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Come radersi un po’ di schiuma dai polmoni

Brindisi (ai terminali della Via Appia) di Amerigo Verardi, da Hippie Dixit, 2016

In molte liste di fine anno, compresa la mia, non c’è stato spazio per Hippie Dixit. Ci sarebbe da dire che per l’ultimo lavoro di Amerigo Verardi non c’è stato spazio in generale, sulla stampa specialistica (fatta salva qualche eccezione), come sulle testate da crociera dell’hype quotidiano. Forse anche a causa di una scelta di calendario al limite del suicidio commerciale: l’album è uscito infatti nel 2016, pochi giorni prima del Capodanno, nella fase di massima quiescenza di ogni testata, blog o pagina, quando ogni lista e selezione di fine anno è ormai ben che sigillata.

Ma l’unicità di questo album valeva uno sforzo di attenzione maggiore: nell’Italia ormai assestata sui format pop da playlist, che guai a loro a sforare i tre minuti, Hippie Dixit è un disco irripetibile, un folle viaggio psichedelico di oltre un’ora e mezzo, in cui le armonie si dilatano a dismisura verso fughe strumentali, jam lisergiche, atmosfere cangianti. Eppure non dispersivo: abbondano infatti le canzoni-canzoni ben congegnate dietro l’apparente apertura delle strutture, come rivelano certi ritornelli ben rifiniti per imprimersi nella memoria il giusto perché qui si voglia ritornare, e con il pretesto di un hook efficace aver la curiosità di perdersi nelle trame ‘altre’ che l’album offre.

Alla luce di questo meccanismo, Hippie Dixit è un album gemellare a Uomo/Donna di Andrea Laszlo De Simone, con la differenza che Verardi sposta l’immaginario verso una psichedelia freak puntellata di bonghi e stridori goa, distorsioni che puntano allo spazio (mentre quelle di De Simone hanno i piedi ben piantati nella terra) e sospensioni ritmiche che paiono infinite, mentre la voce di Verardi risuona sulle orchestrazioni come un David Sylvian dei trulli.

Già, i trulli, la Valle d’Itria, la Puglia, il Mediterraneo, l’Africa. C’è questa intera parabola centrifuga dentro Hippie Dixit, che usa l’ascesi di un irriducibile purismo freak (che è teneramente di altri tempi e insieme fa gola in una società nevrotica come questa) per involarsi dalle lamìe di Cisternino (“Cisternino Bhola Baba Dhuni”)  verso l’intero Regno delle Due Sicilie, e poi Tangeri, e poi il Sahara. Altro che Roma, Milano, Berlino: qui l’orizzonte perduto è da tutt’altra parte, non a caso sulle rotte sondate da Franco Battiato o Claudio Rocchi, forse veramente il riferimento più netto di questo lavoro.

È sulla Appia Antica che si avviluppa la canzone forse più fascinosa dell’intero lavoro, certamente quella in cui Verardi cerca maggiormente di unire la libera divagazione strumentale con la struttura di una pop song di vecchio stampo. “Brindisi”, otto minuti e mezzo di durata, è una ballata rock a tempo medio e a incedere piuttosto pachidermico, sviluppata su un’armonia a basso discendente che dialoga direttamente con certe geometrie dei Radiohead di The Bends.

I versi si sforzano di rappresentare un Sud quotidiano e non pittoresco, tra speranze tradite e meridionalismo d’accatto negato (“una frase monca su un muro dice “qui si muore di””, un’immagine decisamente anni Novanta, molto poco alla moda oggi). Da un lato c’è un luogo preciso, individuabile sulla mappa geografica: è Brindisi, “terminale della via Appia” e sede di un imponente polo petrolchimico, Brindisi come Brundisium, punto opposto a Roma, l’Italia, lo Stato, il punto di non ritorno dove si può soltanto ripartire verso la base. Da un altro lato c’è “Brindisi”, nella sua valenza di luogo simbolico, set di un gesto-chiave, grottesco e strafottente.

Cin cin, alla tua salute, alla famiglia, al lavoro

cin cin, bollicine, un calice e una fetta di cancro

Sullo scintillante ritornello la musica raddoppia il tempo e si appoggia su un tintinnio saltellante, sarcastico e un po’ fastidioso. È il suono del fottersene, del clientelismo cronico che perpetua il suo potere, del refrain laido sul Mezzogiorno: Verardi lo punta senza giri di parole o sublimazioni poetiche. Del resto, le cure farmacologiche da queste parti sono qualcosa di concreto e insieme non lenitivo, sullo Ionio come sull’Adriatico (“prendevo medicine, brindavo così”), forse l’emblema più atroce di quanto possa essere sbagliata una scelta sbagliata, da questa paradisiaca cartolina di meraviglie naturali appoggiata alla bell’e meglio davanti a un polo siderurgico o a un gigantesco terminal portuale, che davvero ci si chiede come sia stato possibile, di tutti i posti possibili, che accadesse qui.

Ma intanto che si risolve l’emergenza, nuovi brindisi si intavolano, fette di limone, acqua color ruggine, strisce di sangue, nuove Casse del Mezzogiorno, retoriche sulla necessità, ricorsi al Tar, soldi. E non c’è coda musicale che dia l’idea di un’immutabilità grottesca e orrenda in maniera efficace come questa: una “Hey Jude” di metastasi.

Recitando parole sante ma fuori luogo per un brindisi
Recitavo parole sante ma fuori luogo per un brindisi

Un’altra canzone: Passa a miglior vita – Vieni a ballare in Puglia, Caparezza