Piccoli divieti a cui disobbedire
Le mie parole di Pacifico, da Pacifico, 2001 – reinterpretata da Samuele Bersani in Che vita!, 2002

Pacifico ha attraversato il post Duemila permettendosi di rimanere a una sobria distanza dai fumi della notorietà e dai languori mediatici, e ciò nonostante continuando a puntellare le annate di canzoni emotivamente dense, spesso di buon riscontro, talvolta di enorme successo. Incredibilmente, non si è registrata alcuna divergenza o concessione stilistica tra la produzione da lui cantata e quella riservata agli altri, dove per altri si intende l’Olimpo del pop italico pre e post millennium bug: Gianna Nannini, Adriano Celentano, Andrea Bocelli, Ornella Vanoni, Malika Ayane, Giorgia, Antonello Venditti, Zucchero, Raf, Eros Ramazzotti, per citarne soltanto dieci.
La sua è una storia tutta del terzo millennio che però parte negli anni Novanta, il decennio che come Gino De Crescenzo spende da membro della band milanese dei RossoMaltese (due album, Santantonio e Mosche libere) e come autore delle musiche di Sud side stori, il secondo musical ‘sudista’ di Roberta Torre, dopo il fortunato Tano da morire.
Nel 2001 De Crescenzo diventa un progetto artistico vero e proprio: con l’album Pacifico nel 2001 dà vita a un percorso autonomo, che riceve un immediato plauso critico (la Targa Tenco per l’opera prima) ma suscita anche la curiosità del pubblico, almeno di quello sufficientemente attento a lasciarsi sedurre da un brano come “Fine fine”.
Da qui in poi la storia di Pacifico manterrà su due binari paralleli l’esperienza del cantautore e quella dell’autore per voci altre, con la seconda spesso talmente miracolosa da fagocitare la prima. Intanto ogni singolo album di Pacifico incarna suoni differenti, in qualche modo figli del tempo in cui essi sono stati pubblicati. Le canzoni di Pacifico e in più ampia misura Musica leggera si appoggiano sulle sottili impalcature di elettronica di ispirazione nord europea di inizio millennio (di cui i La Crus sono stati indubbiamente i precursori), mentre Dolci frutti tropicali vira su una dimensione analogica quasi esasperata e ‘tattile’, più vicina alle esperienze di soft jazz particolarmente in voga in questi anni (Norah Jones, Peter Cincotti).
La penna, tuttavia, resta inconfondibile, come lo è soprattutto il tono con cui agisce: accurato, cauto, disteso, che fa venire voglia di abbassare la voce ed ascoltare con più attenzione del solito queste parole.
Le parole, già. È significativo che sia un brano come “Le mie parole” a essere da sempre considerato il manifesto di questa poetica. Non una canzone d’amore, o un testo narrativo o di sguardo sociale. È qualcosa che sta al di sopra di tutto ciò, che ragiona su quel che ci consente di cantare d’amore o rabbia o qualsiasi sia l’emozione. È una canzone sul linguaggio e i suoi infiniti poteri, che indaga a fondo il rapporto tra la parola e chi la usa, lasciando che essa sia ritratta in mille modi, senza fornire spiegazioni: ispirazione, ossessione, dipendenza, mistero.
È una canzone sulla parola detta, solo a volte approdata su carta (le “foglie cadute”, classica citazione prevertiana) o su pentagramma, e ancora più raramente destinata a rimanere, a farsi – chissà – canzone:
Sono note stonate, sul foglio capitate per sbaglio
Tracciate e poi dimenticate
Questa precisazione va fatta perché essa non venga identificata troppo facilmente come una canzone come manifesto artistico: ha questo ulteriore valore, ed è affascinante che questa lettura sia valida. Tuttavia “Le mie parole” si mantiene a un livello più ampio e macroscopico: cristallizza il momento in cui si osserva la potenza in azione della propria parola, che si essa di difesa, seduzione, spasimo, sospiro, dubbio, timidezza, tormento (le “notti interminate”), aggressione (“spade, fendenti”); e nell’osservarlo, si rimane estasiati, come in un incanto.
L’incanto è, concretamente, la stessa invasione di parole che investe Pacifico: “Le mie parole”, infatti, è una canzone-fiume, un flusso in rime che inizia senza introduzione e che corre su due coppie di strofe lunghe e con poche pause, in cui la metrica sembra quasi alludere a uno schema funky per spostare gli accenti costantemente (provate a cantarla a doppia velocità, per coglierne l’effetto). Come travolto, Pacifico lascia che queste immagini si accatastino l’una sull’altra il tempo sufficiente perché esse suscitino una suggestione senza fossilizzarsi su di essa.

Mentre le accatasta, le interseca. E così “Le mie parole” è un fiorire di rime irregolari, con cambi di genere e numero e invasioni di altri versi che servono a minare la rigidità, come a rappresentare l’imprevedibilità delle parole stesse.
Le mie parole sono sassi,
precisi e aguzzi, pronti da scagliare
Su facce vulnerabili e indifese
Sono nuvole sospese, gonfie di sottintesi
Che accendono negli occhi infinite attese
Sono gocce preziose, indimenticate
A lungo spasimate e poi centellinate
Sono frecce infuocate
Che il vento o la fortuna sanno indirizzare
Ecco che nella prima strofa, per esempio, la finale in -ese compare in forma alternata ma una volta alla fine del verso e un’altra a metà (indifese/attese, sospese/preziose, quest’ultima nella sua variazione in -ose), e questo schema è comunque messo in crisi da un’altra variante in -esi. Mentre la rima in -ese esplora più possibilità, ecco intervenire un’altra rima in -ate, ripetuta a rapido giro quattro volte, e non chiusa: “frecce infuocate” invade il verso finale senza che esso ribatta la rima, che invece si chiude in -are, riallacciandosi ai primissimi versi.
È un disegno ammaliante e non cervellotico. Non solo non viene rispettato nelle altre strofe, ma è chiaramente guidato dal piacere della consonanza, dal sottile potere (quasi magico) che essa ha di avvicinare il senso di termini anche distanti tra loro, di mettere in comune immagini, farle scaturire l’una dall’altra, suggerire e farsi trasportare da ciò che accade: in altre parole, sono rime che danno l’idea di parole ‘vive’. Tanto vive che “Le mie parole” ha il potere di risucchiarti al suo interno, sfidare la tua memoria a ricordarne blocchi, a ripeterne porzioni come uno scioglilingua, e non pare esaurire mai questa energia.
Tutto il peso costruito sulla strofa – questo flow lento e incessante, in tonalità minore – viene rilasciato nel ritornello. Qui le parole si diradano, dilatando la loro durata fino a prendere la forma di una lenta marcia, mentre l’armonia si allarga verso toni ariosi (e un filo verdiani, azzerderei). Ma ancora è una soluzione che ha un elemento di imprevedibilità, di disturbo: l’accordo finale distorce l’armonia, introducendo una modulazione vicina al paradosso (“sentite o sogna-te…”), o comunque un filo onirica, beffarda e ‘strana’, prima di rientrare subito verso i toni minori della strofa.
C’è solo un autore, a quel punto attivo già da un decennio, che su queste deviazioni armoniche ha costruito un modo inedito profondamente riconoscibile di scrivere canzoni: Samuele Bersani. È lui a farsi carico di prendere queste parole e farle risuonare alla sua maniera. Per un autore dai termini tanto codificati e difficilmente modellabili, la scelta di prodursi in una cover di questo genere ha un grandissimo valore simbolico, peraltro facendola diventare praticamente un pezzo fisso dei suoi concerti, interpretata tuttora.
Verrebbe da dire che non si tratti di semplicemente innamoramento: in “Le mie parole” Bersani sembra aver colto l’enorme potenziale posseduto da questa combinazione di versi e incastri melodici, come se essi fossero in grado di esistere al di là della loro provenienza originaria. L’autore romagnolo ne dà una versione ancora più misteriosa, che sembra ingaggiare quasi un duello con i suoi classici detour armonici. Pubblicata per la prima volta nella raccolta Che vita! Il meglio di Samuele Bersani nemmeno un anno dopo la sua apparizione nell’album di Pacifico, “Le mie parole” in chiave Bersani sembra così caricarsi pienamente di quei significati legati alla creazione artistica e all’imperscrutabilità di questa azione.
È l’inizio degli anni Zero e le parole cantate devono ancora attraversare la tagliola della frammentazione sintetica che conosceranno di lì a poco. Pacifico scriverà molte altre parole. Messi insieme i sei album a suo nome con le circa trenta canzoni scritte per altri, diventerà – e lo è tuttora – una sorta di arbiter elegantiarum della canzone d’autore del terzo Millennio, al punto che molti interpreti pop, quando a lui si appelleranno, lo faranno quasi implicitamente per ‘elevare’ il loro repertorio (lo fa, certamente, Celentano). Intanto, senza mai sgomitare per acquisire questo ruolo, Pacifico definisce uno “stile Pacifico”, una sorta di brevetto: una propensione melodica forte seppur mantenuta in una sorta di range di sobrietà, il gusto per un’armonia riconciliante, velatamente malinconica, sonorità tenui, calde, avvolgenti, un filo brumose. E, naturalmente, un’eccezionale attenzione al peso che hanno quei “piccoli divieti a cui disobbedire”: le parole, le sue.
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