Come quando s’infilava tutti e tre nel lettone
Giornata d’inverno di Alessandro Fiori, da Questo dolce museo, 2012

A me il Supertelegattone non ha mai fatto terrore, sebbene il nostro incontro appartenga alla sua maturità anagrafica, quando della sigla cartoon non era rimasto che uno stropicciato frammento. Temevo molto di più quella specie di ibrido no gender tra disco ball e mezzo busto rotante, con le cuffione e il microfono che brillava, i labbroni scontornati in chroma-key, il sorriso inquietante da mimo. L’apparizione di lui/lei – tecnicamente una lei con la voce di un lui – era il momento dell’intero show che attendevo con il fiatone, ovvero: la lettura della classifica.
Per me, fino a quel momento bambino, il disc jockey era fatto così, una voce carica di effetto, un replicante da un punto sconosciuto della galassia, che mi diceva cosa ascoltava l’Italia, e quindi quali compact disc avrei dovuto chiedere ai miei genitori per il compleanno.
Poi c’era Seymandi, un volto rassicurante in carne ed ossa che interveniva da uno studio fluo ma amichevole. Parlava di Sorrisi e Canzoni, dove c’era la classifica completa e i testi delle canzoni della settimana, non più di 5/6 per volta. E poi ricordava che per gli amanti della musica c’era anche Tutto, che nome.
Ad Alessandro Fiori il Supertelegattone doveva agire invece come un baubau spaventoso, pretesto infantile per chiedere protezione e tepore a mamma e babbo. Ma Fiori parla con qualche anno in più di me, e quando lui ricorda la Superclassifica Show, il gattone era presenza pienamente narrativa, un cartoon dalle fattezze spavalde, che faceva parkour sui tetti delle città gongolando con le gattine in visibilio tra le indispensabili antenne di trasmissione. Quando i suoi baffi andavano “all’insuuuu-uuuu-uuuu-uuuu”, gli occhi diventavano grossi bersagli tondi dalle cromìe lisergiche. Anche se magari qualcuno maturò qualche fobia assurda per i felini, quel momento delirante era atteso da tutti. Cantato da tutti (noi).
La longevità della Superclassifica Show ha fatto sì che, anni di differenza a parte, il gattone sia rimasto per molti la chiave di accesso a una sensazione ben precisa, sfumata per sempre verso la fine dei Novanta. Un sentore di calore domestico, artisti piccoli e grandi che sembravano tutti stelle, canzoni con l’applauso nel mezzo e alla fine, settimanali da tenere sul mobile tv come guida, Fininvest, Fininvest, Fininvest prima della fase di voracità reality, e un’idea straordinariamente coercitiva che la felicità si ottenesse in funzione di quello che si acquistava, ma che poteva essere per tutti, nessuno escluso.
In Giornata d’inverno il Supertelegattone fa la sua comparsa alla fine, ed è la sua apparizione ad la forma di ancoraggio più definito a una temporalità precisa, mentre fino ad ora la progressione delle immagini ha pescato seguendo il flusso libero del verso tra il presente, il già stato e il possibile. È necessario che sia alla fine: fosse stato in apertura, avrebbe delimitato i confini di questa canzone-tributo nelle maglie della memoria (come ciò che, consapevolmente, ho appena tentato di fare).
Invece Giornata d’inverno non è un amarcord, ma una più semplice canzone di augurio, installata nel presente ma fondata tanto su ricordi quanto su associazioni, sulla creazione di spazi immaginari che però ci sono familiari.
La familiarità è soprattutto a livello sensoriale: il profumo dell’olio di canfora, l’odore del campo brinato, il sapore dei porcini, tanto freddo fuori e tanto caldo dentro. Bruma e camino, anche sul piano musicale, come dirò tra poco.
La percezione apre un varco spazio-temporale su un paesaggio dai contorni appena accennati, come un panorama di cui sono rimasti nitidi solo dei dettagli, ma che sento vicino, posso associarvi eventi banali, non legati a un dato preciso, persino ripetitivi: il campetto da calcio di periferia, la pattuglia in servizio al bordo della statale.
Queste impressioni dell’inverno hanno la forza di essere universali – ed è ciò che rende Giornata d’inverno una bolla di purezza. Perché l’appartamento con la tv accesa, il vasino, la gita di domenica, sono rievocazioni collettive, anche di chi non ha esattamente un ricordo o persino un vissuto di quel dettaglio.

A creare questa vicinanza sono la struttura, l’organizzazione dei versi, il suono, persino il giro armonico. C’è una circolarità che ricorda il carillon: in assenza di un ritornello vero e proprio, la strofa-matrice viene ripetuta tre volte, su un modello a quattro versi ma a tre frasi tematiche. Il terzo e il quarto verso insieme, in sostanza, occupano la stessa durata del primo o del secondo presi singolarmente, con l’armonia che rapidamente si riavvita sull’accordo di partenza. Un triangolo.
La dolcezza armonica di questo finale, che ha certamente una reminiscenza di ‘musica da camera’ (la formazione classica di Fiori è cruciale, almeno quanto la sensibilità verso la sperimentazione), è compensata da una dissonanza dell’arpeggio portante, quasi grunge. Questa ‘nota stonata’ rimanda direttamente al background stralunato e spesso debordante costituito dalla musica dei Mariposa, la band in cui Fiori ha militato per un decennio prima di aprire una intensa strada solista, di cui Questo dolce museo è probabilmente l’opera più accessibile, volendo anche nostalgica, se si riesce a non dare un valore sempre negativo al termine ‘nostalgia’.
È un piccolo disturbo che mi ricorda quei momenti di realismo quotidiano, con una punta di sarcasmo, ben dosata per non trasformare il suono di carillon in una nenia, e la cui esemplificazione diretta è la gita nella giornata di freddo “col vetro spaccato”.
Poi, dall’impressione, si passa al cuore intimo della canzone, nel dittico chiave che chiude la terza strofa:
sei partito con la mamma che sembrava un bambino
mentre diventavo adulto fermo sul vasino
Il verseggiare di Fiori è così lieve che fa pensare a suggestioni buttate lì, per come si presentano nella memoria. Eppure dietro questa naturalezza c’è un climax ben preciso: dopo ‘il paesaggio’, lo sguardo esterno, la focale stringe su un interno familiare che è fotografia di noi tre, su cosa siamo oggi. Il babbo raccoglie l’invito e parte in gita, con la madre, che pare tanto entusiasta “da sembrare un bambino”, mentre il figlio adulto osserva la scena in una condizione ‘da bambino’, appoggiato con tutto il peso di un corpo maturo su un simbolico vasino.
Amarezza, malinconica e sarcasmo in una sola, straordinaria coppia di versi, in serena rima baciata. La fotografia della presa di coscienza della trasformazione che l’età adulta impone, con tutta la sua crudeltà, a tutti quanti. Questa crudeltà del vedere i propri cari invecchiare mentre si compie un passaggio all’indietro, verso l’età infantile, e al contempo rendersi conto che, nonostante la declamata maturità, siamo rimasti attaccati a un’idea infantile di felicità, il Supertelegattone e il lettone, ebbene tutta questa crudeltà si dissolve nella tenerezza, grazie a un’intuizione che sarebbe opportuno chiamare com’è per non esserle ingrati: poesia.
Dopo la terza strofa, ecco l’unica variazione armonica: un tema breve, circolare anch’esso, ripetuto due volte, costruito attorno a due versi stringati cantati in salde minime (una scelta di grande classicità).

Il passaggio di testimone è ufficialmente sancito. In questo gioco di specchi ed evocazioni, il narratore finalmente cristallizza l’unico atto effettivo: il tributo alla figura paterna nel momento in cui accetta il complesso sistema di responsabilità e gioie dell’essere diventato padre. Andate pure, potrebbe dire ai genitori nella fase autunnale della loro esistenza, godetevi il tempo, il clima, parcheggiate pure dove volete senza pensieri (che oggi è domenica): a portare avanti la barca ci penso io.
Afferma Fiori in un’intervista: “Questo pezzo l’ho scritto per mio padre. Quando è diventato nonno a causa mia mi ha regalato una collana con un timone di metallo per pendaglio. L’ho trovato un bel pensiero (anche se avrei preferito un biglietto aereo per il Giappone) e l’ho voluto ringraziare con ‘Giornata d’inverno’”.
Il timone è un talismano: agisce come la torcia della staffetta, trasferisce l’intera esistenza genitoriale nell’immaginario semantico di una navigazione al largo, senza porre alcuna riserva. Che il giro armonico si esaurisca su se stesso, ritornando all’accordo maggiore di partenza (sul “rà” di “fer-me-rà”) è un’esemplificazione semplice ma di grande potenza espressiva del concetto in chiave musicale.
In una delle sequenze più disturbanti di Se mi lasci ti cancello (Eternal sunshine of the spotless mind, Michel Gondry, 2004), il personaggio interpretato da Jim Carrey si visualizza in fattezze adulte nel contesto domestico dei suoi anni infantili. Così Gondry, abile nel giocare con le proporzioni per come siamo abituati a percepirle, utilizza una forma di regressione per registrare – con poche immagini e senza scadere nel grave psicanalitico – l’incapacità dell’uomo maschio adulto di portarsi oltre quei condizionamenti che lo legano a meccanismi all’apparenza sepolti.
Altrove in Questo dolce museo Alessandro Fiori riesplora – come mai farà nella sua carriera – questo dibattersi tra il passato bambino e il presente adulto. In Il gusto di dormire in diagonale fotografa “il gusto di non andare a scuola / perché mamma guarda oggi / proprio non mi sento bene” e “il gusto di richiudersi / nel bagno della zia / «Alessandro noi stiamo andando via»”, ma la regressione è tinta di amarezza, nel suo confronto con il presente. Anche la copertina dell’album, che riporta il bimbo sorridente al mare con gli occhi strappati via, come fosse un manifesto violato, richiama un’idea di passaggio traumatico verso l’età adulta, o in alternativa di rievocazione faticosa dell’età infantile, intermittente, incompleta.
Giornata d’inverno è, al contrario, un esempio di pacificazione. Ha l’odore di una visita domenicale ai parenti anziani, un momento post-prandiale davanti al camino seduti su poltrone decennali, assorti in un silenzio carico di serenità, guardando i pupi che scorazzano nelle altre stanze, magari rincorrendo un gattone anziano che vuole solo essere lasciato in pace, e proiettando su loro immagini appena accennate, sospese in un sempre che non ha più traumi sulle spalle, con gli occhi densi di fierezza.
Un’altra canzone: Le poche cose preziose – Il demone meridiano di unòrsominòre
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