarsi rapidamente lasciando che i suoni sintetici e fuori fase determinino il registro della scena, che sia a turno un thriller o un melo, un rigoroso film d’autore in b/n o una versione hyper-cool di un action, alla Drive. “Maledetto” articola pochissimo, lasciando che sia l’ascoltatore a comporre il resto della scena. L’idea è anche consentire un’identificazione larga: la maledizione al disco “che si è pure rovinato” è uno stilema iconico che unisce adolescenza vintage addirittura anni Sessanta a retromania integral-vinilista in chiave contemporanea, così come il riferimento al “trip” non può che essere ironico nel suo richiamo tardo giovanilista, suscitando anche in questo caso una sorta di morbida tenerezza nostalgica.

Nel rispetto di un tòpos della canzone di autodeterminazione, il ritornello articola poche frasi attorno all’idea dell’andarsene da soli, chiudere i conti con una situazione ormai in un vicolo cieco e farlo “senza chiedere”. La ritmica è abile a costruire una sensazione di irrequietezza quasi isterica, così come la scansione degli accordi restituisce il senso di un movimento urgente. In generale, “Maledetto” (e un po’ l’intero lavoro) è un brillante esempio di come sia possibile una scrittura synth pop che sia sinestesica ed emotivamente ricca anche usando la lingua italiana, attingendo a quel serbatoio di grandeur interpretativa che sono stati i nostri anni Ottanta per il pop cantato da voci femminili e che paradossalmente viene ancora bistrattato da tante voci contemporanee, incagliate sull’immagine autoproiettata di una Pj Harvey che non invecchia mai.
Manca, invece, si è rigenerata proponendo un’alternativa a conti fatti non solo promettente, ma già unica, ammaliante e insieme sfuggente, a suo modo coerente a un’idea musicale precisa e non occasionale, che si svela così poco alla volta da invitare a più ascolti ripetuti. Un filo teso tra “Kill for love” dei Chromatics e “Così ti scrivo” di Loredana Bertè, non a caso, nel segno degli amori che contengono i loro opposti, da maledire e benedire, sempre allo stesso tempo.
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