
Enzo Avitabile
Sassofonista, vocalist, maestro cerimoniere di performance intime al confine con la musica sacra come di travolgenti concerti di piazza, performer, autore, compositore di musica classica, ricercatore di scale musicali rare, oggetto di un documentario girato da un premio Oscar e vincitore lui stesso di più premi cinematografici, traghettatore di somma importanza del concetto di ‘world music’ nella cultura musicale italiana (e viceversa): Enzo Avitabile è tutto questo e tutto questo è solo una minima parte di quello che Enzo Avitabile rappresenta per la canzone. Specifico: per la canzone italiana tutta, se l’Italia non fosse ancora schiava di un retaggio culturale per cui ciò che proviene da una cultura non omogeneizzata sul territorio nazionale, e in quella lingua si esprime, è un fenomeno ‘locale’, da considerare in categorie separate e speciali. Ancora più se la lingua è il napoletano.
Dopo 18 album e 35 anni di carriera, nel 2018 Enzo Avitabile approda in gara per la prima volta al Festival di Sanremo 2018, in coppia con Peppe Servillo. È una partecipazione dal valore simbolico elevato, non una mera esigenza di calendario discografico: è il tempio della canzone pop che apre finalmente le porte a un innovatore irripetibile del ‘popolare’ musicale in Italia, sebbene per certa stampa la sua presenza sia banalmente una “quota Napoli”, un tributo da pagare in una concezione vetero-partitica di programmazione artistica. Anche ad uso di questi cronisti, ecco la guida Unadimille alla discografia di Enzo Avitabile. Come in tutte le sintesi, ho dovuto omettere vari dettagli, come ad esempio un detour sulle canzoni scritte per altri (la più recente: “Nel mio secondo cuore”, una bella canzone donata a Paola Turci) o un’analisi dell’imprescindibile Enzo Avitabile Music Life, il documentario del 2013 di Jonathan Demme, l’autore Premio Oscar di Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, nonché uno di quelli che ha segnato la storia del documentario musicale e che ha dedicato film a personaggi come Neil Young o i Talking Heads, per dire dell’opinione all’estero di Avitabile. Ma come ho scritto in occasione della prima di queste discografie commentate, dedicata a Cosmo, sono pagine pensate per essere aggiornate costantemente.
La carriera di Enzo Avitabile si può organizzare in due tempi ben distinti tra loro. Chi parte da zero può concentrarsi sulla seconda fase, sui lavori pubblicati dalla fine degli anni Novanta fino ad oggi, e il quadro complessivo che ne verrà fuori corrisponderà a ciò che Avitabile oggi posiziona come maggiormente rappresentativo: nelle interviste come nelle scalette dei concerti su un palmo di mano. È anche il periodo che troverete descritto in questo articolo, coerentemente con il taglio cronologico di Unadimille (che parte quasi sempre dal Duemila).
Tuttavia gli otto album pubblicati da Enzo Avitabile tra il 1982 e il 1994 non sono certo da trascurare, anzi: testimoniano un percorso evolutivo che da solo potrebbe essere il soggetto di un’altra analisi.
Gli inizi jazz-funk: da Avitabile (1982) a Easy (1984)
Dal 1982 al 1994 Emi pubblica i primi otto album di Enzo Avitabile: Avitabile (1982), Meglio soul (1983), Correre in fretta (1984), S.O.S. Brothers (1986), Stella dissidente (1990), Enzo Avitabile (1991), Easy (1994). Sono lavori a cavallo tra tra jazz-funk e ‘blues metropolitano’, per citare il titolo di un film del 1985 che tentava una documentazione del fermento musicale partenopeo di quegli anni. La forma di queste canzoni, nella gran parte dei casi, riflette le convenzioni che questa scena adottava – generalizzando – per tradurre le suggestioni black nel linguaggio mediterraneo e melodico italiano: ci sono la fascinazione per un meticciato linguistico tra napoletano e americano slang (“O soul mio”), il racconto di una Napoli ‘altra’, il richiamo alla grande anima ‘nera’ che attraverso la musica attraversa i continenti (“Fratello soul”).
È soprattutto in questo senso che è impossibile non tenere conto dell’influenza immane della figura di Pino Daniele su questa discografia (per anni Avitabile è stato identificato semplicemente come ‘il sassofonista’ di Pino e di Terra mia) sebbene soprattutto dalla seconda metà degli Ottanta in poi si percepisce il tentativo di affrancarsi da questo portato, man mano che le canzoni di Avitabile sperimentano un’idea di ritmicità che non sia secondaria rispetto all’armonia. Il culmine è nell’interesse per il soffio rivoluzionario portato dall’hip hop: “Street Happiness” è il 45 giri che Enzo Avitabile realizza a quattro mani con Afrika Bambaataa, e pur nei suoi cliché da funky di fine decennio, contiene segnali già molto chiari sul respiro globale della sua ricerca.
In Enzo Avitabile Music Life, il film di Jonathan Demme di cui parleremo in seguito, all’esperienza jazz-funk è dedicato un incipit di pochi secondi, come un riferimento a un passato remoto, e nulla più. Si contano sulle dita di una mano anche i brani riproposti nei concerti della fase successiva, sempre reincarnati in forme più aderenti al suo contemporaneo (vedi la rielaborazione “Soul Express” in Black Tarantella, insieme a Mauro Pagani e a Tuomani Diabaté). Va detto che in Pelle differente, la raccolta pubblicata a valle della partecipazione al Festival di Sanremo 2018, il secondo CD sarà interamente alle canzoni di questa fase; forse, ipotizzo, anche per proporne un percorso più personale, visto che l’unico strumento discografico facilmente reperibile finora era stata la raccolta Emi Made in Italy, che però non dava traccia di brani importanti come “Solo”, “Stella dissidente” o “S.O.S. Brothers”.
La rottura: Addò (1996) e O-Issa (1999)
A parte ridotte eccezioni, gli otto album Emi sono principalmente cantati in lingua italiana, naturalmente influenzata tanto dal dialetto quanto da suggestioni anglosassoni, ma in una maniera quasi meno ‘grezza’ di quanto accadeva negli album di Pino Daniele o in certe esplorazioni di Tullio De Piscopo. Il rifiuto dell’italiano come lingua portante, come prima scelta per esprimersi, sarà un asse del ‘secondo’ Avitabile: da qui in avanti l’artista sarà trainato come dal rigetto di un vincolo percepito quasi deformante rispetto alla propria autenticità, e insieme da un interesse per la lingua napoletana distante dalla cartolina e da leziosità turistiche, utilizzata per il reale e per il concreto, per cantare disperazione e sofferenza, ibridazione e mutazione. Con Addò, 1996, l’album della ‘rottura’, Avitabile abbandona completamente l’italiano, convertendosi alla lingua-madre del Mediterraneo, un crocicchio in cui il suo napoletano realistico si fonde con la sua versione più arcaica, e insieme aprono le braccia all’arabo, al catalano, alle lingue africane.
La mutazione coincide con il passaggio alla Compagnia Nuove Indye, etichetta indipendente di Paolo Dossena che negli anni Novanta scriverà un capitolo fondamentale nell’evoluzione del linguaggio folk italiano, pubblicando Nidi d’Arac, Agricantus, Sud Sound System e soprattutto gli album degli Almamegretta. Album come Animamigrante e Sanacore giocano un ruolo essenziale nello svelare le potenzialità della scena musicale partenopea a lasciarsi permeare dalle suggestioni più remote: mentre l’Italia si impantana nel lugubre pop intriso di realismo degli anni Novanta, Napoli agisce da connettore tra Bristol e Israele, Londra e il Sahara. Pubblicato nel 1996, Addò si inserisce in questa traccia rivoluzionando il linguaggio di Avitabile, e in qualche modo liberandolo: da un lato esplode la fascinazione (temporanea) per l’elettronica e il trip hop, dall’altro le ritmiche tentano di assorbire i suoni provenienti da una visione ampia e transnazionale della ‘cultura Mediterranea’. Non è un lavoro di rifiuto totale: canzoni come “A pe isse” e “Acqua ‘nfunn’ ‘a via” conservano l’articolazione armonica di un pop più tradizionale, pur con sonorità contemporanee, ma è altrove che Avitabile appoggia il peso di una ricerca inedita: in “Terun’” o “Nun se jetta l’ammore” la scrittura si testa con metriche rap, posizionando la voce su un timbro conversazionale, profondo e in qualche modo vicino all’idea di un recitativo. È come Avitabile gradualmente razionasse la melodia, avvicinandosi a un tratto espressivo che diventerà una costante, basato sulla reiterazione e la ridondanza, la litania e il teatralismo. La sintesi migliore è “Aizete”, presente in due versioni: ritmica incalzante, riverberi, loop corali che sembrano provenire da un indefinito est, la voce a metà tra l’hip hop e la preghiera. Uno dei primi grandi brani ‘civili’ di Avitabile, un invito energico alla ribellione e al sommovimento della propria coscienza, in un paesaggio sonoro composito che richiama una piazza brulicante, una folla in movimento deciso.
Poco prima del suo millennium bug, Avitabile pubblica il secondo e ultimo lavoro per CNI, O Issa. È ancora un album di passaggio: le ritmiche elettroniche, qui aperte anche al dub più esplicito e anche alla jungle, sembrano più asciutte ed essenziali di Addò, ma comunque predominanti. Si consolida la predominanza tematica dell’invito all’azione e alla spinta civile (rinforzata dallo sprone di derivazione marinara del titolo). L’atmosfera è secca, a tratti urtante, talvolta gelida, qua e là imparentata con gli esperimenti elettronici di jazzisti come Herbie Hancock. La fascinazione bristoliana pare giungere alle ultime battute, sebbene siano proprio questi suoni sintetici ad aver consentito ad Avitabile di scardinare la forma-canzone tradizionale e avvicinarsi a un flusso ibrido tra cantato, mantra, parlato e poesia. È chiaro che però O issà può solo essere superato, tant’è che tra queste architetture di cemento e metallo, fredde e ipnotiche, c’è solo una canzone che resterà negli annali, diventando addirittura ‘il’ classico di Avitabile, per eccellenza. Ed è la più melodica, l’unica realmente melodica.
“Mane e mane”
Pubblicata qualche mese prima dell’uscita di O issa, “Mane e mane” è protagonista di un progetto benefico, promosso dall’Unicef e finalizzato alla raccolta fondi per la scolarizzazione delle bambine del Benin. Attingendo all’immaginario naturale (il vento, la pioggia, l’acqua), i pochi versi rinforzano il tema della circolarità, per invitare con umità al dono, poiché chi oggi “è erba e argento / ghiaccio s’ arretrova”. RIchiamandosi al passato doloroso di chi è migrato, nel recente passato (“’e valig’ c’o’ spavo / ‘e paur d’aier”), la canzone suggerisce un gesto base come fonte primaria di speranza: il contatto, “mane e mane” (mano nella mano), per resistere al freddo e al vento. L’umanesimo di Avitabile fiorisce qui, in una semplicità che inchioda, impossibile da ostracizzare, oltre le fedi politiche e religiose. La melodia si inarca e si inabissa dolcemente, attorno al giro armonico aperto e pienamente circolare su cui è costruita l’intera canzone. Nelle due versioni contenute in O issa (la seconda è un remix per le radio), Avitabile è affiancato dal canto di Mory Kanté, gigante della cultura musicale subsahariana e della kora, colonna della world music, non ancora ambasciatore Fao ai tempi della registrazione del singolo. Nella versione pubblicata nel 2012 in Black Tarantella, ammorbidita nei suoni e più chitarristica che ritmica, a prendere il posto di Kanté c’è Daby Touré, sangue mauritano e senegalese, pubblicato dalla Real World che fu fondata da Peter Gabriel, voce più acuta. Daby Touré lo si può vedere eseguire il brano dal vivo in Enzo Avitabile Music Life, di cui “Mane e mane” rappresenta il finale.
Enzo Avitabile e i Bottari – Salvamm ‘o munno – 2004
Ormai la canzone di Enzo Avitabile ha raggiunto la sua forma: sapientemente basa sulla ripetizione e la reiterazione, coerente con la sua duplice anima devozionale e civilista insieme, rigorosamente in un napoletano antiretorico e antipittoresco, spogliato dei cliché, aperto al ruvido della terminologia contemporanea come alle tracce di un passato remoto. Manca solo la ritmica, ancora sintetica, permeabile eppure immateriale, non organica. La trova, Enzo, nelle botti, ed è una folgorazione. I Bottari di Portico (Caserta) sono una formazione che esprime un modo di fare musica arcaico, di matrice contadina e motivazione “processionale”. “Su un carro costruito a forma di barca e decorato con foglie di palma, anticamente trainato da buoi (oggi da trattrici agricole), si dispone un gruppo di giovani (“pattuglia”) che, con mazze e bastoni, percuotono ritmicamente botti e barili mentre altri battono con delle falci bacchette di metallo. L’esecuzione della “pattuglia” è diretta a colpi di fischietto da un “capopattuglia”. Vengono eseguiti particolari modelli ritmici, quello violento ed ossessivo della “Pastellassa” e quello lento e cadenzato della “Musica dei Morti” o della “Tarantella”, su cui vengono intonati i canti tradizionali” (fonte).
Dalla fine degli anni Ottanta i Bottari incrociano più volte la musica leggera (ad esempio nella versione ‘colta’ degli Avion Travel, nel brano “Belle caviglie”) come sul palco del Concerto del 1° Maggio. Ma è Avitabile a sposare questo suono martellante e virile, questo procedere del ritmo incalzante e implacabile; con i Bottari il musicista di Marianella avvia un percorso ancora inesaurito, connotato da esuberanti esibizioni di piazza che intrecciano ritualità e finalità differenti: il lavoro, la processione, la festa, il caos. Salvamm ‘o munno è l’album che sigilla questo connubio, ed è un capolavoro assoluto, un lavoro imprescindibile per la canzone italiana del post Duemila. È come se quel ritmo ancestrale e insieme nervoso, febbricitante, corteggiato finora all’interno dei pattern elettronici, avesse improvvisamente rivelato la sua radice più arcaica, fatta dello stesso sangue e della stessa terra di cui si nutre ormai il linguaggio mediterraneo della musica di Avitabile. E così i Bottari sembrano reinventarsi il rap, il funk, la dance e persino la techno (la title track) in una chiave ‘biologica’ e universale, in cui scompaiono gli elementi artificiali e il mare mette in comunicazione tutti gli elementi. È, di fatto, l’avvio di un formato di album fitto di ospiti internazionali, in cui nessuno è accessorio sventolato in nome di un’esigenza di marketing, ma tutti concorrono alla pari alla creazione di questo Mondo: Hugh Masekela, Amina, Baba Sissoko, Khaled, tutti nomi di rilevanza mondiale, ciascuno portatore di storie di elevato valore simbolico, come fossero – ciascuno con la loro geografia di riferimento – emblemi di un’idea di musica come ponte e giuntura, contro il sopruso e la violenza. Lo si dice spesso parlando della musica partenopea, e talvolta a sproposito: in Salvamm ‘o munno realmente l’Africa e Napoli, il Sud Italia e la Palestina, sembrano compenetrarsi nei ruoli e negli immaginari, creando un ‘ente mondo uno’, in cui Avitabile, finalmente officiante nella totalità del suo potenziale, ospita questi mondi per celebrarne, con gioia e sacralità, la ritrovata comunicazione.
Tutt’ egual song’ ‘e criature
Se una canzone può riassumere l’idea di world music sostenuta da Avitabile, è “Tutt’ egual song’ ‘e criature’. Specialmente a livello tematico: la canzone si muove grazie a uno slancio di pietas sovrumano verso la figura del bambino, cristallizzato nella forma di una poesia lucida e globale. Nel meridiano centrale di questo Mondo totale in cui vive Avitabile, la dimensione infantile interseca geografie a accomuna culture: Bucarest, Baghdad, Haiti, Tirana, Kabul, Kurdistan, e naturalmente Napoli. Tutti Sud di questo Mondo, traviati da povertà e tragicità, ai quali si chiede una sorta di sospensione, un invito – che è anche una preghiera – a lasciare che i bambini vivano la loro dimensione, proprio in quei luoghi in cui l’infanzia è negata o tradita. Su un’armonia basilare che non si muove da due accordi in minore, Avitabile inanella una serie di fotografie folgoranti, in un napoletano che unisce arcaismo e contemporaneità, mettendo il suono in primo piano: “ninni int’ ‘e favellass tutt’arrepezzati / stelle sgravugliate e luna ammappuciata”. La magia vera del brano, che converte il rischio di pietismo in un ipnotico mantra, la crea forse la metrica del cantato: svelta e decisa, come se invitasse a non tergiversare in toni lacrimevoli, come se volesse dare una smossa. È l’evoluzione del talkin’ sperimentato in Addò e O Issa, qui applicato finalmente in chiave melodica, senza rinunciare all’energia del parlato. La versione di Salvamm ‘o munno ha una presenza ritmica importante, con le botti a sostenere l’andamento. Nel rifacimento per Music Life, Avitabile rallenta il ritmo e ripulisce il suono, affidandosi all’arpeggio della sua arpina per sostenere il canto come in un lamento intimo. Da brivido è il modo in cui Eliades Ochoa, invitato a portare il suo mondo dentro il brano, improvvisa un testo e una melodia sul momento, confermando il potere universale della musica di Avitabile, oltre ogni scrittura.
Sacro Sud – 2006
“La terra di Sant’Alfonso è ancora la casa madre di tutti i vinti della città, di tutti i fuori di vista, i diseredati. Sant’Alfonso è ancora il faro illuminante degli ultimi”. Così Enzo Avitabile descrive Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: dottore della Chiesa, scrittore, architetto, avvocato poeta, missionario, scrittore, compositore. A lui si devono le ‘canzoncine spirituali’, componimenti devozionali di influenza immane sulla tradizione popolare italiana: “Ha dato all’Italia il canto popolare in tutta la sua perfezione. Ancora oggi, dopo cento cinquant’anni, i suoi canti risuonano attraverso le nostre valli e le nostre montagne e, come ogni vera poesia hanno conservato la freschezza della loro gioventù”,secondo Don Mario Palladino, come riporta questo sito, miniera impressionante di informazioni sul Santo. Sua è “Quanno nascette ninno”, calco originale di “Tu scendi dalle stelle”, forse il più importante canto natalizio della nostra tradizione.
Enzo Avitabile e Sant’Alfonso condividono i natali a Marianella, il quartiere a nord di Napoli dove un tempo si coltivava canapa. Oggi l’area, ritenuta ‘difficile’, è inglobata dalla metropoli: “la campagna di Scampia che una volta accoglieva passeggiate, pensieri e preghiere del’più napoletano dei Santi e il più Santo dei napoletani’ oggi accoglie una delle più grandi realtà di violenza e di emarginazione conosciuta con il nome di 167. Cemento e abbrutimento”. Finalmente liberato nell’espressione artistica, Avitabile può finalmente portare avanti il suo sontuoso affresco personale in cui far convogliare la voce dei derelitti con i suoni che le loro storie si portano dentro. Sacro Sud, pubblicato per FolkClubEtnosuoni, si colloca pienamente sotto il cappello del folk e della world music, ma va ben oltre: è un reale atto devozionale dell’artista di Marianella che ha scelto di stare dalla parte degli sconfitti al Santo che a Napoli ne tutela la speranza, da secoli con immutato tributo. Opera unica, a suo modo indefinibile, trasferimento discografico di quanto sperimentato in uno spettacolo teatrale (e da qui in avanti spesso gli album di Avitabile verranno dopo la loro esecuzione in scena), Sacro sud contiene una rielaborazione personale del canzoniere alfonsiano, collocato e adattato alle sofferenze del contemporaneo. Come a segnare ormai un formato artistico, sceglie la compagnia di figure di grande valore simbolico: i Cantori del Miserere di Sessa Aurunca, custodi di un’altra tradizione antichissima e cruciale nel pentagramma religioso campano, il Quartetto Polifonico Alphonsiano, Maurizio Martinotti, ricercatore e fondatore dello storico gruppo folk La Ciapa Rusa, piemontese, a sottolineare la trasversalità della sensibilità di Avitabile. C’è spazio per “Quanno nascette ninno” ma anche per le “Devozioni dialettali” (di cui esiste anche un infestante remix house); c’è “Faccia gialla”, dedicata a San Gennaro, che ricrea pienamente l’euforia del culto napoletano per il patrono di Napoli, amatissimo dai suoi cittadini (“Faccia Gialla squaglialo! / fallo fallo stu miracolo”), nonché l’oppressione della persecuzione. Esuberante e ipnotica, sarà ripresa in Festa farina e forca ed entrerà a far parte delle esibizioni di Passione, il film che John Turturro dedicherà a Napoli pochi mesi dopo.
Ad aprire questo album dal suono puro e rincuorante, come senza tempo, è una canzone già apparsa in Salvamm’ o munno, che qui acquista una dimensione quasi liturgica.
‘A peste
“‘A peste”, posta in apertura di Sacro Sud, è un’abbagliante preghiera in forma di poesia alla Madonna per risanare la terra di Scampia dalla piaga della Camorra: “Ave Maria, ie veng acopp’ Scampia / addo’na vota era canapa / mo spade e neve pe’a via / sentimenti ascarffati / juorne uno pe nato / na carezza maie asciuta / figli de Dio annascunnuti”. Un esempio lampante di come Avitabile intende il suo rapporto con il territorio partenopeo, anche sul piano linguistico: scevro da pietismi d’accatto, votato all’azione e alla costruzione, compassionevole e insieme netto e deciso, perfino brutale, come può essere la mano di un Santo (si parla di “neve” e “spade” di fianco all’invocrazione sacra). È una canzone che giocherà un ruolo determinante nella definizione della distanza ravvicinata che Avitabile sceglierà di avere tanto dal civilismo quanto dalla religiosità: accogliendo entrambe le istanze, facendole convergere in un canto-preghiera universale, in cui specchiare la sofferenza e il desiderio di voltare pagina.
Enzo Avitabile & Bottari – Festa farina e forca – 2007
Il titolo, di borbonica memoria, è una bussola: “La Festa, quindi, tanto sinonimo di paramento esteriore, di mera apparenza, tanto, però, anche occasione di condivisione e felicità; la Farina, tanto metafora dell’accumulo di ricchezza e potere, tanto allegoria della musica e della cultura, strumenti di acquisizione di coscienza, di una presa di posizione sociale responsabile; la Forca, infine, tanto quale mezzo repressivo per il popolo in rivolta, tanto attestazione di una reale intenzione di rivoluzione e cambiamento” (V. Papa, fonte).
Un anno dopo la sacralità quasi invernale di Sacro Sud, Enzo Avitabile torna ai Bottari: Festa farina e forca riprende la formula sperimentata in Salvamm’ o munno: canzoni-invocazioni basate sulla reiterazione para-religiosa, invito all’azione e attenzione per gli ultimi, con una particolare preponderanza sulla ritmicità.
A Festa Avitabile arriva già come uno dei nostri nomi più apprezzati all’estero, in qualche modo un’icona della world music: nominato ai BBC World Music Awards nel 2005, ha intrapreso una carriera che lo ha portato sui palchi di mezzo mondo, acquistando un credito che pochi in Italia possono vantare e dandogli la possibilità di coinvolgere nomi di grande prestigio nei propri lavori. Per Festa Avitabile tenta la impervia strada di una duplice proposta, articolata in un doppio album: nel primo disco le canzoni con i Bottari, nel secondo una rosa di remix con nomi come Matthew Herbert, Frederic Galliano e Bill Laswell (purtroppo nella ristampa recente dell’album il disco di remix è stato omesso). Il risultato è che, più o meno consapevolmente, la ‘techno naturale’ del Bottari è confinata ad alcuni episodi precisi – inclusa la riproposizione afro-mediterranean-beat di “Soul Makossa”, il classico di Manu Dibango, presente in persona qui e a seguire in una roboante esibizione al Primo Maggio – e a spiccare sono invece brani più meditativi, preludio dello stile che diventerà centrale in Black Tarantella e Lotto infinito. Ricompaiono “Crucifixus” e “Faccia gialla” da Sacro Sud, ma a dare i brividi è “Nuie e ll’ acqua”, altra canzone dagli echi liturgici e dalla pietas come linfa e motore portante. Ben prima che il tema dei migranti diventasse di ordine pubblico – e si portasse dietro, inevitabilmente, anche strumentalizzazioni retoriche – Avitabile compone una scarna ed essenziale dichiarazione in prima persona plurale, confondendosi tra gli ultimi: “Nuie e ll’acqua simm una cosa / ma imm scegliut o’ desert / viaggian rint’a fame ncopp e ciur / addumannan o’ ciel… qual canzon cant?”. Sopra le nazioni e i confini, sopra il rasposo realismo della cronaca, la canzone cerca lo spirito universale attraverso la mediazione della natura-cosmo, sempre accogliente, sempre consolatoria: “cient l’un cient cient / sott e pezz ascavat… / Verd je er… e verd so nat”.
Napoletana – 2009
Napoletana è il forse il vertice di un binario speciale che scorre lungo la carriera di Avitabile. Tra canzone, teatro e ricerca, questo solco raccoglie alcuni progetti caratterizzati da una particolare omogeneità nel metodo, che vuol dire anche nei suoni e nelle influenze; conterei qui all’interno Sacro Sud e Exeredati Mundi, la “cantata scenica in 15 stazioni per Coro, Orchestra sinfonica e Voce recitante” che debutta al Napoli Teatro Festival nel 2011 (di cui è presente una sequenza in Enzo Avitabile Music Life). Dove negli altri lavori la presenza di artisti provenienti da altri luoghi del globo era funzionale alla ricerca di un linguaggio, in Napoletana il silenzio, l’isolamento e la ridotta dimensione dell’organico sono altrettanto cruciali per accedere a questa sorta di ‘mistero musicale’. Chitarra, tamburi, violoncello: l’organico scarno mette in risalto cromatismi tenui, che si caricano di tensione drammatica. Su questo tessuto acustico che suona remoto spicca l’arpina, la piccola arpa pentatonica a 6 corde che compare in braccio ad Avitabile nella copertina del disco: un suono definente, intimo, attraversato da un dolore sottile che però è lontano distanze siderali dalla teatralità a tutti gli effetti, dall’enfasi di maniera. Forse il suono che definirà la musica dell’artista di Marianella da qui in avanti, tant’è che le esecuzioni riprese da Jonathan Demme in Music Life riprenderanno questo organico ristretto, anche nel caso dei classici più ritmici.
Nel documentario Avitabile illustra anche il suo lungo studio alla ricerca delle tante ‘scale del mondo’. Napoletana è costruito attorno alla scala minore napoletana, “culla di questo viaggio che sotto l’asfalto dei rioni popolari di Napoli scopre le sue antiche verità, le domande e le risposte universali ed eterne al disagio e alla sofferenza di tutti i giorni” (dal sito ufficiale).
Le undici canzoni inedite poco hanno a che fare con la Napoli da cartolina: “Napoletana” è un progetto artistico che nasce da una grande volontà di recupero dell’antico lirismo napoletano, di quella parte poetica più pura che da sempre si è difesa dal pericolo di essere impolverata e sbiadita dalla pericolosa e stereotipata cartolina folklorica che da sempre si cerca di portare nel mondo” (ancora, dal sito). Incredibilmente sono canzoni che sembrano arrivare da un secolo lontano e insieme trasudare la realtà quotidiana dei quartieri: un senso di ‘eternità’ che si accompagna alla mestizia dell’ineluttabile, del desiderio di mutare ancora tradito, che è permesso anche e soprattutto dalla dimensione sonora. Insieme alle canzoni una sola cover, anch’essa di enorme significato simbolico: è “Il lamento dei mendicanti” di Matteo Salvatore, pietra di paragone per l’evoluzione del linguaggio folk italiano, responsabile di averlo portato in una dimensione di crudo realismo e di vicinanza mimetica dalla parte dei vinti. Nel 2009 Avitabile vince il Premio Tenco come miglior album in dialetto: il riconoscimento è una certificazione tardiva dell’eccezionale evoluzione artistica compiuta da Avitabile in quasi trent’anni, ma è anche la mera ricognizione di un album di bellezza contemplativa e intensità imparagonabile, quasi sacrale, e non solo per le molte preghiere che ne scandiscono i passaggi.
Black Tarantella – 2012
Napoletana ha avuto il merito di avvicinare Avitabile a un’idea di suono terso, cristallino e trasparente, rispetto al passato ancora più ripulito, se possibile, dei suoi ‘ganci’ con il tempo storico in cui era generato. Black Tarantella prende questo culmine – perché di culmine artistico si tratta, di altissimo profilo – e tenta di trasferirlo su un piano ancora parzialmente inesplorato, che segnerà la strada di Avitabile negli anni Dieci: il pop, o almeno la sua declinazione più raffinata e attenta, o comunque raggiungere un pubblico più trasversale, oltre gli steccati (talvolta autoimposti) della folk music e di quella che per comodità si tenta di chiamare ‘world’. Tecnicamente è ancora un disco world, forse il più ‘world’ di tutti, quello che più sembra tradurre l’idea ampia e accogliente di suggestione del suono del mondo che ha un personaggio come Peter Gabriel. Non è una virata, anzi: ritornano le ritmiche organiche, le rivisitazioni del periodo soul (“Soul Express”) e le ricontestualizzazioni di canzoni presenti in altri album (qui c’è di nuovo “Mane e mane”, con Daby Touré al posto di Mory Kante), le preghiere laiche, le devozioni religiose e le forme ibride tra un’anima e l’altra (“E ‘a maronn’ accumparett’ in Africa”, con David Crosby e non ho memoria che ci sia un altro italiano a poter vantare un duetto con un personaggio di tale statura). Ma a colpire sono due novità. La prima è l’acustica asciutta, rotonda e pulita, con l’arpina abbracciata in Napoletana ormai assurta a elemento di linguaggio, come fosse un tutt’uno con l’artista, almeno quanto un tempo lo si poteva dire del sassofono, ma anche le voci registrate calde e tangibili, vicine, la ritmica sobria e morbida, lontana dalle gorgoglianti ritualità di Salvamm’ o munno, l’attenzione nel tradurre influenze non italiche (“Elì eli”, con Enrique e Solea Morente, è in grado di unire l’armonia dei quattro lati del Mediterraneo, e sembrare credibile da qualsiasi angolazione si voglia adottare come propria).
La seconda è, forse, la più inattesa. Avitabile corteggia la ‘canzone d’autore’ più classica, quella dalle generalità riconoscibili; oltre le reiterazioni e le iperboli, i piccoli quadri in cui condensare le immagini in frammenti ad alta concentrazione poetica, Black Tarantella sembra volersi contaminare con gli stilemi del cantautorato italico, integrandolo con una modalità analoga e quella delle influenze mediterranee. Francesco Guccini, Pino Daniele, Franco Battiato, Raiz, i Co’ Sang compongono l’arco personale che Avitabile traccia all’interno di mezzo secolo di canzone nostrana, cercandosi i caratteri gemellari, accomunati da una missione irrinunciabile quale è l’attenzione agli ultimi, ai diseredati, ai travolti da tutte le guerre, senza possibilità di fraintendimento: “Gente perbene c’ate vulute ‘a Pace / sì chisto è ‘o Prezzo è tale e quale ‘a Wuerr’” (“Mai cchiu’”, insieme ai Co’ Sang di Luché e Nto, nipote di Avitabile).
“Black rimanda al meticciato culturale, ma anche alle difficoltà della vita quotidiana: come si dice da noi: “A’ vec black, cchiù nera da ‘ mezanotte’”. La tarantella è uno dei nostri simboli di riconoscimento, ma nella lingua popolare è anche la vita siamo costretti a vivere giorno per giorno: “Sta’ vita è na tarantella”, si dice”. Così riassume il concetto di Black Tarantella in una intervista a Blogfoolk, forse una delle migliori reperibili sul web. Ed è una sintesi perfetta della tensione insita nella sua arte: amarezza velata di un briciolo di ironia terapeutica, e insieme irriducibile voto verso la speranza, pur nella rinuncia a ogni cartolina, ogni immagine edulcorata, ogni lingua strumentalizzata.
Lotto infinito – 2016
All’interno di una modalità espressiva riconoscibile e insieme ricchissima, la musica di Enzo Avitabile nel corso degli ann è andatai tingendosi di una sottile malinconia. RIgorosamente coerente nel rifiutare ogni tentazione di sganciare le sue qualità musicali dalla centralità dello sguardo al reale degli umili e dei vinti, Avitabile ha in sostanza continuato la sua contagiosa osmosi nei confronti dei Sud del mondo, riuscendo però a focalizzarsi con il tempo (e la maturità, anche anagrafica) a restringere il campo sulle storie di casa nostra, con grande nitidezza. Lotto infinito parte ancora, irrimediabilmente, da “Napoli Nord”, casa madre, terra del Sant’Alfonso di Sacro Sud e delle devozioni dialettali, simbolico set del sacco della serenità, a favore di un male strutturale: “Ho scelto di cantare una Napoli diversa da quella turistica del lungomare, delle vie del centro. (…) Periferie intese non solo in senso territoriale ma anche esistenziale. Sono città nelle città, zone dimenticate, fuori dal mondo, fuori dalla vita” (un’altra intervista a Blogfoolk).
Non ci sono esperimenti, ma perfezionamenti di esperienze già tentate e qui applicate ad altre suggestioni, se possibile ancora più varie, certamente più connesse ai linguaggi del territorio italiano come non mai: la sacralità della voce isolana di Elena Ledda e della tromba di Paolo Fresu, la teatralità marginale di Pippo Delbono (“Jastemma d’ammore” è il prodotto di un palco condiviso, tra Delbono e Avitabile), la romanità di Mannarino e il calembour ideologico di Caparezza. Come in Black Tarantella, colpisce il modo in cui la scrittura di Avitabile si è ibridata con gli stilemi del cantautorato più classico: la rievocazione della morte prematura di Bianca D’Aponte in “Bianca” viene potenziato dall’intensità drammatica della voce di Renato Zero, la ripresa del tema dell’acqua come teatro della migrazione per sofferenza condivisa con Francesco De Gregori in “Attraverso l’acqua”, soprattutto il De-profundis il cui climax melodico è affidato alla voce di Giorgia, in una performance di rara difficoltà interpretativa, dove il singulto vocale mescola R’n’B, tradizione melodica e realismo, in uno sforzo di equilibrio incredibile per lasciare la voce libera di esprimersi e insieme moderarne inutili virtuosismi, dato il tema: “Giorgia, con la sua straordinaria espressività vocale, è come se cantasse da Scampia, dal Fondo delle Vele, fino all’Universo. “Dal profondo sto gridando a te”: è uno scatto di orgoglio di un uomo. La sua voce grida: “sono vivo, potete vedermi, ho un cuore, un’anima, un cuore che pulsa!”. Quest’uomo è Scampia che grida: “io non sono solo Gomorra!” (ancora dall’intervista a Blogfoolk).
Picco emotivo di un album talmente denso da concedersi a poco a poco, il De-profundis con Giorgia certifica il desiderio di Avitabile di aprire il suo linguaggio oltre ogni confine (di gerarchia, genere, settore), mantenendo intatta la statura morale e artistica del suo fare arte. Accade nel momento in cui l’Autore torna a una major dopo più di vent’anni (la Sony) e il film Indivisibili di Edoardo De Angelis sorprende l’asfittico panorama cinematografico nazionale anche per il compendio di classici di Avitabile che ne accompagnano le immagini (per cui arriveranno anche due David di Donatello, per la musica e per la canzone “Abbi pietà di noi”). E prelude a una data in qualche modo storica: la prima volta di Enzo a Sanremo, riviera ligure. Mediterraneo, ancora.