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Ho pianto sul tempo che fugge

Le rane dei Baustelle, da Amen, 2008

Baustelle I mistici dell'occidente

Adottata spesso come chiusura dei concerti, “Le rane” è forse una delle più meste tra le canzoni pubblicate dai Baustelle prima dell’esperienza cineraria di Fantasma, nonostante l’ingannevole afflato da mid-tempo sostenuto, il ritornello da marcetta sincopata, gli accordi in maggiore, le settime. Forse perché la scrittura di Francesco Bianconi pare teneramente accorata, emotivamente partecipe; o forse perché, tra le tante indagini sulla giovinezza che popolano la discografia del gruppo, è una di quelle che meno nasconde gli eventi attraverso immaginari pregressi, cinema letteratura o arte che siano (anche se il brano, naturalmente, è uno struggente racconto breve dai colori ampiamente cinematografici, come diremo dopo).

Estratta da I mistici dell’occidente come secondo singolo, “Le rane” ne è forse l’episodio più apparentemente luminoso, in un album in cui i Baustelle sembrano ormai interessati soprattutto a veicolare un respiro epico alle singole canzoni, a infondervi la grandeur della narrativa e l’enfasi dei grandi capitoli (“Gli spietati”). Un album complesso, pieno di contrasti, tuttora parzialmente decifrato (che cos’è “San Francesco”?) e arduo da inquadrare, che in alcuni episodi sembra voler restaurare i fasti di Sussidiario illustrato della giovinezza (“L’estate enigmistica”) e in altri proiettato verso il prossimo futuro di Fantasma (“Follonica”, “L’indaco”). In questo quadro molto eterogeneo e centrifugo, “Le rane” si appiccica ai ricordi grazie a una melodia allegra che ha qualcosa di infantile, come un ricordo di scuola. E che però, a un livello più profondo, nasconde un’amara presa di consapevolezza sul tempo innocente perso per sempre, le occasioni perdute, il diventare cinici e sentimentalmente avvizziti, il non riuscire a voltarsi indietro.

Usando l’imperfetto e rinunciando a ogni introduzione, Bianconi scaraventa senza preamboli l’ascoltatore nel passato narrativo, che non è un “eravamo io e te” ma già un “facevamo qualcosa”.

Il flashback è intenso, e coglie i protagonisti – il ricordante e il ricordato – nel momento in cui accadono le grandi trasformazioni della gioventù, ossia quei punti focali determinanti in un racconto di formazione: “Mentre scoprivamo il sesso”, “Eccoci che attraversiamo i girasoli”, “Andiamo via dalla realtà”.

È un film che comincia nel suo passato, nei cromatismi solarizzati con cui si rievocano le scene di provincia nel cinema italiano popolare, come C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, come fa il suo reworking La prima cosa bella di Paolo Virzì, uscito in sala appena due mesi prima del disco dei Baustelle. Cromie che sanno di Italia idealizzata e provincia nostalgica, e che saranno esplicitamente riprese nel video che accompagna la canzone, girato nelle campagne pugliesi.

Il tu è una figura amicale, una di quelle con cui si condivide l’era puberale, la scoperta del sesso e i giochi di ribellione pre-adolescenziale, come può essere “la crudele pesca delle rane”. Un amico per cui provare un languore fraterno (“fratello mio”), con il quale fantasticare una fuga dalla boriosa provincia, i bar di quartiere, le “case popolari”. Uno di quelli con cui vivere guancia a guancia fino alla maturità, che qui vale sia come titolo di studio che come fase generazionale più ampia.

Bianconi tesse una classica epica del sogno provinciale. Quando l’utopia cade, ci si perde, si arriva in città, ci si confronta con nuovi stimoli, l’ambizione, il successo, le scatole rigide del vivere quotidiano. Si tenta di non dimenticare quella magia, che più passa il tempo più perde nei ricordi il sentimento negativo dell’isolamento provinciale e acquista un’aura quasi mitica, persino georgica, chiaramente distante dalla realtà dell’odierno.

Tutto ciò in trenta secondi scarni, giusto il tempo di farsi scaraventare nel presente, un presente per forza inquisitorio: “Che fine hai fatto?” fratello, “che prezzo hai pagato”, “che effetto ti fa”. L’effetto dovrebbe essere quello del rivedersi dopo molto tempo, ma in realtà sembra che Bianconi stia solo immaginando questo momento di confronto dopo tanti anni.

Nel richiamo all’idilliaco passato operato da un presente realistico e quotidiano, l’io è forse spaventato, addirittura terrorizzato dal vedere il segno del tempo sul volto e negli atteggiamenti del compagno: quell’immagine dell’amico cambiato, visto l’ultima volta bere un amaro al bancone del bar, gli genera una reazione quasi inaccettabile, tra pena e compassione, inevitabilmente un po’ borghese.

La giovinezza è da sempre un immaginario al centro delle canzoni dei Baustelle, eppure mai si era caricata di toni drammaticamente teneri come in “Le rane”. In queste liriche sono (quasi) scomparse certe derive dandy che raffreddano la materia in altri episodi baustelliani; qui i ricordi viaggiano sul filo del rimpianto eterno come in C’era una volta in America o, per restare nel mondo canzone, come in Dov’è che siamo rimasti a terra, Nutless, il gigantesco affresco sulla giovinezza perduta che Vinicio Capossela dipinge, con toni alla Sergio Leone, in Ovunque proteggi. Solo che dove Capossela attinge a piene mani alla dilatazione espressiva ed enfatica di Leone, Bianconi ricorre invece a una tavolozza acquerello, toni rapidi, contorni sfumati, melodia da allegra cantilena. Scola.

Locandina di "C'eravamo tanto amati" di Ettore Scola (1974).
Locandina di "C'eravamo tanto amati" di Ettore Scola (1974).

Anche se va detto che il finale è tragico e interiore: una forma di senso di colpa (“Se vuoi ti ho tradito”), la vergogna e l’imbarazzo (“l’ultima volta che ti ho salutato / poi sono scappato nel cesso del bar”), lacrime rituali, quasi commemorative (“ho pianto sul tempo che fugge / e su ciò che rimane”).

Non prima di aver fatto un gesto degno del Tiziano Ferro di Ti scatterò una foto: immortalare il fraterno amico nella memoria “coi sandali e il coraggio di Yanez”, l’eroe simbolo di Emilio Salgari, citazione che consente a Bianconi di introdurre anche un ulteriore intreccio letterario all’interno della composizione. È una citazione che, naturalmente, parla di adolescenza, provincia ed evasione, mondi immaginati senza essere vissuti e possibilità perdute.

Alla fine il sogno di giovinezza disintegrato per sempre è racchiuso in un’immagine straordinariamente esplicativa:

io nel frattempo me ne sono andato

se vuoi ti ho tradito

che effetto mi fa

la piscina di un agriturismo

ha coperto le rane

Proprio quella piscina che è un tempo era lo stagno per la raccolta d’acqua piovana, in cui i nostri eroi salgariani giocavano alla “crudele pesca delle rane”. Ancora una volta in Bianconi sotto la vicenda privata si fa strada un topos architettonico, una trasformazione spaziale che serve a fare diventare la riflessione iconica di una generazione (come accade con la Stazione Centrale di Antropophagus, ma anche in Bruci la città, Monumentale etc.): siam finiti a fare i radical chic con le piscine con pietre a vista, gli orti biologici e il turismo esperienziale, a fingere sollazzo con un buen retiro campestre dalla frenesia quotidiana, ma in fondo da questi luoghi volevamo fuggire a gambe levate, e abbiamo voluto dimenticarcene quando ci è convenuto. Qualcuno ci è riuscito, qualcuno no: riconoscere questa forma di compassione nel guardare chi è rimasto è terribile.

E allora la coda strumentale, uno dei punti massimi di composizione a livello musicale dei Baustelle, ad ascoltarla con cura, è puro pop-prog anni Settenta, Supertramp e Genesis post-Peter Gabriel, soprattutto gli Stadio degli esordi, e persino la coda di Mambo di Lucio Dalla, altro brano di contrasto estremo, violentissimo nelle parole (“Datemi un coltello”) e di dolce rilancio nella musica. Un giro armonico denso di nostalgia ma di allontanamento consapevole, il basso e la chitarra all’unisono a tracciare accordi maggiori che si ripiegano sulla loro versione minore, le undicesime, cribbio, le undicesime, accordi da cui si può solo spiccare il volo, ma se ci rimani e perseveri, che frustrazione. E in fondo cosa sono Mambo e Le rane, se non due versi diversi della medesima medaglia? I due lamenti sincronici di chi abbandona e di chi resta abbandonato?

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