Uno stinco di suino
Felici ma trimoni di Caparezza, da Habemus Capa, 2006

Non esiste una canzone di Caparezza in cui Caparezza non giochi a vedere il mondo con la lente del personaggio Caparezza. Per essere più precisi, esistono decine di sue trasfigurazioni e, personificazioni più disparate, ma comunque si tratta di decalcomanie in cui ‘l’ebbrezza di una capa quando è rezza‘ è totalmente visibile, i connotati chiarissimi. Come le centinaia di versioni ufficiali ed apocrife di Bart Simpson che la Simpsonmania, nei primi anni Novanta, catapultò in ogni contesto.
Ecco, il trasformismo di Caparezza ha qualcosa a che fare con questa connotazione del carattere simpsoniano, dove il tratto della personalità è perenne e prevale sui differenti contesti in cui esso è inserito, vincendo l’invecchiamento del tempo, persino dilatandolo all’inverosimile, al punto in cui Capa è Capa a trent’anni, a quarant’anni e lo sarà anche ai cinquanta, forse, e ciò non creerà una sensazione di già visto o risaputo, perché in fondo di Capa non sapremo mai abbastanza, sempre camuffato e dissimulato com’è.
Habemus capa è l’album in cui Capa testa il modello narrativo che gli consentirà anche successivamente di far diventare il camouflage qualcosa di sistematico. Dopo essere morto, nel primo capitolo dell’album, lo spirito dell’artista di reincarna in una serie di personaggi, umani e animali, esistenti o fantastiosi, persino letterari, prima di rinascere come Capa nel papesco finale (che doveva essere un pezzo dedicato proprio al Papa, ma divenne altro).
Talvolta queste reincarnazioni sono a volte costruite per descrivere gli stessi tratti del personaggio parlante. In altri casi, servono invece a fornire un paio di occhi estranei per fotografare una realtà composita, articolata e genericamente orrorifica.
Dismesse sostanzialmente le vesti dello narratore interiore, è qui che si può scorgere un tratto saliente di Caparezza, quello che non affastella le parole per fornire angolazioni non comuni sul proprio riflesso personale, ma le calibra con una cura sovrumana per costruire un affresco dinamico. È, in sostanza, il Caparezza cinematografico, di cui Felici ma trimoni è uno degli esemplari più gustosamente tronfi, nel senso migliore del termine (L’opera tronfia è il titolo di uno dei tre ‘tomi’ in cui è diviso Saghe mentali, il libro contestuale e parallelo a Habemus capa).

Felici ma trimoni porta nel titolo uno dei caratteristici calembour del nostro, con il termine ‘matrimoni’ a includere ‘trimoni’, espressione al limite dell’intraducibile che in Puglia letteralmente fa riferimento alla ‘sega’, la masturbazione maschile, ma che in senso più largo è un epiteto offensivo ma talvolta usato in modo amichevole per dare a qualcuno del fesso, dell’imbecille o persino dell’ingenuotto.
L’ateo Caparezza si incarna in un sacerdote che riceve la visita di una coppia con l’intento di convolare a nozze. Il ‘curato di campagna’, decisamente concreto e pragmatico, inquadra subito la natura fetida del matrimonio per interesse, sfacciato e spendaccione. Un’unione di status, grottesca fin dalle premesse e volgare nella realizzazione. In barba a ogni compostezza liturgica, il prelato li sposa marchiando lui come “stinco di suino” e lei come “oca che starnazza dilapidando ricchezza in piazza”, per poi assistere al gorgoglio vomitevole della festa: un party-evento, fracassone e pseudo-vippeggiante, con lo sguardo ai fotografi e alle telecamere e “fuori più figuranti che in un film a tentare il log-in”, e la richiesta – “ciliegina gustosa” – della “chiesa chiusa come chiosa”. Mentre “passa la stampa”, il curato già profetizza la breve durata di questa unione, destinata a rimanere scritta “lo stesso tra mille storie di sesso sulle riviste che tengo nel cesso”. Per poi porre l’ardita domanda: “Ma perché vi coniugate, a che serve? Mica siete dei verbi!”.
Non c’è ovviamente nulla di spirituale in questa trasfigurazione Caparezziana: lo sdegno del curato è esclusivamente morale, e più che alludere allo svilimento del rito matrimoniale religioso, punta il dito dritto contro la sua strumentalizzazione pacchiana, nel nome del Dio denaro e della Dea fama. Non è esplicitato nel brano, ma è difficile non pensarci: questo orrendo rito con “il marito che fissava me, ma pensava alle ostriche del buffet” e la sposa che “sa di tequila dalla sera prima” pare una cartoonizzazione dell’Italia in pieno berlusconismo e sindrome da reality show, un universo che gradualmente si è scollato dalla realtà quotidiana provocando una strabiliante quanto suggestiva confusione dei piani tra i nessuno e i qualcuno. E quindi anche i riti matrimoniali, nel profondo Veneto come “Giuda me” (cioè nel mio Sud, come dice Capa, in un’altra velenosissima pantomima), sono diventati nauseabonde repliche televisive, condendo il tradizionale matrimonio di interesse con stili e linguaggi mutuati dalla para-fiction imperante, gusto preponderante nel 2006 (“Riprese da Elisa di Rivombrosa, scollatura scandalosa”).
In fondo il “politico” Capa più che prendere di mira i mezzi di comunicazione, tende a focalizzarsi più su come le persone li abbiano integrati e tradotti nella loro vita, come fosse una distorsione del modello sovra-imposto, una torsione catodica del brullo quotidiana (un tema esplorato anche in The auditels Family, sempre da Habemus Capa).
Pur tra i brani meno rivisitati della sua carriera, Felici ma trimoni è un bignami del Capa creatore di scenari e, in un senso più ampio, debitore della settima arte. Talvolta riprenderà anche solo uno di questi spunti, espandendolo e costruendone una variazione approfondita. Felici ma trimoni, invece, li condensa tutti, dando vita a un’epopea fragorosa e travolgente, naturalmente eccessiva.
C’è l’uso sciolto del discorso diretto associato a una caratterizzazione netta dei personaggio: una costruzione dialogica tra il teatro e il fumetto, due dimensioni che Caparezza trasporta in particolare dal vivo e che sono amplificate da un’altra sua inclinazione, ossia il ricorso alla storipiatura e alla deformazione della voce. Come a forzare le connotazioni morali dei suoi personaggi, Caparezza – sempre spalleggiato da Diego Perrone – fa un po’ la commedia dell’arte e un po’ i Looney Tunes, spingendo sempre sul grottesco e sul corrosivo.
Parlando di stilistica, Felici ma trimoni è anche un buon esempio della tendenza all’accumulo e al caos simbolico. Caparezza non è un artista di sottrazione: le sue costruzioni talvolta persino barocche vivono in funzione di una sovrapposizione rapida e debordante tra gli elementi, quasi una ricerca del baccano sempre declinata in chiave figurativa. L’orrendo rito coniugale di Felici ma trimoni, ad esempio, sta tra il Meridione grottesco del Pietro Germi di Sedotta e abbandonata e il balcanico-picaresco dell’Emir Kusturica di Gatto nero, gatto bianco, entrambi passati attraverso la mutazione genetica della warholiana tv dei signor nessuno portati in gloria.
Però accumulo e ridondanza operano anche a livello musicale. Il flow Caparezziano è uno scioglilingua irripetibile, qui spinto al massimo delle sue possibilità, tra omofonie, anglicismi e francesismi, spostamenti di accento, fonemi ribattuti (“Questi due no no, non li sposo-so è un matrimonio pericoloso-so”” e un certo gusto per le rime meno addolcite a disposizione nel nostro sillabario (starnazza/corazza), tanto per ribadire l’umore generale di natura “fecale”.
Un’altalena complicata che dialoga come in un flipper impazzito con il beat febbricitante, e che qui addirittura sfida l’onomateopea: aggrappandosi a velocità da drum’n’bass contaminate con improbabili echi ecclesiastici, tra campane tubolari e grossolane voci liriche, al beat si ordina di rincorrere la lingua triforcuta di Caparezza, raggiungendo il risultato di un ricercato fastidio sonoro, perfettamente in linea con l’immagine descritta:
“Parlo, ma la banda fa zan zan, nella piazza un gran tran tran
Ballano il can can. “La messa è finita andate a fan…””
Certo, Capa sa anche bene che una frase può colpire dritto se isolata, ripetuta, lasciata libera di riecheggiare. Pezzi come Eroe (Storia di Luigi delle Bicocche) o Goodbye Malinconia lavorano su questa dinamica, conseguentemente più epica. Ma la retorica del “puttanaio controllato”, per dirla volgarmente, è preponderante e inscindibile dal suo autore, un massimalista fiero nell’era in cui “togliere” diventerà passaggio obbligato per essere cool. È un discorso che vale tanto per le singole canzoni quanto per gli album nella loro interezza: Felici ma trimoni lo riassume e lo porta al parossismo. E, come in un Hollywood Party dove al posto di Hollywood c’è una sala ricevimenti della Brianza, il casino finale è disgustosamente irresistibile.
(nb.: Non esiste un video ufficiale di Felici ma trimoni. Ma un utente su youTube, come si faceva una volta, ha pensato bene di infarcirlo di celebrazioni e matrimoni ed EmiliFede e FlaviBriatore, ed il prodotto finale, rudimentale com’è, funziona).