
40 canzoni per il 2017
Anche Unadimille partecipa al gioco delle classifiche di fine anno. Tecnicamente non con una classifica vera e propria: sono troppe le canzoni italiane del 2017 passate sotto le mani troppo velocemente o le uscite discografiche scoperte a scoppio ritardato per pretendere non solo di dare un ordine, ma addirittura una delle priorità. Per parziale che sia, ecco il mio album di fine anno: una canzone per ogni artista, per quaranta. In alcuni casi avrebbero potuto starci anche tre/quattro brani da un singolo album: ci sono artisti che nel 2017 hanno fatto cose davvero memorabili. Ma vale il principio della panoramica: e così ecco una ipotesi di sintesi tra generi, voci e identità il più possibile rispettosa dei linguaggi di riferimento di ciascuno degli artisti presenti.
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“Spaziale” – Edda
Di Graziosa utopia, l’album dal suono più accessibile nel percorso di rinascita di Stefano ‘Edda’ Rampoldi, “Spaziale” è la punta emotiva, un episodio di di eccezionale apertura armonica, in cui l’approdo a una meta amorosa finalmente libera di esprimere se stessa (“è arrivato il nostro momento”) si traduce in soluzioni melodiche di grande classicità. Si sentono risuonare echi di Bindi, Paoli, Tenco, Endrigo e Mina, soprattutto, anche in riferimento alla verità delle liriche. Tutto l’album è a un livello di composizione altissimo, con le canzoni più raschianti vicine allo stile dei lavori precedenti di Edda che ritornano in confezioni sonore sorprendentemente accoglienti (Benedicimi, Brunello) ma Spaziale (che ho analizzato a lungo qui) è un miracolo, un’altra galassia, facilmente la canzone d’amore dell’anno. E non è un caso che, per questa selezione ristretta, si parta da qui.

“Le interiora di Filippo” – Lucio Leoni
“Devi racconta’ che chi gioca con le parole quando lo fa sul serio / affonda le mani nelle viscere del senso e rischia la vita pe’ davero”: bisogna andarsele a isolare le parole nell’ascolto di Lucio Leoni, per accedere alle sue verità. Perché questo torrente, prima di tutto, aggredisce l’orecchio proprio contro il suo tedio da ascoltatore semi attento, sfida la cacofonia, le buone regole del bilanciamento, naturalmente il silenzio. Se Il lupo cattivo è uno dei pochissimi dischi ‘di poesia’ pubblicati nel 2017, “Le interiora di Filippo” ne è l’episodio forse più filosofico. Filippo, il protagonista, invita Lucio, il narratore, a scrivere una canzone che sia metafora della cucina romana. Lucio ribatte: “Me portasse a casa un pezzo lui, già finito”. È il pretesto per un excursus poetico tra carne, sangue, viscere, frattaglie che sono parole, macellai, religioni, libero arbitrio e soprattutto morte che si trasforma in vita che ritorna morte. Lucio lascia fare a Filippo, limitandosi a interrompere qua e là e ad aggiungere “un ritornello pop”. Il risultato è travolgente e insieme enigmatico: chi è Filippo? Chi è il poeta e chi il macellaio? Se Filippo non esiste e le sue parole sono quelle di Lucio, perché Lucio ha bisogno di un alter ego letterario per dare loro sostanza? Come una narrazione aperta e circolare, si riavvolge volentieri il nastro, alleggeriti da uno pseudo motivetto techno, un po’ rozzo, beffardo e pacione. “Quante cose c’hai addosso, amico mio”: così è Lucio Leoni, un’abbondanza di carni miste, frattaglie e tagli di pregio insieme, che possono persino fare ribrezzo, ma che superato l’urto, fanno sembrare ogni alternativa inutilmente magra. Lucio Leoni: trippa.

“Nei treni la notte” – Frah Quintale
Da Coez a irradiarsi in direzioni varie, in molti nel 2017 hanno tentato una strada che direi di ‘declinazione di un approccio rap a un pop a base cantautorale’. Generalmente sono tracce a tempo medio-lento, cadenza velatamente funky, o comunque orientate a un 4/4 iper semplificato, con gli accordi in battere suonati quasi sempre da un piano elettrico, la sezione ritmica scarnificata o della quale si può fare anche a meno, chitarre assenti, il canto monocolore. Sono figlie di Aurora de I Cani e Mainstream di Calcutta, lavori la cui influenza si è rivelata nel 2017 più potente di quanto ammettano – senza fare nomi – in molti. Con una formula così codificata, a facile rischio clonazione, la differenza l’ha fatta chi è riuscito a usare questa struttura per evocare mondi, tra il personale e il collettivo, superando la soglia della cameretta (l’altro grande limite di questo universo compositivo), imponendo all’approccio intimista una visione più complessa.
Frah Quintale, ad esempio. In “Nei treni la notte” c’è al centro la città-madre da cui si è andati via e alla quale si ritorna sempre, calata in un’atmosfera di solitudine notturna, con gli accordi pianistici filtrati e appena accenati a lasciare la voce riempire per intero lo spettro sonoro, facendo quasi risuonare il suono dei passi. Il narratore pennella immagini di un realismo aggraziato (“Abbiamo visto i quartieri, i locali / I bicchieri spaccati e l’eroina sopra le stagnole” … “Abbiamo visto borghesi incazzati / Rumeni ubriachi e qualche tossico della stazione”), mentre pare di sentire gli odori di questa Brescia industriale, la consistenza dell’aria, il cromatismo livido. Su tutto, un senso di degrado strutturale da sfidare con incursioni eroiche, per “aggiungere un po’ di colore”, come farebbe un writer (che sia anche un’autobiografia sentimentale del writer, “Nei treni la notte”, è evidente, e non serve aggiungere che Frah Quintale sia writer e illustratore) Nei trenta secondi finali del brano la produzione lascia la ritmica libera di crescere, togliendole ogni filtro (metaforicamente, il tappo): è qui, ogni volta che arriva l’ultimo ritornello, che pare di vedere questo colore invadere pilastri di cemento e ciminiere, ridando vita a tutto, e lo sguardo si eleva e la canzone pure, oltre il tinello, verso il mondo.

“La posa” – Nada Trio
Triste la storia di questo La posa. Doveva essere il ritorno del Nada Trio, la formazione composta da Nada, Fausto Mesolella e Ferruccio Spinetti che negli anni Novanta pubblicò un solo, bellissimo album di reinterpretazioni, a lungo irreperibile. Per l’occasione il repertorio era stato arricchito con una selezione stretta di successi dell’ultima fase della cantautrice livornese (compresa “Senza un perché”, successo a scoppio ritardato grazie all’inserimento in The Young Pope di Paolo Sorrentino, o “Grazie”, che analizzo qui), una manciata di nuove cover ad hoc (Ciampi, Testa) e un inedito. Poi, pochi giorni prima dell’uscita dell’album, l’annuncio della scomparsa prematura di Mesolella, forse uno dei più grandi musicisti e autori italiani, per versatilità e gusto sicuramente. L’album esce, come previsto, ma naturalmente in sordina, come ammutolito lui stesso. Peccato, perché vedere dal vivo il trio sarebbe stato un’occasione preziosissima, soprattutto ora che Nada è in una forma incredibile. L’inedito, cioè l’omonimo “La posa”, certo non placa il rimpianto, anzi. La ritmica sbarazzina, quella sottile malinconia nell’arpeggio circolare di chitarra delle strofe, il tono da filastrocca infantile, i versi semplici esi caricano involontariamente di presagio, come una lettera d’addio dai toni lievi: “La tristezza passerà / la tristezza passerà / la tristezza lascerà / il posto alla felicità”. Già.

“Empatia” – Mudimbi
Gioca Mudimbi, gioca tanto. Magari Michel, il suo album d’esordio, non dice così chiaramente in quale direzione musicale vuole marciare, scisso com’è tra poli opposti: convulse rincorse trap e abbracci reggae alla vecchia maniera, inquietudini grime iper acide e placido dub. Ma Mudimbi resta candidamente in una posizione di scherzosità sbruffona, che si sente nell’intero progetto: proposta grafica, versi, flow, suoni, video. Decisamente atipica tra i suoi consimili, questa giocosità si attua nella ridefinizione dissacrante di uno stereotipo di rapper: infantile, bizzoso, disinteressato a comunicare un profilo da eroe solitario men che mai a dichiararsi vincente, piuttosto a giocare con la sua mascolinità iper esibita e a fletterla verso un travestitismo cartoonesco. Con il suo irresistibile riff di fiati che pare rubato a The Avalanches (la produzione è di FiloQ & Ale Bavo) e un inciso con voce femminile (di Serena Abrami) che fa tanto Articolo 31, “Empatia“ mi pare la sintesi più compiuta di questo metodo: un piccolo gioco al massacro sull’impossibilità della coppia di viaggiare sulle stesse frequenze, in cui il maschio riconosce il suo status di non affidabilità nel momento stesso in cui ne fa sberleffo. Un concetto rafforzato dal video che accompagna la canzone, un’intelligente parodia del conquistador immarcescibile messa in scena attraverso un’astuta serie di parodie trash.

“Il giro” – Giovanni Succi
Nel suo esordio da solista intitolato semplicemente Con ghiaccio, come una condizione umana e alcolica insieme, Giovanni Succi sembra esplorare la dimensione poetica in uno stato a tratti più lieve di quanto accade con i Bachi da Pietra, sebbene restino tangibili il nero, l’inquietudine, certi umori umbratili cari a lavori come Necroide o Quintale. Posizionata nel mezzo dell’album, Il giro è la canzone che meglio condensa (o espande, sarebbe meglio dire) questa evoluzione dei toni. Dei nove minuti di durata, per sei circa la narrazione si propaga ruminante e sottotraccia attorno a una vivida sequenza di provincia – o, per meglio dire, una sequenza periurbana, che si svolge in un non luogo iconico del nostro contemporaneo, come il rondò. Succi costruisce la scena un tassello per volta senza correre, ponendo la massima attenzione al dettaglio, al discorso riportato, alle voci di un megafono o di un vicino che tagliano l’aria di striscio nell’attesa che qualcosa – di eccezionale, di meritevole di attenzione – arrivi a spezzare questa monotonia. Il racconto in prima persona è altamente magnetico, come lo è il crescendo musicale, strutturato attorno a una semplice alternanza di due accordi su un unico basso (in cui risuonano Nick Cave, “Fiume Sand Creek” e tanto blues, tutto in rigorosa maglia rosa). Il finale, a sorpresa, spiazza le attese: è una chiusura (finalmente) nera, misteriosa, in cui il protagonista sfugge a un ritratto inverosimile di osservatore dell’Italia di un tempo che attua uno dei suoi riti sportivi più antichi, e rivela la sua natura ambigua, inquieta e piena di ombre. Come un cortometraggio, “Il giro” finisce con le striature di rosso che invadono il rosa: che in un narrare generalizzato tanto piatto e pallido, sia benedetta l’insidia.

“Fino al giorno in cui” – Demonology HiFi feat. Cosmo
Ricerca ritmica spinta al massimo delle sue possibilità, privata di ogni sistema di speed control. Con Inner Vox Demonology HiFi, ossia Max Casacci e Ninja, hanno dato vita a un rituale ipercinetico, avvitato al punto più oscuro del vortice elettronico, come per lasciare esprimere – nomen omen – la voce interiore dei demoni personali. Poliritmie che divorano il silenzio, schemi sintetici antichi o modernissimi (la jungle, la dubstep) strattonati con decisione lungo l’autostrada maestra che era/è la storia dei Subsonica per il pop italiano, ma dal punto di vista della corsia di sorpasso, dove il limite è necessario superarlo. Non a caso caricano a bordo italiani “internazionali” per concetto: Birthh, Populous. E Cosmo, soprattutto, che in assenza di una stabile “voce ipersonica”, si fa carico di fornirne una – la migliore possibile – per “Fino al giorno in cui”. Forse una delle poche tracce del progetto riconducibili a una forma-canzone più convenzionale, ruota attorno a un fulcro tematico affine a L’ultima festa, l’acclamato album di Cosmo pubblicato nel 2016. Al centro infatti c’è l’annosa dicotomia la realtà quotidiana con i suoi compromessi e il sogno di una ‘vita d’artista’, una sorta di richiamo tentatore compiacente e istintuale, vicino a “Le voci” dell’omonima canzone di Cosmo e qui sublimata in un technicolor acido e ansiogeno, che frulla la coazione dell’affermazione personale, il narcisismo, l’egomania e il desiderio di rompere le righe di un sistema prestabilito in un ipnotico delirio accelerato, decisamente esistenziale: “Se fossi un artista e basta / Se fossi un artista e basta / Se la vita fosse questa / Full HD 360 / Stasera un po’ troppa ansia / Stasera una botta d’ansia / Sul monitor chiesa laica / Rinasco muoio e qualcuno laika”. Fiato, please.

“Il dèmone meridiano” – unòrsominòre
Spigoloso e raschiante come carta vetrata, ma anche attraversato da sconsolate dolcezze, di quelle di cui ci si scopre capaci autori nei momenti peggiori dell’esistenza, unòrsominòre ha pubblicato nel 2017 uno degli album cantautorali più ricchi e insieme più ignorati dai circuiti ufficiali, Una valle che brucia. Rivitalizzando certi eremitismi alla Ivano Fossati e calandoli nel contesto dell’era dell’iper-democrazia, ha costruito una serie di quadri di austera bellezza e genuino livore (a cui contribuisce la produzione scarna e attenta di Fabio De Min dei Non voglio che Clara). In “Il dèmone meridiano”, traccia di apertura, ha il fegato di prendere di petto l’imbruttimento di una generazione e di non farne ironia. Forse anche per questa brutalità non si è ben sposata alle playlist di categoria. Ma la sua pietà è straziante e vera. Ne fornisco un’analisi completa qui.

“Augh” – Mara Redeghieri
“Augh” è il richiamo che celebra l’inaspettato ritorno di Mara Redeghieri, voce storica degli Üstmamò, con Recidiva, dopo quindici anni di inattività discografica. Il ritorno è un esordio: Redeghieri non ha mai pubblicato nulla a nome suo, perciò le canzoni servono anche a rintracciare un’identità, definire confini, ipotizzare percorsi. L’effetto è eccezionale: non c’è nessun(a) artista oggi, in Italia, che sia assimilabile a questa esperienza. In “Augh“ si ritrova il meglio dell’esperienza Üst (il sarcasmo a base politica, l’eros alientante, il calembour linguistico) più un sacco di altre cose. Le ho dedicato una scheda, a questo link.

“Lo storto” – Bobo Rondelli
Anime storte: ossia una nuova variazione degli antieroi di margine, figure iconiche e immaginari ricorrenti, se non centrali, della nostra canzone d’autore. Senza rivoluzionare una virgola del suo approccio a questi tralasciati dalla società – perché dovrebbe? – Bobo Rondelli dà spirito a “Lo storto”, cartolina tragica di una morte che si compie in piena solitudine. Ignorato dal padre, ripudiato dalla cittadinanza, questo storto resta una figura indecifrabile, guardata a vista tanto dalla cittadinanza quanto dal narratore, che non gli mette in bocca spiegazioni né ragionamenti, salvo concedergli un’immagine tenue di tepore interiore, nel mezzo del gelo: “Su una panchina di marmo bianco / Gondolava nel freddo inverno / Ma per lui era clima perfetto / Assopito nel grembo dell’oppio”. Nel suo rifiutare di farsi drizzare “anche da morto”, “Lo storto” si integra felicemente al vasto catalogo dei rifiutati che popolano il canzoniere di Rondelli, e che ancora una volta evoca il fantasma di Piero Ciampi (in maniera quasi inevitabile). La novità che porta è soprattutto timbrico/armonica: mentre Rondelli rimbalza tra gli opposti di una melodia a intervalli ampi, profondamente alla De Andrè, l’insolita produzione di Andrea Appino sparge pulviscoli semi-sintetici nell’aere, gelidi e nevosi, amaramente invernali. Fino al ritornello senza versi, un canto vocalico con reminiscenze da stornello, che ricorda certi oscuri ritratti di Herbert Pagani, ma come raffreddato dal potere necrotico della solitudine.

“Estate dimmerda” – Salmo
Di fronte all’oscena barbarie del palinsesto pop estivo, una tortura psicologica che nel 2017 ha raggiunto nuove vette grazie a una mirabolante convergenza tra isterie latine, citazioni da era del web nei testi e (new entry) revivalismo da riviera romagnola, Salmo se ne è saltato fuori con una delle sue più riuscite sortite: Estate dimmerda, una provocazione in piena regola che non fa nulla per nascondere la sua ambiguità. Bersaglia una fitta e incalzante serie di stereotipi provenienti da semantiche differenti, che nel crocicchio dell’estate del relativismo neodemocratico e delle ritrovate intolleranze di un tempo (vedi il lido a Chioggia ‘ispirato al Ventennio) reagiscono in modo esplosivo tra loro. Così quando il nuovo sarcasmo su “psicoterrorismo, vaccini, autismo” si scontra con l’inettitudine di una generazione in posa (“Tutto il giorno in mutande, cerchi un posto al sole / Vuoi uno specchio più grande dentro l’ascensore”), l’effetto è devastante e, se uno lo vuole prendere alla lettera, come magari Salmo un po’ spera che accada, devastante: “Non avere paura, non restare nell’ombra / Allaccia la cintura, sto concerto è una bomba / Dicono “Allah è grande”, ma noi che ne sappiamo? / Chiedilo a Ariana, che facciamo?”. Così Estate dimmerda, canzone eccezionalmente ballabile e altrettanto eccezionalmente ammiccante, ha il suo picco in un corto circuito tra tabù di attualità e pop culture, suggellato con un sereno “vabbè balliamo” che sta al resto come un ‘fuck off’ alla portata di tutti, autorizzazione universale verso la massa festante a fottersene, a triturare e polverizzare ogni potenziale segnale di allarme crescente proveniente dalla Storia e a pensare soltanto a godersela. In estrema sintesi, l’estate come grande illusione collettiva. Oppure: una gigantesca presa per il culo, la ricerca di una hit a tutti i costi col pretesto della parodia. Oppure, tutte e due le cose, e va bene così: “La vita è bella ma alla fine muori / È sempre l’ultimo giorno d’estate e sono chiuso fuori”. Voilà.

“Diventi inventi” – Niccolò Fabi
A causa di un titolo giornalistico fuorviante, l’annuncio della chiusura di una fase artistica nel percorso di Niccolò Fabi si è trasformato in un tragico addio alle scene e alla carriera di cantante, condito da supposizioni connesse alla sua sfera personale che è inutile rievocare. Messa da parte la debacle virale, le motivazioni alla base della scelta di chiudere un ciclo e concedersi una pausa sono prettamente creative. È la stessa raccolta “Diventi Inventi 1997-2017” a chiarirlo, insieme all’omonimo inedito che la accompagna. Tra demo, provini e rarità, Fabi ha riarrangiato una dozzina di ormai classici (da “Il giardiniere” a “È non è“) allo stile intimista con corpose venuture folk che ha perseguito negli ultimi tempi. È come se avesse allineato il passato al vestito attuale, in un certo senso anche uniformando le canzoni, riservando all’inedito il ruolo di vetrina potenziale del futuro. Se a livello timbrico infatti “Diventi inventi” parte sempre dalla medesima base, si intravedono nuove vie di fuga. Una ritmica più incalzante del solito, più Mumford & Sons che Sufjan Stevens o The Tallest Man on Earth, e un non-ritornello che si sviluppa su una singolare variante reggae, che ricorda vagamente certe deviazioni del primo Max Gazzè. Con intelligenza, Fabi accenna a queste idee senza portarle a compimento: e così Diventi inventi è una canzone inesplosa, potenziale, che emana una forte sensazione di appunto non formalizzato, immediatezza, un filo di ruvidezza, in cambio di una vitalità agreste impareggiabile, trillante come il riff di partenza, che pare ripreso da “Listzomania” dei Phoenix. Ancora una volta Fabi posiziona la musica in un suo preciso e prezioso ruolo di strumento di lettura esistenziale, salvifico motore di una rigenerazione paziente e continua, che passa da un’auto-riflessione attenta, che contente di vedere la vita oltre il necessario quotidiano, come somma di piccole cose, seguendone i macro-flussi, i sommovimenti energetici, la lunga durata e l’imprevedibile inatteso: “Il mio capitale vale solo mille vele / Basta un po’ di vento e mi prendo tutto il mare”. Come a dire: dove si va, è meglio non dirselo del tutto, ma qui si continua ad andare anche in silenzio, altroché.

“Anima lattina” – Coma_Cose
Nel 2008 Dente apriva L’amore non è bello (l’album di “Buon appetito” e “Vieni a vivere”) con una citazione esplicita di Anima latina. Dieci anni dopo il contesto è rivoluzionato, i generi ‘da praticare’ sono altri, ma Anima latina resta un culto di riferimento e Battisti un’influenza al limite del sacrale, certamente inesauribile nelle sue declinazioni. I milanesi Coma_Cose, aggiungendoci una t, si appropriano di un intero umore battistiano per veicolarlo in un ibrido ancora informe ma decisamente originale tra rap, trap, indie, cantautorato e melodia. È vero che la timbrica fa pensare più a Io tu noi tutti che al tropicalismo prog di Anima latina, ma poco importa. In questo frullatore sensoriale tutto sembra emanare una luce vivissima, con il sentimentalismo quotidiano mogoliano, tra indolenza e vulnerabilità, è credibilissimo anche fatto pompare nelle casse di uno street food sulla Darsena, mentre un social media manager chiude la sua brompton pieghevole e un pakistano testa nuovi prodotti sul suo target di riferimento, moretti da 66 e focaccina a un generico formaggio in mano (“Biciclette nostalgia / Rose gialle gelosia / Coca zero caloria / Conoscersi ed appartenersi / Pizza al trancio anestesia / Fiori arancio Vucciria / E inventarsi una bugia per rimanere soli”). Milano 2017, insomma, verosimile e tenera e con le ossa rotte come da un (bel) po’ non capitava di vederla, almeno quanto si possa dire in modo affine di quanto han fatto Carl Brave x Franco 126 per la Capitale. I Coma_cose, in pieno understatement meneghino, descrivono Anima lattina come un esercizio di stile. Sarà: a me pare che tutto quanto abbiano prodotto finora, cioè più o meno 25 minuti di musica, brilli di una qualità che molti trapper in voga, mi spiace dirlo, non hanno: la nitidezza.

“Febbre” – Gazebo Penguins
Per tre minuti “Febbre” si dipana in totale assenza di peso, con poche distinte pennellate di chitarra a scandire un ritmo disperso nell’aere, in una nube cosmica di droni stellari. È lo spazio ideale, e fortemente ricercato, perché i Gazebo Penguins risultino ancora più perentori del solito nello scandire all’unisono pochi essenziali parole, come in una forte sottolineatura di solitudine.
Mentre le masse chitarristiche lo riempiono come un gas, questo isolamento personale si lascia pervadere dal rimpianto e dal disorientamento, ma in un senso un po’ fatalista, o comunque cosmico. Così “Febbre” sposta la retorica del “avrebbe potuto essere” dal piano del contenuto a quello puramente sonoro: l’esplosione ritmica sul finale, in questo senso, equivale all’improvviso mettersi a correre non sapendo in quale direzione, e farlo talmente velocemente da generare un abisso visivo attorno, trasformare il paesaggio in un segno rapido e sfumato, quasi alterato, distonico, come uno stato febbrile, appunto. Con i suoi tempi dispari, le ripetizioni insistenti e certe dilatazioni inattese, “Nebbia” rivela in modo smagliante il potenziale immaginifico della musica dei Gazebo Penguins. Album sulla cecità ricercata come annullamento del pregresso e alleggerimento per la ripartenza (“Soffrire non è utile”, inconfondibile messaggio, è anche il titolo di un’altra canzone), è un punto d’arrivo fortemente voluto dalla band, che costerà loro una delega in immediatezza ma ripaga diventando una rampa di lancio. E se il decollo da le stesse vertigini che offre “Febbre”, pezzo centrale e “cuore visivo” del disco, allora viene il dubbio che sia qui – nel momento in cui si comincia ad allontarsi da etichette à la page – che si inizi a fare sul serio: “Io proverò / a chiudere gli occhi / far scomparire tutto”.

“La malaeducazione” – Guè Pequeno feat. Enzo Avitabile
Gentleman è forse il disco rap più importante dell’anno. Dimostra infatti che l’evoluzione tra un linguaggio a un altro è possibile, e non ha senso costruire barricate tra ‘vecchie scuole’ e ‘nuove onde’, dal momento che entrambe sono a rischio estinzione rapida, in un mercato iper saturato come quello italiano, oggi. Guè, semplicemente, ha fatto valere le abilità camaleontiche del suo flow: senza tirarsi indietro, senza guardare al linguaggio trap come una bolla da guardare snobisticamente dal di fuori in attesa della sua esplosione, ha isolato gli elementi espressivi e li ha portati nel suo immaginario. In termini di sincretismo, Gentleman ha lo spessore che cento dischi trap diversi, sommati, non hanno (“Io non rappo in italiano / io sono il rap italiano”, l’esperienza deve pur valere qualcosa, no?). Tra Elettra Lamborghini e Scarafaggio, gli amici del barrio e gli shqiptari, Gentleman si concede il lusso del brano più narrativo del quasi mai narrativo Guè: ispirato esplicitamente a Il profeta di Jacques Audiard, straordinario noir contemporaneo di dissoluzione della linea tra l’eroe e il cattivo, ma allo stesso tempo integrato con la cronaca realistica di uno degli “amici del gabbio” La malaeducazione è il brano in cui finalmente Guè, invece che frammentare, sembra compiacersi del ricercare l’omogeneità del racconto, il filo del discorso. Articolata su un passato criminale, un presente carcerario e un futuro basato su un rispetto conosciuto dietro le sbarre, la canzone è benedetta dalla presenza di Enzo Avitabile, un mondo distante anni luce da Guè e invece vicinissimo, in cui la strada è strada e la sua epica è universale. E profondamente cinematografica: “Non era un film di Garrone” è un verso di raffinata ironia.

“La lepre” – Lucio Corsi
Bestiario musicale di Lucio Corsi si è presentato in questo 2017 come un unicum difficile da affiliare ad altre proposte. Una mezzoretta scarsa da fruire come un libro pop up, dove ogni canzone suona come una singolare ode a un animale del bosco e ogni creatura concorre a creare uno scenario insolito, notturno e a tratti magico. In questo reame di fabula Corsi fonde tradizione popolaresca e richiami metropolitani, foresta oscura e suburbia, in un gioco di spiazzamenti continui che rendono il racconto imprevedibile. È la voce a rendere tutto irripetibile: tenuta su registri bassi, tra il parlato e il cantato, carica di strani rimbombi, è sempre leggermente fuori tono come potrebbe esserlo la voce di un bambino chiamato a leggere cantilenando, appunto, una favola. Le otto canzoni tendono ad assomigliarsi, le melodie confluiscono l’una dentro l’altra, i vestiti sonori riflettono il medesimo scenario. Tra cinghiali, istrici usati come mazzi di fiori, volpi e civette, gli animali si rivelano come punti di giunzione tra la realtà e l’invisibile, il concreto e il mistero. Capita dunque di imbattersi in un’upupa che si autocelebra capo di un movimento punk nella foresta, con i calabroni a sibilare musica elettronica e gli alberi che muovono creste verdi, mentre l’animale dal sinistro suono ricorda fieramente il suo infausto ruolo di ponte tra il mondo dei vivi e quello delle ombre. E soprattutto può succedere di imbattersi in una lepre che lancia un messaggio alla NASA dal suolo lunare. Questa lepre misteriosa e in qualche modo suadente, come la rotondità dei balzelli pianistici che la punteggiano, è una figura a forte valenza simbolica: in lei convivono gli opposti (è sia uomo che donna è città e campagna), ed è lei con la sua stessa sola presenza a mettere in difficoltà i tecnici di Houston, per non dire in imbarazzo. Affascina l’idea che sia una delle trasfigurazioni, forse la più efficace, dello stesso Corsi, così alieno nella sua fisicità, leggiadramente a suo agio con forme e immaginari oltre il genere. Comunque la si guardi, è un’immagine altra, irresistibile e misteriosa, un’anomalia di luce.

“Terraferma” – Selton
C’è sempre meno di che restare sorpresi con i Selton: al traguardo del quinto album, l’eclettismo delle loro influenze rassomiglia sempre di più al quotidiano delle nostre città, al vitalismo di certe zone suburbane un tempo diroccate e oggi prese d’assalto da comunità dai confini topografici iper fluidi e annesse tribù creative. Perciò, questa mistura tropical-newyorkese-meneghine è come se non facesse più effetto, come se fosse ‘normale’. Ed è meglio così forse, perché oltre la bizzarria di certi accostamenti, emerge lo strato più intenso di questa saudade. Ecco allora “Terraferma”, punto di arrivo e insieme autobiografia di una migrazione, quella dal “Brasile del nord” alla “Milano del sud”, avvenuta più di un decennio addietro ma che ancora non può omettere la sua conflittualità: i versi essenziali, morbidamente dolorosi, evocano l’acqua e il deserto, le azioni sono quelle dell’annegare e il restare solidamente piantati a terra e insieme, l’interlocutore è la madre, in un gancio poetico che sfiora il melodrammatico (“mi spiace mamma, ma devo andare”). Naturalmente tutta questa problematicità sfuma nelle tinte tenui di uno slow terzinato dall’armonia ascendente e malinconicamente solare, che esplode in un finale roboante e un po’ distorto, l’equivalente acustico della cromatica sulla copertina di Manifesto tropicale, per il quale “Terraferma” è una canzone-portale di accesso. Un poco mesta, ma in fondo eroica: “Non c’è più vento, non c’è più sorte / Ormai non mi spaventa neanche la morte”.

“Stavo pensando a te” – Fabri Fibra
Fibra, non c’è verso, è un campione di densità narrativa. Con il tempo ha asciugato il suo linguaggio, abbandonando ogni brama di sfoggio virtuoso, e diventando per questa ragione una bestia rara nel rap. Intanto non ha smesso di ricercare un punto di vista univoco, come un cono ottico centrato sulla dimensione interiore legata agli eventi, più che agli eventi in sé. “Stavo pensando a te”, perifrasi progressiva, lo chiarisce fin dal titolo: la narrazione è tutta dentro un pensiero. Si propaga in un momento di dichiarata solitudine, facendo levitare un dubbio, un potenziale ripensamento, l’ammissione che una certezza rispetto a una situazione precisa non è possibile. Incarnando il maschio che a fronte dell’opportunità occorsa, esprime il desiderio di non voler diventare padre, Fibra si fa carico di un ruolo spinoso, raro in una galleria interminabile di father and son songs in cui l’uomo deve passare attraverso l’immagine del padre irreprensibile. Nel farlo, tuttavia, ha l’onestà di seminare il dubbio, di alzare le mani di fronte alle certezze monocolore sbandierate da tutti. “Però alla fine, vedi, è tutto apposto / Si vede che non era il nostro corso / Si dice: “Tutto fumo e niente arrosto” / Però il profumo mi è rimasto addosso”. È una scelta di complessità, costosa, che Fibra eleva oltre la questione personale, trasformandola in specchio universale per tutti i ripensamenti, le scelte di cui ammettere non essere sicuri. La creazione musicale è altrettanto complessa: l’armonia è dolce, malinconica, priva di spigoli, il suono è intimo, un po’ acquatico, con la voce che resta su toni bassi e un synth a forma di archi, coraggiosamente, a sottolineare il punto più ‘problematico’ dell’esposizione (“e poi nemmeno credo di esser pronto”). Nel bridge finale c’è Fibra allo specchio, brutalmente scettico. “Mi guardo allo specchio e penso: “Forse dovrei dimagrire””: un pensiero di vulnerabilità totale, in cui l’onestà ha fatto a pezzi gli assunti dell’ego e Fibra pare mostrare ancora una volta la carne viva. Stavo pensando a te, rap song che polverizza le certezze, è forse nel campionario di Fibra dedicato ai sentimenti il suo picco più alto.

“Ballata dell’ipocondria o del vibrione innamorato” – Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro
Punta dell’iceberg di un lavoro giustamente premiato con la Targa Tenco (Canti, ballate e ipocondrie d’ammore), questa “Ballata dell’ipocondria” sintetizza l’immaginario di Loguercio, lucano con il cuore a Napoli e un percorso artistico che lungo tre decenni è partito dall’underground per arrivare a una forma canzone vicina al teatro e alla spoken word. Con l’organettista Alessandro D’Alessandro, virtuoso dal piglio percussivo e dalla versatilità non comune, Loguercio costruisce trame tenui su amori devastanti e incurabili tra immagini grottesche e meccanismi ancestrali. Il vibrione innamorato ne è l’apoteosi: una malatia d’ammore, con due emme, raccontata come un esperimento scientifico, surreale e appiccicosa. Esiste in due versioni ed è parte di un progetto audiovisivo complesso e affascinante, che racconto in modo più completo qui.

“Non toccare” – Moblon
C’è un segreto contagioso nel fluire di T.I.N.A., acronimo di Tutti i nostri alieni, album d’esordio del trio romano dei Moblon. È qualcosa che lo avvicina a lavori come Uomo/Donna di Andrea Laszlo De Simone e che ha a che fare con una deliberata volontà di contorcere l’armonia: che si muovano su acide ballate chitarra o voce, singolari sfuriate distorte o divagazioni alla Tin Pan Alley, i Moblon perseverano nel ricercare una sensazione di spiazzamento, in un equilibrio tra silenzio e riempimento che ha già molto di maturo. In una prateria di canzoni-abbozzi, talmente difficili da incasellare che incentivano al riascolto ripetuto, si staglia l’ammasso sonoro di “Non toccare”, unico esplicito richiamo all’estetica shoegaze. Solo che qui i gorgoglii noise di un basso lento e inesorabile e i pochi criptici versi (ispirati da Pasternak), sono scanditi da un pianoforte svolazzante barocchismi da conservatorio per imperterriti cinque minuti. Questo moloch lisergico e un po’ bislacco, come il rosa lampone della copertina del disco, lascia spazio a una coda di altri tre minuti, in cui piano e batteria si palleggiano la palla a lungo, quasi scherzando su chi dovrà prendersi la responsabilità di andare a rete. Naturalmente a chiudere, su una melodia scarna e implosa, ci va il pianoforte: così “Non toccare”, otto minuti di sfarfallii jazzistici e noise insieme, suggella uno dei pochi album (forse l’unico, nel 2017) in cui il pianoforte riesce a essere protagonista senza dover comparire per forza nella sua versione atmosferica e sintetica (leggi=dardustiana). Concedendosi persino un vezzo sempre più raro: l’ironia.

“RomaBombay” – Giulia Anania
La rigenerazione di Paola Turci presso il grande pubblico, completata nel 2017, è stata parzialmente anche merito di Giulia Anania: in Fatti bella per te, la canzone presentata e molto bene accolta a Sanremo 2017, c’è anche la traccia della sua scrittura, sanguigna, energica, fieramente rivolta verso l’individualità. E molto ‘romana’, nel senso più contemporaneo del termine: l’album Come l’oro è una topografia sentimentale della Capitale di confine, costruito come un recital, con una decina di poesie a far da sponda e collante tra un brano e l’altro, un po’ skit e un po’ Gabriella Ferri. Tra passioni ferine e urbanistica stravolta, “RomaBombay” vi agisce come un’utopia romantica: un morbido mid-tempo, sedotto dal graffio della voce di Anania, sullo sfondo dei condomini anni Sessanta Torpignattara, tra minimarket e accenti romaneschi venuti fuori dalle carnagioni più improbabili, su cui si invola una promessa d’amore e cittadinanza, oggi nella sua semplicità eccezionalmente romantica: “Se vuoi ci sposeremo un giorno / così tu avrai il permesso di soggiorno”.

“Olovisione in parte terza” – Paolo Benvegnù
H3+ è un album di bellezza stellare. Un viaggio cosmico che fa riferimento alla molecola omonima (una delle più importanti e presenti dell’Universo) come pretesto per polverizzarsi nell’infinito, per testare in che modo l’individualità, la memoria, il bagaglio continua ad esistere anche in assenza di peso. Sarebbe anche un concept, con un alter ego a guidare il non percorso (Victor Neuer). Ma ogni intenzione programmatica sfuma, l’idea stessa di una traccia narrativa a reggere il racconto è labile, pulviscolare. Poiché nulla deve prevaricare la soggettività dell’ascolto, fare attrito con l’incredibile capacità di ‘dissolversi’ di questa musica, ipnotica e stratificata, dove le orchestrazioni ci sono sempre e paiono scomparire a seconda del momento, come un effetto ottico. “Olovisione in parte terza” è il picco di intensità di un lavoro già molto emotivo. Nel suo vagabondaggio il protagonista “si innamora di una “olovisione”, un film, ci parla, ci interagisce. L’atmosfera diventa gassosa, le frasi interrogative vengono lasciate incomplete, l’armonia si sposta sul piano delle none, una variazione dell’accordo maggiore che enfatizza l’aspetto sospeso dello scenario. Si ha davvero l’impressione di vedere una figura muta materializzarsi, tra l’immaginato e il concreto, con la quale il narratore ingaggia un dialogo lento, come incuriosito e insieme stonato da tanta ricchezza visiva, come si muovesse tra i fumi di un’idea estatica. Nel ritornello l’armonia si concede una breve variazione, che sottolinea la certezza, lo slancio eroico, che è profondamente sentimentale, di Victor: “Ma quando riusciremo a toccarci / Saranno i demoni dell’amore a ritrovarci”. Ma è solo un’illusione momentanea: il finale suggella il distacco materiale, attraverso un arpeggio pianistico ascendente, che agisce in moto perpetuo e che riecheggia di un bellissimo brano meno noto di Franco Battiato, “La preda”. L’olovisione, qualcosa che conteniamo in noi stessi e che materializziamo in modo talmente nitido da parer vero, ci ha messo di fronte uno squarcio di verità, che non conosciamo, che ci appartiene e che è incontenibile. È una verità che deve restare incompleta, per non arrestare il moto, l’indagine, la ricerca. Che poi è il cuore essenziale di H3+, l’idea stessa del mettersi in movimento, staccarsi da terra, confondersi, confluire, sempre: “Il tempo, il tempo non c’è più tempo / E tutto resta senza fine”. Per me, uno dei vertici massimi del percorso di Benvegnù.

“Noccioline” – Carl Brave x Franco 126
“Due donne stan parlando con le braccia piene di sacchetti dell’UPIM / ed un giornale è aperto sulle pagine dei film”: Immaginari estetici di riferimento a parte, Carlo e Franchino giocano forse allo stesso mirabile gioco di Claudio Baglioni. Prendono Roma, la serigrafano su una tela tenue e intima, rovesciano il rilievo e la trasformano in un quadro collettivo. Vi buttano dentro: neologismi, scorciatoie, discorsi diretti, localismi, brand di scarso fascino quotidiano (l’Enjoy, il Conto Arancio), onomatopee (“Dici che faccio “bla bla bla”, io sento solo “co-co-dè”), ingiurie, contrattempi, ritardi, imprecazioni, commiserazioni. Il tutto graziato e nobilitato da un intenso solidarismo tra amici, anch’esso insolito nella iper-individualista scena italiana: serve a fare da base a un elogio compassionevole della sfiga reciproca (con le donne, naturalmente) che non ha quasi nulla dell’aggressività (truce) del clan-rap di periferia né di certa spocchia da marketing plan alla milanese. Le dieci canzoni di Polaroid sono dieci polaroid in senso letterale, e come tali si assomigliano tutte un po’: “Noccioline”, forse, è la più piaciona e leggera di tutte; rimossa una patina di lamento dalla malinconia degli altri brani, saltella grazie a un friccicorio da stornello un po’ ubriaco e a una dose importante di autoironia. “M’hai detto famo aperitivo io ho preso tre bire / E ho finito pure le tue noccioline”: a volte basta pochissimo a rendersi memorabili.

“Nel profondo Veneto” – Le luci della centrale elettrica
Terra, quinto album di Le luci della centrale elettrica, contiene diversi richiami a un immaginario ‘genericamente’ africano, dove la genericità – che qualcuno potrebbe vedere come affettata – risponde a una precisa volontà: evocare una non-collocazione geografica, un simbolico Sud del Mondo che entra in rotta di collisione con un altrettanto generica Provincia del Paese. È un approccio che tradisce un metodo alla Jovanotti, che per certi versi è l’influenza più forte di “Terra” (come è noto, Vasco Brondi ha anche co-firmato per Cherubini e gode del suo significativo sdoganamento). Questa tensione la si ascolta al massimo della sua potenzialità in “Nel profondo Veneto”. Siamo in un Veneto infatti che non esiste realmente, ma vale solo come ennesima trasfigurazione di uno spazio-provincia esautorato di ogni valenza sociale, giudicante e incattivito, “dove il terreno come te a volte è arido”. Per questo ha un suono che gli appartiene e che insieme lo rifiuta, “sembra musica africana ma è anche musica veneta, è il nuovo folk, la colonna sonora dell’Italia di adesso fatta di identità diverse e quindi anche di musiche che si mischiano”. Da questo Veneto un’altra delle eroine di Vasco Brondi prende il largo per la metropoli carica di lusinghe e aspettative, ma deraglia in una vita senza sonno, un vagabondaggio tra fantasmi notturni e ambizioni sfumate. Ritorna “nel profondo Veneto” con i segni di questa fame sul viso, pronta al patibolo dei residenti, acusticamente rappresentati come una mutazione delle vocine stridule di “Gente per bene gente per male” di Lucio Battisti. Non c’è da scegliere tra campagna e città, tuttavia: oggi queste voci sono grottesche, sardoniche, quasi mostruose ma in qualche modo sono anche rassicuranti, accoglienti. È come se l’unica migrazione possibile nel 2017 fosse al contrario, tra “la fame” e “due bar, una chiesa, una farmacia, un negozio di alimentari”, si ritorna alla seconda opzione: “Non c’è niente da dire, niente da spiegare / Niente da capire, c’è solo da esistere / Da lasciare correre”. Ancora una volta Vasco Brondi scava il solco della speranza giovanile disintegrata, mai costituita, ma invece che cantarne il requiem in toni lancinanti lo sublima in rito magico, in auspicio propiziatorio: ecco perché il finale deflagra in vampe anni Novanta, un po’ Youssou N’Dour e colori panafricani, un po’ Walt Disney, Re Leone, non senza ironia. La promessa mancata è tornata, suo malgrado o sua fortuna: si festeggia un fallimento, danza attorno al fuoco.

“Come vanno le cose” – Chiara Civello
C’è anche Diego Mancino dietro “Come vanno le cose”, e si sente. Pur co-firmata con Chiara Civello, la canzone è pervasa di una certa malinconia tendente al drammatico di cui molte tracce dell’autore milanese sono intrise. Tecnicamente si tratta di una bossa nova, equidistante tanto da un Sergio Endrigo in minore quanto da certe ballate di Marisa Monte. Ma con quel beat elettronico algido, appena accennato, e le sue modulazioni armoniche (ben due, costruite quasi matematicamente), pare più lo scheletro di una suggestione del passato, quasi una bossa disidratata. Il resto del dramma – la constatazione dell’incapacità di possedere la completezza di un amore, talmente tragica da non celare persino sfoghi alcolici (“e non faccio che cercare / le risposte in un bicchiere” – lo fa la voce di Civello: tenue, rotonda, tesa nello sforzo di veicolare un senso di solitudine e, come accadrebbe in una grande canzone di Mancino, di ineluttabilità. Come mai era parsa finora, Civello sembra tenersi a distanza cautelare dal virtuosismo gratuito o dal cliché, investendo nel peso da dare alla parola. Qui si gioca di un complicato equilibrio, che richiede tecnica e autocontrollo, per dare un senso di pesantezza senza affossare la canzone. I tanti che hanno ignorato Eclipse, un ottimo album, gli diano una nuova opportunità: Civello è oggi anni luce al di sopra di certe interpreti consolidate del pop italiano, ma bisogna sforzarsi di vederlo. La sottrazione è sempre meno evidente dell’autoproclamazione, ma per la prima serve talento, per la seconda arrivismo. E l’arrivismo non è un’arte.

“Mai più” – Rkomi
In questa lista di fine anno c’è poca trap. Per quanto possa essere impopolare dirlo, dove la generica categoria di “chi fa trap” venga osannata di aver spinto oltre i suoi limiti il presunto provincialismo della musica italiana (compreso il rap), i trapper, presi nella loro singolarità, mi sembrano in gran parte mostrare un evidente limite: la timidezza. Tracciato un solco, la formula è stata rivista ricalcata e rifinita senza troppo curarsi di intercettare chi stava al di fuori di essa (perché mai farlo, una volta che la trap alimenta il suo pubblico meglio di ogni altro genere?). Come se questa produzione, a fronte di un’idea brillante, si fosse spesso riprodotta in modo ombelicale. In mezzo a questo enorme traffico svetta chi ha l’ambizione di cercare forme differenti e le pratica in modo completo, rischiando anche di uscire dal proprio seminato. Rkomi è uno che sta ‘dentro la scena’ ma che da dentro dà chiari segni di cercare altro, stimolare altre comunità, e insieme sfuggire all’incasellamento. Lo fa con il suo flow, prima di tutto: rapido ma non solipsisticamente virtuoso, rapsodico, spezzato, filiforme, fluido, come imprendibile anche quando è fermo. Letterario, aggiungerei, sapendo quanto problematico sia l’attributo in questo contesto. Tra molte proposte talentuose ma rapidamente evaporate, quella di Rkomi mi pare una di quelle dove la sostanza della scrittura ha più solidità, tant’è che i suoi metri si appiccicano alla memoria, al di là del contenuto, non sempre nitido, ma più basato sull’interiorità che sull’autoreferenzialità (altro limite insopportabile). Mai più è uno slow terzinato dallo spirito rock/blues, molto ‘suonato’, con un’idea di crescendo e di dinamica e un bel gioco dialogico tra ritmica e parole. Tutto sembra il segno di una marcia un po’ appesantita e faticosa ma nettamente rivolta verso un’idea personale di progresso, di cambiamento, che si traduce in energia. È anche una canzone-specchio: ciò che riconosco di me che non mi serve, lo lascio alle spalle, proiettandomi verso altro, chiaramente senza rinunciare alla mia identità (“vestiti sparsi mi fan strada al ritorno / ora che tutto è diverso”). Per andare dove, non è dato saperlo: ma “mai più” è un’espressione universale, un gesto di coraggio, la base di un detour, la rinuncia a una retorica – chissà, la stessa che li ha portati sin qui.

“Vasco Da Gama” – Colapesce
Delle 8 canzoni di Infedele, terzo album di Colapesce, sono saggiamente “Ti attraverso” e “Totale” le canzoni di vetrina. Presepi pop in cui l’autore condensa decine di influenze, senza farne sembrare nessuna pretestuosa, riuscendo nell’impresa di evolversi rimanendo se stesso. Due canzoni notevoli, largamente sopra la media dello sterile pop italico sintetico pubblicato nel 2017. Eppure da queste parti a stregare di più in Infedele è l’anima più tortuosa, le sue canzoni di allontanamento e sparizione, vagabondaggio e suggestione magica: “Pantalica” e soprattutto “Vasco da Gama”. Se la prima paga la visibilità dell’influenza di Iosonouncane, la seconda è un piccolo capolavoro di musica fluviale, nel senso di composizione che scorre lentamente lungo il suo corso cambiando costantemente i suoi connotati, non assomigliando a niente, eppure quasi immobile. Retta da un beat sintetico tenue e da un arpeggio ipnotico di arpa, è una curva rarefatta che dalle esplorazioni di Vasco da Gama approda al corpo di lei, nel cuore di una seduzione che porterà a un amplesso: “Nessuna aspettativa c’è il tuo corpo / Una terra emersa appena”. Dopo la prima esposizione, è come se la canzone abbandonasse la sua guida, la nave perdesse il timoniere, il mezzo continuasse ad andare libero, in questo fiume conradiano. Alla nuova esposizione di una strofa si sostituisce una chitarra acustica, in un assolo arpeggiato che sa di tempi arcaici, e che emoziona profondamente a livello acustico. Il finale porta a compimento l’atto amoroso, cioè la scoperta della nuova Terra (e viceversa): l’armonia deraglia su altre rotte, finora impensabili, che sanno di Air e Zero 7, e che al primo ascolto lasciano sbalorditi. Abbandonando l’urgenza di darsi una struttura, Colapesce è riuscito nell’impresa di scrivere il suo brano più erotico, suggestivo e soprattutto trascendente: arrivati fin qui, si può andare ovunque.

“Ti fa stare bene” – Caparezza
Cupo, decisamente autoriverso e non propriamente incline alle leggerezza, Prisoner 709 è una costruzione narrativa che ha bilanciato l’eccesso di programmaticità di certi lavori precedenti di Caparezza con la sua naturale propensione a chiedere a un lavoro discografico ‘qualcosa di più’, traghettarlo verso una dimensione in cui conta come azione nel complesso, oltre la somma dei suoi singoli elementi (proprio a questo aspetto ho dedicato un focus su questo blog). In teoria, rispetto all’ostracismo che vive un’idea di musica “impegnata”, nel 2017, l’album non avrebbe dovuto ottenere il grosso seguito che ha avuto. E invece Caparezza ancora una volta ha giocato sul filo dell’ambiguità, parlando a cuore aperto di sé senza appellarsi a un pericoloso autobiografismo compassionevole, e riuscendo sempre a costruire un brano dai toni apparentemente spensierati e insieme tragico, e a tratti devastante. A fronte di una carica energetica che è indiscutibile, Ti fa stare bene è in realtà una canzone tristissima, il documento di un fondo del fondo nel momento in cui ‘le voci’ altre tentano con l’insistenza di stimolare una reazione. Affidate a un coro infantile, le voci – dell’anima, dello spirito, del dovere, dei dottori, non è dato saperlo – si connotano in modo bifronte: da un lato il loro è un invito a ripartire dalla propria natura ludica e insieme irriverente (“Soffia nelle bolle con le guance piene / E disegna smorfie sulle facce serie”); dall’altro la ridondanza del loro invito a “fare ciò che ti fa stare bene” suona come uno slogan ossessivo, che quasi martella forse più del benedetto fischio patologico al centro dell’intero lavoro (musicalmente trasposto in quella sillabazione da operetta del coro nel bridge: “vuoi sta – re – be – ne – sta – re – be – ne”). Sembra che Capa stia cantando dal versante oscuro del processo di guarigione, quello che è meglio non mostrare a chi vuole guarire, perché disincentiverebbe la motivazione a curarsi, ma che esiste: in forma di ossessione, tortura, cicatrizzazione. Altro che motivetto “tipo Mariele Ventre”, qui Salvemini ci racconta il momento in cui stava per mollare tutto e la ritrovata motivazione ad essere Caparezza, nell’atto primario che giustifica questa identità: “Canto di draghi, di saldi, di fughe più che di cliché”. Beffandosi, alla sua maniera, del 90% della scena rap italica, forte di una sostituzione vocalica ‘alla terza’, Caparezza sembra ritrovare il senso della sua azione. Per “una canzone un po’ troppo da radio”, è un miracolo. Sticazzi, finché.

“Sogno l’amore” – Andrea Laszlo De Simone
Sia benedetto Andrea Laszlo De Simone: in un quadro nazionale votato in cui ogni argomentazione prolungata è ormai colpa, Uomo donna, quasi 80 minuti di durata, è arrivato come un desiderato elogio della dilatazione, dell’espressione che si prende il tempo per esprimersi. Invece che lavorare sull’eterogeneità (come fa, paradossalmente, un album brevissimo come Infedele di Colapesce), De Simone cerca di attribuire alle composizioni un umore comune: che è malinconico e meditabondo, intimista ma interrotto da momenti rabbiosi, spesso ipnotico (“Vieni a salvarmi”), a volte rapito come da un’estasi in cui suono e rumore si confondono (l’intro e la coda di “Gli uomini hanno fame”). Apparentemente affiliata ai Verdena di Endkadenz, “Sogno l’amore” trasuda in verità – come molti momenti di Uomo donna – certi struggimenti di band come i Camaleonti e l’Equipe 84, dove altrove De Simone pare ridare vita persino a un certo Alan Sorrenti. È la vetta emotiva dell’album: attorno a un arpeggio pianistico di grande forza drammatica, De Simone articola la sua idea di amore come forza vitale, oltre la sua specificità. Che vuol dire che ameremo in senso assoluto, come guidati da un’esigenza arcaica, ancestrale, come una croce da portare (immagine fornita nelle interviste e poi ripresa nel video della canzone, un vero e proprio cortometraggio co-diretto dallo stesso De Simone). Cantava Ivano Fossati: “Il motore del sentimento umano non lascia indirizzo né traccia”. De Simone, con sensibilità poetica, aggiorna la riflessione al nostro essere trainati in eterno verso il conseguimento dell’amore, anche in assenza dell’oggetto amato: “Non c’è nessuno / ho amato un’ombra”.

“Gandhi” – Mannarino
Nella riedizione live di fine anno, “Gandhi” è l’unica canzone di Apriti cielo che non viene eseguita. Eppure vi gioca un ruolo importante: piazzata in mezzo al disco con l’imponenza dei suoi sette minuti, fa sfilacciare la pulizia certosina dei suoni che la avvolgono all’interno dell’album in un ghigno sornione, poco controllato, più autentico, gioiosamente teatrale. In questo talking blues su due accordi soli Mannarino ha lo spazio per muoversi con la voce dai toni più profondi a sua disposizione fino al declamatorio più assoluto, dove libera le sue sfumature più felicemente caustiche. Analogamente a quanto fece Samuele Bersani con “Freak”, “Gandhi” getta acido sui cercatori di orientalismi della domenica e sui nuovi colonialismi pseudo culturali mascherati da buonismo d’accatto (“Se gli indiani sono tanti / puoi contare sui contanti”). L‘India è chiaramente un mero pretesto topografico: la lancia più affilata punta allo schiavismo 2.0, summa gloria del modello di business del made in Italy, e all’annesso finto solidarismo che ne copre malamente le scomode verità (“Andiamo nelle fabbriche cinesi, in mezzo ai campi calabresi, pomodori di Ragusa li raccolgono gli addetti / di Mahatma Gandhi”). Il Mahatma, dunque, diventa un’effigie dello sciacquo di coscienza: sulla tesserina fedeltà del droghiere, nella titolazione di un’ITC o di un’altra scuola di borgata. Come la maglietta del Che, come le frasi fatte di Steve Jobs: l’immagine-pretesto di Gandhi è prontamente imbracciata dal mattatore del momento, che Mannarino visualizza in un Pulcinella unto, un imbonitore greve, disinteressato e gretto, che porta in mano un mattarello che richiama alla mente il manganello. Un dialogo diretto, a tu per tu, che nella parte finale della canzone libera definitivamente, in un sol colpo, sia l’espediente teatrale, alla Gaber, su cui si basa la canzone, che il suo spirito civilista: “Guardi che, al mondo, c’è chi fa lo sciopero della fame e chi sciopera perché ha fame / Ma alla fine arriva sempre la polizia, che non ha mai letto nessuno dei libri / di Mahatma Gandhi”.

“Le squadre” – Dargen D’Amico con Isabella Turso
Nell’anno di tracotanza del rap italiano, il suono Dargen D’Amico è stato sottoposto a un trattamento radicale, distante da ciò che ‘ha fatto tendenza’. In Variazioni Dargen ha riunito brani già incisi e inediti tutti arrangiati con Isabella Turso, pianista eclettica, in missione spaziale da un pianeta altro come la musica classica. I beat sono stati ricondotti a piccole unità scomposte e frammentate, mentre soffici arpeggi pianistici e orchestrazioni da camera rincorrono il flow, spingendosi spesso oltre le abitudini del genere: l’effetto è che la voce di Dargen è ancora più al centro dello spettro sonoro, al punto che queste canzoni assumono un colore decisamente ‘esistenzialista’. Questa scelta di allontanamento raggiunge il suo vertice in Le squadre, osservazione amareggiata di una società in cui è necessario dover appartenere a uno schieramento per poter esistere, non sentirsi un “esserino inutile”. Il concetto di schieramento o di squadra, per come lo vede Dargen, include l’appartenenza politica ma la supera anche: così, in questi pochi versi, lo sguardo si allarga sul familismo, la categorizzazione sessuale, la tecnologia come sublimazione autorizzata dell’autoerotismo, quindi di un’autoaffermazione sganciata dal proprio ruolo sociale, fino al patriottismo e al ‘matriottismo’ (“bravi bravi bravi / che avete teorizzato l’uomo / e ora chi tifa per la patria / passa la vita a odiar la matria”). Naturalmente Dargen non è un censore: perciò ogni riflessione viene lasciata sospesa nel momento giusto perché resti aperta, suscettibile di variazioni interpretative. Fino a essere confutata dallo stesso autore, che nella successiva Dello stesso colore ribalta il punto di vista, quasi azzerandolo. Alla fine l’unica umanità a cui Dargen riserva della sincera pietas, è quella che più rispecchia la sua autonomia, anche a livello artistico: “Però ancora non c’è rispetto / per chi sfascia qualsiasi famiglia o progetto”. E che vale come un baluardo, in tempi di eccezionale moralismo.

“Tubature” – Giorgio Poi
Proprio in avvio di questo progetto, a Giorgio Poi dedicavo una lunga scheda (“Paracadute”) in cui vivisezionavo questo suo stile un po’ sbilenco, ricco di singolarità e insieme tanto familiare. Alla fine dell’anno, con il quadro delle uscite discografiche completo, sono ancora più convinto che con Fa niente si sia affermata una delle poche voci nuove davvero originali. Un autore abile nel catturare dettagli meno rilevanti e più sfuggenti delle schermaglie amorose, a rappresentarle con una luce che tiene conto del vivere contemporaneo e a tradurle in forme al limite del surreale, dove basta uno scambio di lettera per dare vita all’inanimato (dalle “bambole del gas” ai “chilometri di filo interverbale”), colorare di morbida ironia un paesaggio svilente e degradato, dare movimento all’immobile, come fa la vivace linea di basso delle sue canzoni, un’antitesi perfetta alla monofonia delle ballate in 4/4 tanto acclamate durante l’anno. Tubature è forse la canzone più sinceramente romantica del carnet: il racconto dell’ultimo dubbio di una coppia che decide di fuggire dal contesto urbano in cui vive, alienante e incombente (“due espatriati”, spiegherà Poi in un’intervista), per salvarsi andando a vivere sul mare, “su palafitte a forma di astronave”. Dolcemente adattabile a ogni storia di migrazione personale, è un trionfo di linee melodiche classiche (da Ivan Graziani ad Alan Sorrenti, quante canzoni si possono ascoltare dentro Fa niente?) filtrate dal timbro acuto della voce dell’autore e accompagnate senza fretta verso l’uscita: un finale trionfale con fiati alla Paul McCartney e pa-pa-ppara-ppa che dà la sensazione immediata di trovarsi a fare il tipo per la coppia, vederli sparire all’orizzonte, nell’abbraccio di una linea azzurra, sempre più vicina.

“Atlantide” – Pieralberto Valli
Enigmatico e fumoso come un ricordo stordito, Atlas è l’album che segna l’esordio solista di Pieralberto Valli, già Santo Barbaro. Documenta un viaggio da compiere la cui rilevanza è tutta al di là della meta di arrivo: un percorso di liberazione dalle illusioni corporee e dagli inganni delle proprie autoconvinzioni (i ‘falsi ricordi’), in cui defluire, scomparire e ricostituirsi, per ritrovarsi. Come singolo ma anche come coppia. Denso di matrici esoteriche, Atlas parte, naturalmente, da Atlantide, il fondo del fondo, la storia (l’altra storia) millenaria sepolta, la meraviglia nascosta che è, in un certo senso, il premio promesso a chi decide di intraprendere questo viaggio iniziatico (“ti aspetterò lì”, canta Valli, lasciando aperta la questione su chi sia a parlare a chi). Suggestiva e ieratica, Atlantide è una traccia-simbolo del lavoro musicale di Atlas, coerente con il percorso dei Santo Barbaro ma più centrato nella costruzione di un immaginario del ‘solitario’. Una voce che sfugge alla carnalità e alla concretezza, come se volesse allungare le note facendole perdere nell’aria rarefatta creata dalle partiture, muovendosi in un territorio di confine dove capita di sentir riecheggiare tanto David Sylvian quanto il Giovanni Lindo Ferretti solista, certi National pianistici o i beat dei Massive Attack di 100th Window. Come a portare a compimento il processo di sparizione e fusione col tutto, alla fine dell’anno Valli ha rilasciato anche gli Instrumentals, e la suggestione è un po’ a metà: perché la cosa più bella di Atlas, quella che lo stacca anni luce da molte proposte pubblicate nell’anno e afferenti al macrocosmo dell’elettronica, non per sembrar patrioti, ma è l’italiano, il valzer di accenti e sillabe su versi come: “In una notte trapunta di / traccianti comete”.

“Un temporale” – Ghemon
L’uomo è ancora esposto lì sotto la pioggia battente, senza niente per ripararsi. Si fotografa al bordo di un fiume, nel punto esatto in cui potrebbe lasciarsi trainare dalla corrente, perdendo ogni controllo, masenza che ciò accada. Il cielo è livido, l’aria pesante, sa di bruciato e di inquinato. Non c’è purificazione: solo osservazione lucida. L’autoritratto del narratore di “Un temporale” è di una intensità descrittiva fuori dal comune: il passo pesante del ritmo, la brutalità nel tono di voce, l’armonia in minore che torna sempre al punto di partenza (con qualche reminiscenza del finale di “Karma Police”) concorrono a comunicare in perfetta coerenza con il testo uno stato umorale al limite del crollo, agito in cristallina obiettività ma insieme pervaso da una rabbia muta. Singolo principale di Mezzanotte, album di grande finezza musicale che ho analizzato qui, “Un temporale” è la canzone-simbolo delle ombre che ne attraversano le rime, accolte da Ghemon con la temerarietà di chi conosce il potere taumaturgico di una crisi trasformata in atto creativo. E sapendone anche i rischi, sceglie di attraversare, a passo sicuro, anche una bufera.

“Faccio un casino” – Coez
La via dell’immediatezza può prevedere un passaggio da forme di brutalità, autoritarismo, colloquialismo spiccio, essenzialità. Non è necessario attribuire un giudizio a questi strumenti: l’obiettivo raggiunto, spesso, è sufficiente a prendersi tutta la attenzione, consentendo di sorvolare sul come. Poi accade (di rado) che una scelta di immediatezza riesca a portare con sé un plus raro: la grazia. Si manifesta come un’epifania, un guizzo che pare istintivo in un procedere tutto sommato convenzionale. Il potere della grazia, nelle soluzioni di immediatezza, è che riesce ad avvinghiarsi alla memoria meglio di ogni lezione progettata, rivista ed esposta. Solo che per essere realmente efficace, la grazia immediata deve risultare naturalmente spontanea, altrimenti si diventa leziosi o pretestuosi.
Il 2017 è stato, musicalmente parlando, l’anno di Coez. Suppongo, più a che a causa della vulgata sulla sua indipendenza più forte di ogni strategia promozionale, per via di alcuni lampi improvvisa di grazia apparsi in molte delle sue canzoni. Sono versi spaiati, talvolta sganciati dal resto, che restano luminescenti dopo molti mesi, e anzi espandono la loro capacità attrattiva, contagiano. “Questo va per te che hai lottato per me / c’è chi ha due genitori ma tu vali per tre”. “Io per te brucio i semafori / Stringo le mani ai tuoi diavoli”. “E scusa se non parlo abbastanza / ma ho una scuola di danza nello stomaco”. Ora Coez questi lampi di spicciola poesia quotidiana, debitamente conditi da un briciolo di autoironia (“Ho scritto t’amo sulla sabbia / nah, posso fare di meglio”) li ha collocati in un contesto colloquiale, diretto e senza fronzoli, in cui il linguaggio è coerente con il messaggio: il maschio è eroico ma anche labile, sa sbagliare e fieramente correggersi e dichiararlo, non ha paura di mostrarsi sentimentale, addirittura romantico, salvo non perdere la concretezza, e tutto ciò lo ammette palesemente davanti a lei, e chiede a lei uno sforzo di decisione. Ricorda Daniele Silvestri per l’autoironia e Vasco per il pragmatismo. Sì, c’è molto Vasco in Coez. Faccio un casino è un mezzo-funky sbruffoncello e domestico che si può permettere di fare a meno del ritmo per quasi tutto il pezzo, appiccicarsi e restare. Il messaggio “Amami o faccio un casino” è perentorio e insieme struggente, un po’ cazzaro e un po’ disperato, risoluto e al contempo appassionato. Dà corpo a un pezzo di generazione che langue una relazione-relazione, autentica e in qualche modo vissuta dall’inizio alla fine: in un’era di incertezza incancrenita e cinismo come tono dominante, è un bene che Faccio un casino sia una delle canzoni pop dell’anno – forse la canzone pop dell’anno, sicuramente la serenata più genuina del 2017, immediata e graziosa nel senso più letterale del termine, in un oceano di canzoncine vaporose che scompaiono in un nonnulla.

“Xananas” – M¥SS KETA
M¥SS KETA fa qualcosa che non ha eguali, in Italia, quale che sia il genere musicale su cui si sposti lo sguardo. Esibendo con orgoglio la natura artefatta del suo linguaggio, cristallizzata da quella sorta di burqa glam che si è scelta come simulacro, sta portando una serie di semantiche ancora formalmente tabù nel nostro Paese in territori formalmente non pronte ad accoglierle ma nei fatti già ben attrezzate. Una canzone come “Xananas” si muove dentro una nube alterata che il prodotto di un incrocio esplosivo tra il culto dello psicofarmaco oltre la presunta necessità, il sesso digitale, i manuali d’uso delle nuove droghe sintetiche, una sensualità lasciva al confine con il mercimonio. Tutte espressioni ormai abitudinarie nella vita quotidiana (non solo notturna) della metropoli che però la cultura dominante deve ancora moralisticamente ostracizzare: e allora M¥SS KETA, con grande astuzia, veicola questi immaginari con toni suadenti e confortevoli, che in qualche modo suonano familiari all’Italia post Berlusconiana. “Xananas”, ad esempio, è un tripudio di brezze marine, vetrate con vista panoramica, unguenti e creme dai nomi esotici, cristallizzati nella grande bolla dello smart working nella Milano dei grattacieli e dei panorami verticali, non a caso altamente chimica (“Ho fissato un meeting alle otto / Daje ‘sta volta famo il botto”). Prodotta da Populous e trapassata da certi gas che emana il suo Azulejos, “Xananas” è un oggetto non identificato che punta al contagio, al passo di una cumbia elettronica felpata, un po’ rituale e felicemente autoreferenziale: “Sono la gran contessa / Arciduchessa, sacerdotessa / Controversa, compromessa / La prima donna a dire la messa”.

“T.S.O.” – Colombre
“T.S.O.” è una delle miniature di Pulviscolo, l’esordio di Colombre, già chitarrista di Maria Antonietta. È un album di una leggerezza fuori dal comune, musicale e lirica: canzoni stringate, essenziali, dove ogni elemento è lì con una funzione e ogni ripetizione non dura mai oltre il dovuto, costruite attorno a parole schiette, dove l’autore prende di petto tanto amori ed ex amori, così come amici di scorribande quotidiane e altri scomparsi da tempo. È proprio a uno di questi, “perso dentro il labirinto del T.S.O.”, che va la carezza più dolce, in un brano dalla struttura singolare, a blocchi discendenti, con il ritornello molto più basso della strofa, quasi sottovoce, che ho analizzato in una scheda monografica.

“Amanda Lear” – Baustelle
Come “La canzone del riformatorio” o “Le rane”, “Amanda Lear” è esposta in forma di lettera (due lettere, in verità). Bianconi si rivolge a un “amore antico”, abbandonato all’improvviso senza troppe motivazioni. Un amore “atomico”, trattato con incoscienza, dato “in pasto ai marinai”. Gli viene detto che lei, tuttora, la si può vedere “vomitare gli occhi e l’anima a un concerto rock”, mentre si accompagna a una figura anonima, “una testa di cazzo”. Nel contemplare l’incapacità di credere nel “sempre” di questa wannabe Amanda Lear, vale a dire un’icona di presupposta trasgressione effimera, lui si attribuisce la responsabilità, come se abbandonandola repentinamente avesse generato un trauma: “Colpa mia”. Seconda strofa, flashforward. Lui le si rivolge di nuovo, con il pretesto o la reale motivazione di sapere come sta. Scrivendole una nuova simbolica lettera, si vede costretto a ritrattare la sua presunta compassione. Adesso è lui ad essersi fatto cogliere in flagrante, come una testa di cazzo qualsiasi, nell’atto di “pomiciare una troietta qualunque”. Nel riconoscere la stessa dinamica al contrario, lui ritira il suo pentimento e passa all’accusa: “Colpa tua”. Come te, oggi faccio esattamente quel che serve per mandare a puttane tutto, affossato dal pensiero che “niente dura per sempre”, tutto sarà breve, come quelle tre/quattro tracce sulla facciata di un LP. Un mostro, ormai.
Restringendo il suo cono ottico sugli eventi e la loro rielaborazione, “Amanda Lear” mette in piedi un florilegio di simmetrie tra passato e presente, femminile e maschile, colpa e pena. Su una struttura che pare derivata da quella di “La canzone del riformatorio”, Bianconi alterna rime dalla struttura antica tinte di una nostalgia tenera e sfumata, come si disegnerebbe a pastello un sanguinario sfacelo esistenziale. “Common People” dei Pulp, certo, è un canovaccio che si sente, come in tanti hanno fatto notare, ma è una traccia che si ferma al costrutto ritmico: Amanda Lear è ben più algida, teutonica in un senso schlager (più che Kraftwerk). Un ricalco libero delle architetture degli Abba, come spolverato da un po’ de La voce del padrone. Se si vuole, ci si può sentire persino Claudia Mori che canta con Celentano: “Non succedera più / di amore te ne ho dato tanto / ma non voglio dartene più”. Se tutto L’amore e la violenza è la cronaca di una ricognizione del dolore subito e del susseguente tentativo di rimettere i cocci in piedi, “Amanda Lear” ne è lo spunto narrativo più nitido. Come un antefatto, imbastisce la tavola, collegando i gesti compiuti alle loro conseguenze: alzato il velo dell’immediatezza pop, ecco il bilancio brutale di quanti danni abbia fatto questo vivere cinico, talmente entrato a far parte delle nostre dinamiche emotive da non riuscire più a osservarlo con i nostri occhi.

“Il costume da torero” – Brunori Sas
Nel 2017 si compie la traslazione ufficiale di Dario Brunori da reuccio della scena indipendente a incarnazione del nuovo Cantautore. La promozione passa dai canali d’ordinanza: il Primo Maggio, il Tenco, la TV, i sold out, persino le classifiche di vendita e streaming. Brunori, autonomo purosangue, un po’ incassa e un po’ smitizza, stando attendo a riderci su, a ironizzare sempre. Ma “A casa tutto bene” puntava chiaramente a questo: trasferire nella forma-canzone il dubbio del disilluso sul punto di perdere l’ultimo barlume di speranza, tenergli accesa la fiammella e insieme massacrarlo per le sue contraddizioni evidenti, per le sue responsabilità. Sempre in delicata tensione tra personale e collettivo, la riflessione di “A casa tutto bene” è parsa perfetta per dare carne e parole al momento di frattura del fu-elettorato-di-sinistra; allo stesso tempo, a conti fatti, si è rivelata più inclusiva del previsto, superando la soglia del recinto politico. Se ciò è accaduto, è perché il rifiuto della resa e dello sfascio come ultime opzioni possibili, che permeano l’intero lavoro di Brunori, sono sentimenti che interpretano oggi uno sforzo civilista ben oltre le identità politiche. Perciò più che “La verità” – la piu accusatoria delle canzoni dell’album, un brano che ha svelato la sua problematicità interpretativa proprio nel momento in cui paradossalmente da Brunori è passato al mondo, cioè a X Factor – o “Secondo me“, epitome della scissione interiore del fantasma dell’elettore dem, più che il rutilante aggiornamento del confronto tra Sud e Nord di “Lamezia Milano”, talmente lieve nella sua ironia da raggiungere anche l’etere radiofonico mainstream o L’uomo nero, raggelante e anticipatorio, è “Il costume da torero” a consuntivo la più affidabile sintesi delle motivazioni che hanno portato Brunori a occupare questo posto. Prima di tutto, è una questione gustosamente musicale: leggera e saltellante, Il costume da torero è immediata come un motivetto a cui non si è voluto pensare troppo a lungo, senza introduzioni o finali ma articolata attorno a un’unica strofa presentata in due varianti, una per ‘cantautore solo’ e l’altra per voce maschile più coro scolastico di under 12. Più che nel solco di De Gregori, Dalla e Gaetano, cioè i numi che vengono richiamati più spesso parlando di Brunori, “Il costume da torero” deve tanto al Sergio Endrigo di “Ci vuole un fiore” e più in generale al” Bruno Lauzi” degli anni Settanta, anche se musicalmente è equidistante da Toquinho come da “Ma la notte no”. La dimensione infantile è anche profondamente simbolica: per salvare “il mondo intero” Brunori non si rivolge agli sforzi di piazza o alle azioni organizzate (tutto “A casa tutto bene”, in fondo, resta in una posizione individualista), ma invoca l’irriverenza del gioco e del travestimento, affidandosi proprio al colore vivace e pastello della costruzione musicale. Come fa Caparezza con “Ti fa stare bene”, alla voce infantile è affidato uno scarto di realismo lucido che in bocca a un adulto non suonerebbe altrettanto veritiero: sono loro a illustrare lo stato esistenziale di chi ha le ossa rotte ma ancora non è stato roso completamente dal livore e dal senso di disfatta. In un Paese in cui le forze politiche hanno progressivamente virato la propria comunicazione verso il senso di rigetto (la ‘pancia’), quasi sgomitando per occupare lo spazio ancora disponibile in questo mare retorico, nutrire ancora un briciolo di fiducia è un atto quasi rivoluzionario, persino rischioso perché espone al pubblico ludibrio (la contro-retorica ‘anti-buonismo’). In questo senso Brunori non mente, non edulcora, chiama le cose come sono, addirittura sporcandosi di trivialità: “La realtà è una merda ma non finisce qua”. Ma allo stesso tempo invoca, e questo è ciò che ha fatto la differenza, un realismo votato tanto al buon senso quanto al respingimento del cinismo come approccio globale. Mettersi il costume da torero per salvare il mondo intero con un pugno di poesie: Brunori ha fornito il dress code perfetto per questa parte di Paese non stupida ma nemmeno cinica, che proprio non vuole accettare di abdicare del tutto al sogno.

“Nessuno vuole essere Robin” – Cesare Cremonini
“Ciò che vorrei dirti stasera è… non ha importanza”: hai voglia Cesare Cremonini a rifinire con perizia sopraffina un arrangiamento, la fine di un inciso o una parola specifica per farla sembrare esattamente quella che l’armonia si chiama, in quel momento esatto, hai voglia a spingere la sua necessità di espandere lo spettro del pop italiano oltre il suo provincialismo, hai voglia a far sforzarsi di trovare la quadra per portare le risonanze di certo indie rock nelle sue canzoni, trovare la ricetta perfetta per far stare insieme Pharrell, Rock the Casbah e sembrare credibile anche cantando un inno disco su un musulmano figlio di un muhajeddin che sogna solo di danzare, hai voglia a tracciare possibili scenari lungo una traiettoria ideale che sembra non mutare mai, Paul Elton George eccetera eccetera. Hai voglia a strafare, realizzare un disco come Possibili scenari, che piomba in inverno e sembra stare alla produzione media annuale come un’orchestra sinfonica a una base Midi. Alla fine, a svettare oltre una soglia che se non si vuole chiamare capolavoro, la si chiami Cristina, Arturo o Rosetta ma comunque di quella cosa lì stiamo parlando, di quel livello incommensurabile di intimismo, eroismo, disperazione, speranza, slancio e grazia
è soprattutto una canzone come Nessuno vuole essere Robin, impossibile da scrivere a tavolino, pensabile esclusivamente come un flusso di coscienza libero e proteiforme, con le devastanti settime maggiori e la prosodia del verso a correre libera dietro nessuna struttura, dentro cui visualizzare l’amore che si nega ancora nonostante l’evidenza della sua necessità, e si trincera dietro surrogati simil-umani (l’immagine ridondante dei “cani”) pur di non accettare la verità più subdole: che esso non esiste, non può esistere nella sua forma più sublime e assoluta senza contemplarne il fallimento che si porta dentro, la caduta, per la sua natura protesa verso l’alto, la caducità, la paura. Come un pensiero che viene fuori d’istinto alle 4 di notte, quando è troppo tardi per razionare le energie, Nessuno vuole essere Robin si fa spiegare solo in superficie, lasciando a ciascuno il suo mistero (disperante, meditabondo, strenuamente romantico): “Ti sei accorta anche tu / che in questo mondo di eroi / nessuno vuole essere Robin”.
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