
Inusitati cliché di Mezzanotte
Mezzanotte, il nuovo album di Ghemon, è decisamente fuori moda. Lo è in un modo, però, non conveniente, studiato, tattico. Non lo è, cioè, nella maniera in cui lo sono centinaia di proposte musicali passate in rassegna in questi mesi: farlocche virate al passato del pop italico, come una spolverata di zucchero a velo su un dolce inconsistente, masse senza sapore, mascherate con proclami identitari, che al primo soffio di vento sanno di identico e obsoleto (non sto qui a fare nomi, ma basta un’apnea di pochi minuti nel liquido amniotico delle Viral – Top 50 di Spotify per chiarire di quale materia parlo).
No. In modo ancora più nitido di Orchidee, anche Mezzanotte si inerpica su un ventaglio di soluzioni che il pubblico italiano – ma anche gli stessi artisti, in fondo – oggi ha qualche disponibilità in più a recepire, ma che nel corso degli ultimi vent’anni hanno attraversato un picco negativo di interesse, al punto che anche chi nel pop mainstream aveva tutte le qualità per vivere da protagonista di questo mondo gradualmente ne è scappato a gambe levate: è molto indicativa la parabola creativa di Giorgia, del suo interesse e progressivo allontanamento dalle influenze black, ma tracce di questa fuga di necessità si ritrovano anche in altri artisti mainstream, come Irene Grandi o Raf, senza contare persino un disco oscuro e bizzarro come Daniela è felice di Mietta che provò in modo esplicito ad abbracciare quelle soluzioni creative, con molti punti di interesse almeno sul piano sonoro, e che fu drasticamente gettato nell’oblio, al punto che oggi è totalmente fuori catalogo, impossibile da rintracciare anche sulle piattaforme streaming.
In questo pseudo-codice che attiene al cosiddetto “nu-soul” all’italiana, tanto per usare sintesi grossolane, oggi si muovono nuovi nomi come Shorty, Ainè, Mahmood, Serena Brancale; sono proposte artistiche che guardano tutte a ciò che Inghilterra e Stati Uniti esploravano nella seconda metà degli anni Novanta e che praticate soltanto un decennio fa sarebbero costate rognosi bollini da “rassegna jazz”, come se questa fosse una cosa deprecabile. Se oggi c’è un pubblico più disponibile è per tante ragioni, che meriterebbero un’analisi più ampia: certamente è, in piccolo, anche perché uno come Ghemon è andato in avanscoperta sul tema già da molti anni, anzi, proprio a questa mescolanza tra funk, soul, rap, R’n’B e persino acid jazz, si è coraggiosamente votato per compiere il suo processo delicato di emancipazione personale. Per iniziare a cantare prima, per vivere cantando poi.
Questa nuvola di suggestioni in Italia è durata poco, meno di un decennio, e comunque non abbastanza da strutturare esperienze artistiche solide abbastanza da non venire spazzate via al primo soffio autentico di vento. Che in questo caso ha proprio le fattezze del millennium bug, il 2000, cioè quando Tiziano Ferro piomba sul pop italiano con la sua personalissima e conturbante rivisitazione di Aaliyah, costringendo questi timidi esploratori del decennio precedente a rintanarsi al buio con le loro velleità funk-jazz alla Spyro Gyra, le lussuose pennellate di groove alla Mary J Blige, certe seduzioni alla Lisa Stansfield anni Novanta. In Italia il successo immediato e clamoroso di Tiziano costrinse tutti a uno spostamento drastico degli assi: sul beat spezzato, sulla frammentazione del flusso, e soprattutto su un’intimità dei versi disarmante. Basta farsi un giro nei Festival di Sanremo di quegli anni: prima nel 2001 Jenny B, poi nel 2003 addirittura Alexia, vincono entrambe la kermesse con due ballate (Semplice sai e Per dire di no) che permutano il groove funk con un’adesione al gospel, quasi fosse inevitabile per continuare a fare R’n’B senza sembrare d’improvviso obsoleti. Performance suggestiva, ma canzoni destinate a evaporare presto. Segnalo anche un giovane come Daniele Stefani, al Festival nel 2002 con una proposta non troppo distante da una sintesi tra il prima e il dopo Tiziano. Ma per quel ‘prima’, è già troppo tardi. Ormai è tempo di abbuffarsi di elettronica e mistero, di digerire Björk in chiave tricolore. Gli accordi tornano rapidamente monocromatici. Le melodie si allungano verso dimensioni stellari. C’è Elisa con Luce. Chi si suggestiona di jazz si mette a fare swing: Sergio Cammariere e Amalia Grè. Capitolo chiuso. Per il momento.
Riascoltando molto Mezzanotte di fianco a tutte queste proposte di quella manciata di anni mi pare che sia proprio Ghemon, dopo tutto questo tempo, ad aver elaborato la sintesi migliore tra ciò che era ‘soul’ prima del millennium bug e ciò che è diventato subito dopo. Anche perché qualche eco di Tiziano (chiaramente, del Tiziano che data fino a 111), in Mezzanotte, la si può sentire, ancora più che musicalmente, sul piano lirico. La si ascolta soprattutto sul piano dell’esposizione dell’intimità, nella spudorata brutalità del linguaggio con cui Ghemon esplora i passaggi di una storia terminata malamente e della relativa ricerca di una riaffermazione personale. valga per tutto il geniale coretto al grido di “fanculo-fanculo-fanculo” di “Dopo la medicina”, uno dei brani più felicemente drammatici.
Ma più di tutto, Ghemon sembra avere tutti gli strumenti e la consapevolezza artistica per sporcarsi le mani con qualcosa di altamente rischioso e sconsigliato ai praticanti al tempo odierno: l’armonia. Così Mezzanotte è, incalcolabilmente più di Orchidee, uno smisurato ricorso a costruzioni armoniche senza ritegno, bridge ricolmi di scambi jazzistici, divertiti coretti, accordi iper-alterati resuscitati da Wurlitzer di sostanza, interventi di chitarre wah-wah come il velluto. E poi una batteria viva, autentica, libera di spostare gli accenti senza bisogno di una programmazione elettronica che ne regoli i battiti. Dio, la musica!
Può darsi – anzi, sicuramente – che Tommaso Colliva in cabina di regia abbia dato il suo per raggiungere questo risultato sul piano acustico. Ma la produzione è strumentale all’intenzione, quando l’idea musicale è genuina, e Ghemon su questo solco lo sta testando da La rivincita dei buoni (“Penso a te”). Può darsi anche che tutte queste influenze siano molto più contemporanee di quanto io stia ipotizzando: e quindi il D’Angelo non di Brown Sugar ma di Black Messiah, Bilal, Childish Gambino, certo. E però si può anche per un attimo ipotizzare che la pulizia sonora dell’R’n’B di Ghemon, diciamo di un pezzo smagliante come “Siero buono”, più che con la granularità sintetica del trattamento che ne fanno queste icone black contemporanee, abbia più somiglianze con personaggi come Brand New Heavies o addirittura Galliano? Penso, in particolare, a pezzi come “Crying Water” dei primi o “Prince of Peace” dei secondi, stupendomi ancora di quanto l’ostracismo nei confronti di chi ascoltava questa musica oggi mi paia francamente esagerato, ingrato.
Intanto che certa stampa si dilunga con il topic più scontato ogni volta che Ghemon rilascia una nuova opera – la diatriba “è rap/non è rap”, su cui non serve spendere nemmeno una subordinata – leggo che qualcuno si sofferma invece su un’altra questione, forse più stimolante. In virtù dell’approccio ‘rap’ alla metrica cantata, c’è chi lamenta un certo stridore delle parole scritte da Ghemon su questa impostazione musicale. In sostanza, è come se la melodia ‘aumentasse il carico’ del verso, anche anche a livello figurato, come se ne appesantisse il passo rispetto a un’ipotesi di verso identico, sulla stessa base, ma ‘rappato’.
È vero, forse, ma è proprio il suo plus, il punto di interesse, l’asse su cui Ghemon, invece che ritrarsi, si espone al massimo rischio.
“La vita è il morso di un molosso come un cane corso”, arranca cantando Ghemon, masticando le allitterazioni mostrando tutta la difficoltà per cavalcare il ritmo in “Bellissimo”, un pezzo alla Irene Lamedica, irresistibile, e il meccanismo è proprio quello: volevate una strada credibile all’R’n’B italico, una che non passasse obbligatoriamente alle vaporizzazioni armoniche del pop jamesblakiano che pare obbligatorio oggi, e che nemmeno costringesse all’annichilimento linguistico della trap, in cui soggetto-verbo-complemento non si fa, cazzoziocherobaènoiparliamocosìevifacciamoilcu, ebbene eccola. L’italiano non è l’inglese? Come on, andiamo oltre. L’italiano stride sul solco black? Benissimo, allora sentite lo stridore, guardate come ci si naviga sopra, ci faccio surf, se voglio, questo sì, perché “sono stato rap prima di voi”.
Se Orchidee mi pareva un tributo neanche troppo celato a 107 elementi, l’album di Neffa e i Messaggeri della Dopa in cui lancinante era il desiderio di abbandonare una strada di ‘dovere’ e ‘ruolo’ (il rap) per seguirne una ‘del cuore’ (la melodia), Mezzanotte mi pare abbracciare amorosamente la strada musicale di Sotto effetto stono dei Sottotono, vale a dire l’amo più rilevante gettato dalla scena rap degli anni Novanta nel lago inesplorato della musica soul. Un album che ancora paga il crimine di essere stato troppo “stiloso”, di aver tralasciato con scioltezza l’urto della strada preferendogli del morbido “succo alla pera con gin”, soprattutto di essere finito in classifica (“Dimmi di sbagliato che c’è”, un pezzo tutto ‘baby’ e accordi di settima maggiore, glicemia pura per i puristi, stile pazzesco).
Tormento, rispetto ad altri coevi, è rimasto in una posizione discretamente nelle retrovie in questi anni. Eppure l’influenza della sua metrica, del suo groove resta costante. Persino Tiziano, tanto per chiudere un po’ di cerchi, gli ha in qualche modo dedicato una canzone di Il mestiere della vita, l’accorata e metatestuale “My Steelo”, costruita attorno a una sorta di flashback che data proprio agli anni di Sotto effetto stono.
Naturalmente Mezzanotte vale oltre la summa delle sue influenze: in fondo è, semplicemente, un esempio di come si possa creare musica avvolgente, autentica, anche urtante in un certo uso del proprio vissuto interiore, rigettando quelle due-tre regole che oggi paiono indiscutibili per proporsi sulla scena, e insieme non sfumare in radicalismi marginali. Mezzanotte è un disco felicemente suonato, in cui ci puoi sentire errori e rincorse, forzature e ‘cose che non convincono’ o ‘di cui si sarebbe potuto fare a meno’, tanto per usare l’idioma del (re)censore svogliato e con l’ansia da ritenzione di entusiasmo.
Invece mi ritrovo ad aver fame di Mezzanotte proprio grazie a queste imperfezioni, saturo di una canzonetta che ha già detto tutto quel che deve dire prima che termini il suo primo ascolto. Amo ascoltare Ghemon che sbaraglia acuti su versi luscious come “Se ti fisso un disco inizia a girare / Vorrei spogliare la tua fantasia / Stanotte dormi a casa mia”, amo soprattutto pensarlo proprio in relazione a queste influenze, immaginare che siano più deliberate di quanto si possa credere. Come se, per ottenere un certo sound “inusitato” (che meraviglioso termine, “inusitato”), a Ghemon era ben chiaro che occorreva fare spazio in soffitta e riaprire un vecchio armadio stipato in un angolo, sapendo che gli strumenti che conteneva (musicali e teorici) al suo interno, per quanto fuori moda, funzionavano ancora egregiamente, oltre il loro tempo. Ecco perché Mezzanotte è musica a un altro livello, oltre il suo tempo, senza il bisogno di rievocare un tempo per puro retaggio nostalgico o peggio per assenza di identità personale.
Mezzanotte è musica che respira.
Allora mi godo la pervasività del terzinato funky slow di “Magia nera”, lo ascolto partire come un D’Angelo del 1995 e mi lascio andare senza remore a “Fai come se”, un brano semisconosciuto della Giorgia ‘urban’ di Mangio troppa cioccolata, 1997, produzione Pino Daniele, voilà. Oppure mi abbandono alla pervasività di “Un temporale”, un ritornello ossessionante, da cui faccio fatica a staccarmi, godendomi in particolare il bridge in cui Ghemon stoppa la ritmica, lascia gorgheggiare il basso, e vi canta sopra qualcosa che, in termini di economia della playlist da Spotify, semplicemente non serve, allunga la trattazione, spiazza il contesto, e che invece è determinante, perché infonde al ritornello finale la sua epica effettiva, quella che puoi avere soltanto quando scrivi un bridge che ha senso di esistere, non un riempitivo di una ventina di secondi che ti dia il pretesto di rifare il ritornello per l’ennesima volta e raggiungere i tre minuti di lunghezza (qui i minuti sono quattro, ma anche perché la velocità è molto rilassata). Per arrivare a questo desiderato effetto finale, Ghemon passa da versi folli (“inusitato cliché”), umorali, estaticamente ricolmi di sensazioni olfattive e tattili, di movimenti pesanti come il groove a cui appartengono e di paesaggi uggiosi che dovranno scomparire, prima o poi. Chapeau.
L’inusitato cliché della mia confessione
Grasso e benzina incendiano l’aria
Puoi sentirne l’odore
La terra si muove
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