L’amore di ogni giorno diventa normale
Spaziale di Edda, da Graziosa utopia, 2017

C’è un mistero in certe canzoni di Edda che chiede proprio di essere lasciato lì, chiuso, in concetti che paiono un abbozzo, un fotogramma sfuggente e improvvisamente intimo, talmente ravvicinato da essere sempre un poco disturbante.
Spaziale si presenta a chi ascolta come uno dei più luminescenti di questi misteri, un enigma plateale da scartare solo in parte, lasciare intatto nella sua energia primigenia. Uno squarcio confidenziale che catapulta di sasso in medias res, e che per questo lascia attoniti. Forse questo mistero – ma oltre il confine delle ipotesi non ha senso spingersi – sprigiona la verità di una relazione duratura nel momento in cui essa si interroga sull’utilità dei suoi compromessi:
Posso sempre lasciarla parlare
E una volta in meno ascoltare.
Edda pare cantare l’ebbrezza sottile che può dare la scoperta di una sorta di punto medio, un equilibrio personale e affettivo. Lo può fare perché pienamente dentro il presente, finalmente abile di godere dei suoi effetti benefici: “Tu, finalmente tu”.
Le minacce, i mostri, le fratture interiori sono giusto a un passo, lì dietro (“lei mi avrebbe lasciata morire / meglio impazzire che soffrire”), ma Spaziale è la capacità di controllarne l’influenza, affidarsi alle braccia di qualcuno, abbandonarsi al sonno e lanciarsi nel cosmo, appunto.
In questo Spaziale si presenta come una contraddizione gigantesca, una canzone intima e insieme cosmica, che fa stare i letti e le galassie nello stesso luogo, anche a livello sonoro, tant’è che l’andamento pacato, confidenziale e ‘da camera’ dell’accompagnamento chitarristico si fonde impercettibilmente con uno sostrato sonoro ‘stellare’, un pulviscolo sottile di distorsioni che pare realmente riuscire a realizzare il mito fondante dell’intera canzone d’autore italica: scoperchiare il tetto di una stanza.
È un paradosso perfettamente espresso nel vezzoso rimpallo tra maschile e femminile che esprime il soggetto cantante, un gioco linguistico già molto frequentato dall’Edda solista, ma che qui raggiunge un livello ineguagliato, in un tripudio di sensualità matura e domestica, fragilità e apparente pragmatismo, di inarrivabile dolcezza:
e son vestita con i vestiti che svesti
sembrano pigiami
ma mi piacciono i tuoi difetti
te li togli e poi li rimetti
Nel suo ruolo di apertura di Graziosa utopia, Spaziale scardina le attese, dilatando il tempo e portandolo su una dimensione galleggiante, enfatizzata da soffuse strisce stellari sonore sullo sfondo, polverizzata dallo stesso uso delle note prolungate nel ritornello, nasali, quasi distorte, come orbitanti attorno a una pulsar smarrita. Graziato dalla purezza di questo sentire inedito, l’Edda galattico galleggia nell’aere in uno stato di appagamento superlativo, talmente elevante che dall’universo è andato a pescarsi una melodia misteriosa, incredibile, arcaica e insieme vivissima. Da quale era arriva, e come ha fatto a reincarnarsi in Edda, non certo il primo nome da associare (finora) a un atto di fiducia tanto caloroso nei confronti della melodia?
Spaziale è chiaramente il segno tangibile che Edda non solo ha sempre tenuto certe ispirazioni melodiche classicamente italiane in testa, ma che è finalmente sereno nel dispiegare la sua forma-canzone, spesso lampante, talvolta contratta, verso un lido inedito. Giunto oltre questa soglia, dove è arrivato con naturalezza e insieme col passo di chi ha dovuto raschiare molti attriti per farcela, si protende in acuti lunghissimi e gorgheggianti, verso note svettanti e clamorose, che paiono formare una mistica risonanza tra il diaframma e il cervello, il ventre e i vestiboli, la fobia e il cosmo. Quando fa svettare il già altissimo ritornello verso la sua vetta più alta, si trasfigura in un’immagine tremenda e bellissima insieme, lo sforzo si ripaga con la gratitudine, la fatica con la fierezza: “per fortuna che ci sei”, è un verso abusato, come “finalmente tu”, ma raramente è stato così vicino alla concretezza fisica dell’invocazione che esprime, alla sua motivazione recondita. È un brivido incredibile, che si propaga a ogni ascolto ripetuto, un eccezionale momento di sincerità melodica, una pulsar in una polverina anemica di stelline piccole piccole che non si vedono già più.

La struttura è semplice: strofa-ritornello, strofa-ritornello. Eppure è irta di piccole deviazioni, che scompaginano l’apparente equilibrio, come a dare l’idea di un sottile zoppicare, un affanno. Il primo verso di ogni strofa parte con una battuta in tre movimenti, a cui ne segue una in quattro: una scelta che produce un effetto di spostamento del peso, come se si rimandasse l’avvio. Anche nella seconda parte della strofa le battute ‘spezzate’ concorrono a questo effetto, giocando sul filo di un’asimmetria non virtuosistica, ma concretamente coerente con l’immaginario suscitato dal brano, quello di una relazione che si compiace sia giunto il suo momento (probabilmente, perché un’altra è finita) e lo fa ammettendo al suo interno tutti gli azzoppi che hanno portato sin qui.
Nel ritornello la ritmica ritorna ‘standard’ mentre i toni armonici diventano più solenni, gravemente romantici. La tonalità modula e porta dentro sé accordi di 7a maggiore e addirittura un ‘semidiminuito’, una sfumatura ancora più intensa di un romanticismo malinconico, chiaramente alla Tenco, un accordo diventato rarissimo in un pop liquido e basato quasi esclusivamente sulla ritmicità degli elementi.
Rampoldi ha parlato esplicitamente di Mina, fortunatamente senza spiegare troppo. Citare Tenco, Bindi, Paoli, ok, ma il rischio è sempre il medesimo, confinare un’essenza universale che appartiene alla composizione a un feticcio, a un ologramma di convenzione. E invece Spaziale è, nel 2017, il rarissimo caso di una ballata che riesce a vivere oltre la necessità di fare didascalia di un tempo, che riflette il bagliore di ogni amore che si svela dopo il passaggio in una tempesta, non temendo i sintagmi senza tempo del pop italiano – quei “per fortuna che ci sei” o addirittura quei “tu, finalmente tu” che risvegliano ogni Fausto Leali, Gianni Bella o Max Pezzali che giace sepolto nel romanticismo nazionale, come un codice genetico.
Subito all’uscita di Graziosa utopia, Spaziale ha polarizzato l’attenzione di chi ascoltava, proiettando storie particolari di rapporto con la storia privata e professionale di Edda. Per qualcuno è stato il picco tanto atteso dopo un baratro e un oblio inconcepibile per un artista di tale talento, al punto che non ci vorrebbe troppa fantasia per visualizzare una metafora della musica in quella gratitudine tanto sincera che traspare dal ritornello (“è arrivato il nostro momento”). Per chi conosceva meno tanto il percorso in solitario di Edda, quanto l’esperienza con i Ritmo Tribale, è stato un modo placido e accogliente per avvicinarsi alle superfici scabre del suo non-narrare, per sentire lo stimolo ad aggirarsi tra i suoi spigoli, in particolare dopo i toni irti di Stavolta come mi ammazzerai?. A un livello onnicomprensivo, pur essendo Graziosa utopia un lavoro eccellente, graziato da un’accessibilità che non fa nemmeno uno sconto all’Edda più autentico, ho poche remore a riconoscere a Spaziale il suo ruolo di canzone-stella cometa nel 2017 della trap, del synth pop fessacchiotto e delle debacle clamorose di celeberrimi nomi del pop italico, ingabbiati da un electropop di confezione senza cuore.
Oggi, mentre scrivo, Spaziale è la canzone d’amore che nessuno ha voglia più di scrivere nel 2017. Sporca, faticosa, eterea, drammatica, disallineata, avvinghiante. Una canzone aliena, che è arrivata da chissà dove e che ha scelto straordinariamente bene dove palesarsi. Forse è la canzone dell’amore che si scopre tale, la sua essenza primaria. Pulsando di luce propria, ha attraversato i tempi come un anno luce, per andare a risiedere, almeno per un po’, in Edda. E lui, trasfigurato, propaga ancora una luce bellissima.
Un’altra canzone: Eri quello più speciale – T.S.O. di Colombre, 2017
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