Amarsi è come armarsi
Acqua (Malpensandoti) di Tedua, da Mowgli, 2018

Nella primavera del 2017 Dargen D’Amico pubblica Variazioni, singolare e profondamente dargeniana operazione di revisione parziale di alcune tracce del suo passato in chiave ‘classic pop’. Diviso a metà con le versatili invenzioni pianistiche di Isabella Turso, il lavoro si muove nella direzione opposta a quel che il gusto trap impone, sospeso tra un beat assente o sbriciolato e inattesi rivoli di archi, conferendo all’ascolto la sensazione di muoversi in una landa senza nessuno attorno, con un Dargen in grande forma nel suo universo poetico, in totale solitudine.
Eppure l’album si chiude con “Il ritorno delle stelle”, traccia fumosa e torrenziale, in cui Dargen coinvolge tre pregiatissimi esponenti della trap in procinto di esplodere : Rkomi, Izi e Tedua. La sfida si gioca su un terreno polare, davvero ignoto, eppure si rivela sorprendentemente vinta, con “Il ritorno delle stelle” che diventa l’esplicitazione di un collegamento non scontato: accomunati da una sfida alla metrica e da un modo decisamente personale di intendere il proprio immaginario, i tre trapper appaiono pienamente coerenti al modo lunare di pensare il rap di Dargen, in costante ricerca di una dimensione altra e alternativa, schivante la linea dominante, a costo di risultare obliqui. Il finale è chiaro: “Sono l’ambasciatore di un’altra dimensione / Che si allontana dal senso con tutte le forze / E lascia che parli il ritmo come il morse / Tanto anche se hai il testo sotto non afferri il sottotesto / Vola via col vento fresco verso il sottotetto / Parole sante, pesanti, autoimmuni / Tutto il resto è noia e droghe e luoghi comuni”. Il titolo appare, più che profetico, declamatorio.
Dopo pochi mesi la trap divampa e Tedua è fieramente al centro delle fiamme a bruciare tizzoni. Il merito è del suo album Mowgli, lavoro di sofisticata complessità, senza featuring, non inutilmente pretenzioso ma nemmeno immediato, in generale un lavoro fortemente evolutivo, un passo in avanti nella proposta complessiva italiana. Il suo flow è contorto e insieme fascinoso, le rime chiedono più ascolti, i ritornelli concedono poco. Eppure Tedua non è ‘difficile’, anzi: trovato il punto di ingresso nel suo mondo espressivo, si scopre un flow avventuroso, che risponde a geometrie intime precise e coerenti, ricco di variazioni, imprevisti, sfasamenti. Una giungla da attraversare con euforia.
Mowgli è tagliato in due da “Acqua (Malpensandoti)”, una traccia che si può ascrivere al filone più intimo del suo repertorio e che ha una caratteristiche che la distingue dalla gran parte delle canzoni trap italiche contemporanee proprio per il legame che evoca con l’esperienza di Dargen D’Amico (ma ci arriviamo). Il beat prende le distanze dallo stilema trap e si avvicina più alle esplorazioni di un Drake, a dimostrazione della versatilità sorprendente di Chris Nolan, della sua capacità di creare spazi sonori a tre dimensioni, invece che fermarsi al canone. La trama ritmica di “Acqua”ragiona infatti in termini spaziali, come tendesse a tramutarsi in onda oceanica, come fosse attraversata da una frescura. Su questo vassoio di cristallo Tedua ha tutto il comfort possibile per sciogliere la sua narrazione: un flusso di coscienza semilucido in cui la ricercata solidità a seguito di una storia terminata viene messa in crisi dal potere perverso del ripensamento.
Il trapper rievoca i momenti bui vissuti senza cedere a reazioni di prepotenza ma affrontando la drammaticità del momento con la schiena dritta:
E quando mi hanno messo i piedi in testa
Non mi sentivo affatto gangsta, infatti ho fatto Tedua
Con i fari nella notte tra la nebbia
Con le nocche gocciolanti sui sedili in pelle nera.
Si autoincita per andare avanti: “No, fra’, nuota / Non la nota l’onda”, ma il pensiero è ondivago e “ritorna col mare quei sensi di colpa”, e allora tenta di staccarsi dal terra, solcando l’aria:
Prova, vola
Nolan pilota
Piroette nel cielo
È un momento di grande intensità, oltre che esemplificativo del modo particolarmente peculiare che Tedua ha di giocare con sillabazioni e accenti, assonanze e deformazioni, senza sempre per forza accumulare: in questo gancio il flow tipicamente irregolare si assesta su note larghe, come a cercare di spiccare un volo che non è possibile, e infatti la canzone resta lì.
Emerge l’idea che la storia sia finita nel momento in cui lei, “un fiore che sboccia”, si sia ‘accorta’ che lui proviene da un tessuto sociale più umile (“E ti sei accorta fossi povero e i miei amici dei balordi”). Il topos della miseria vissuta come emblema di onestà acquista qui una dimensione inedita, che Tedua tratta in chiave narrativa, come se dopo aver descritto l’andamento del pensiero, sapientemente, inserisse un elemento legato all’azione, una sorta di flashback su una sequenza che racchiude frammenti dei momenti topici:
Così mandai tutto a puttane
Come una serie senza più puntate
E pensai non ti imputare e tu puntuale
Come un rituale
A ricordarmi che le palle
Non si fanno con le spalle palestrate.
Lei ha messo lui di fronte a una sfida all’indole, all’istinto di reazione attraverso un gesto netto, persino violento. Lui sottolinea costantemente la capacità che lei ha avuto e ha ancora di ferirlo (“ti rendi conto del male che fai?”), tradendo la sua idea di rapporto affettivo per forza influenzata da un’esperienza di vita dura, intesa come battaglia, come duello: “Non allarmarti, amarsi è come armarsi / Voltarsi, e contar dieci passi”, e si tratta di una coppia di versi di notevole intensità.
In questa sorta di lettera libera ed emotivamente coinvolta a lei, affiorano a tratti lampi di vita quotidiana. Nel rispetto del codice del flow, queste sequenze sono delle deviazioni dalla scena principale, ma solo all’apparenza: un amico che è ‘andato in scimmia’ per astinenza da droga e si mette a rubare, un richiamo improvviso alla realtà, probabilmente autobiografica (“Pignora la casa a una madre il sistema bancario europeo”), un frammento di conversazione che potrebbe alludere a un nuovo legame di lei, ma anche no (“Io vi sgamo e palleggiate”). Emergono come fantasmi momentanei, squarci fumosi e storditi, ma concorrono a dare l’idea di un momento di scarsa lucidità, in cui i pensieri fanno guerriglia tra loro, contrastando la volontà di andare avanti, di trovare la vastità delle masse acquatiche, rifocillarsi finalmente.

Il ritornello, melodico e cantabile, seppur intimo, come cantato nel privato di una stanza, suggella questo grumo mentale in una sostanziale incapacità di determinare se sia ormai arrivato il tempo dichiararsi ‘oltre’ il dolore della storia, o peggio si è semplicemente entrati in una fase di sterilità emotiva, quella durezza necessaria per ripartire ma in fondo così livida: “E Il male che ho dentro non sento più / e non so se è lontano o vicino / come i bimbi la TV”. Sono le parole di “Malpensandoti” di Dargen D’Amico, uno dei brani più intensi di D’ – parte prima, 2010. Estesa per oltre cinque minuti e mezzo, è una di quelle tracce in cui Dargen lascia il suo flow irregolare e torrenziale libero di prendersi tutto lo spazio necessario. Racconta le ansie e i contropensieri che gli prendono aspettando all’aeroporto di Malpensa il ritorno della sua ragazza dopo tre mesi di distanza (“E poi dov’è finita la vita che vorrei / Che mi levi le nuvole dalla testa / Ma non devo intristirmi oggi che ritorna lei / Pioggia cadi quanto vuoi, oggi è un giorno di festa”). Alla fine Dargen concede un solo ritornello cantato, di grande dolcezza e insieme di sospensione, lo stesso ripreso praticamente integralmente da Tedua per “Acqua”, nella linea melodica come nell’approccio ritmico.
Per la sua canzone di amore e incertezza, Tedua ha ribaltato l’uso del ritornello che aveva fatto Dargen: quello che era uno sciogliere le ansie e ‘i malpensieri’ nella visione concreta di lei e nel ricongiungimento diventa una sorta di minaccia costante, come se la presenza fisica di lei impedisse a lui di proseguire sul suo percorso di coerenza e riaffermazione, e però è una visione comunque benefica, in grado di sospendere ‘i malpensieri’, farli fluttuare, come boe senza peso sulla superficie marina. Da qui anche l’efficace idea di lasciare il beat proseguire senza voce, per una volta, in una sorta di coda strumentale: nulla di radicale, per carità, ma comunque una pausa rara nel vorticoso flusso generalmente senza silenzi del linguaggio.
Il cerchio si chiude, pertanto, in un omaggio e insieme in un’attribuzione di influenza. Se le apparenze potevano far pensare che queste due esperienze fossero distanti, Tedua ha l’acume di far venirne a galla le vicinanze, riconoscendo in qualche modo a Dargen i suoi meriti: l’abilità di descrivere gli stati interiori in modo imprevedibile, non rispettando le scatole predefinite del sentimento ma insistendo sempre sull’incertezza e l’indugio, e insieme di non voler mai cercare la soluzione più banale, a costo di sembrare ostico, o persino alienato.
Mentre i soldatini più integralisti della trap italica lanciano proclami di autosufficienza continuando a produrre una quantità enorme di lavori ‘nel canone’, sempre più difficili da assorbire, i rappresentanti delle ‘vecchie scuole’ si dividono tra chi alimenta una sorta di scetticismo radicale, denigrando le nuove leve, tacciandole di vuotezza contenutistica e banalità artistica, magari semplicemente incarognendosi per un mancato riconoscimento di paternità, e chi invece quella paternità in qualche modo la suggerisce o la rivendica direttamente: che siano proclami legati all’opportunità materiale del momento o benedizioni sincere è un’ambiguità che forse è connaturata all’essenza stessa della cultura di riferimento; resta un dato di fatto che il rapper che dimostra di essere agile a modellare il suo linguaggio su quello della trap, ottiene in cambio il riconoscimento di un ruolo di riferimento nel panorama – e, di conseguenza, espande il suo pubblico in un momento in cui l’interesse per il genere è diventato irripetibile.

In questo contesto Tedua ha fatto una mossa laterale e per certi versi coraggiosa: è riuscito a rimanere originale senza il timore di una citazione proveniente da una ‘scuola’ che oggi può sembrare temporalmente distante, peraltro dal suo artista più singolare e non classificabile, a ribadire la pienezza della sua identità e insieme a dimostrarsi non pavido di fronte all’ipotesi di un legame con il passato. Il ritorno delle stelle, quindi, era una profezia: Tedua ne è uscito fortissimo e, come sempre, aveva ragione Dargen.
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