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De Generatione: si aspetta sempre, il sole

Nel 2001 i La Crus pubblicano Crocevia, una raccolta di 13 cover di “classici” della canzone italiana, quasi tutti pescati tra i Sessanta e i Settanta. L’operazione creò contrasti: ci fu chi criticò la veste elettronica e notturna come metodo, sostenendo che in alcuni casi avesse creato effetti giudicati persino a un passo oltre il kitsch (la cover house di Via con me di Paolo Conte fu la più bersagliata); in tanti tuttavia – e mi inserisco in questa moltitudine, con grande adesione – restarono affascinati proprio da quell’approccio radicale e in un certo senso omogeneo.

Era come una ricerca scientifica: tracciare i collegamenti tra gli astri più disparati (da Alan Sorrenti a Giorgio Gaber ci passano galassie) al fine di ricreare quella costellazione originale e irripetibile che era stato “La Crus” nel decennio pre Duemila.

Dal 2001 e per almeno 6/7 anni la musica italiana piombò poi in un guado creativo. Oggi sappiamo dunque che Crocevia era un punto e capo, la chiusura di un periodo di grazia per la canzone “altra” italiana, quella che negli anni Novanta sembrò riscrivere tante regole e insieme incontrare il favore di un pubblico disponibile a cambiare regole. E sebbene i La Crus non fossero il progetto di maggior seguito numerico di questo movimento, erano certamente i “teorici” di riferimento: a Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti si deve un’abilità sincretica straordinaria, un punto di contatto tra il passato della nostra canzone e quei suoni che, in quel momento, odoravano di futuro.

Crocevia, riascoltato oggi, emana enciclopedia e visione, l’illusione di essere da sempre in un domani (che non esisteva, in realtà).

Nel 2017 Mauro Ermanno Giovanardi annuncia La mia generazione. Ancora 13 cover di canzoni provenienti proprio da quel decennio beato per la scena musicale italiana. Ancora una combinazione tra classici ormai conclamati (Non è per sempre degli Afterhours, Forma e sostanza dei C.S.I., Lieve dei Marlene Kuntz) e straordinari “segreti” (Il primo Dio dei Massimo Volume, Baby Dull degli Ustmamò). Per com’è ragionato il percorso di Giovanardi, c’è da scommettere che ci sia una precisa intenzione nel farlo adesso: adesso che in Italia si ridiscute – nel bene e nel malissimo – di indipendenza concreta e indipendenza come tag marketing, adesso che ci sono nuove generazioni di ascoltatori disposti a confrontarsi con musica ‘altra’, adesso che di figure come i Subsonica o i Bluvertigo si percepisce una Storia e non un Presente (affermazione opinabile, certo, perché Samuel o Morgan comunque sono attivi e stanno costruendo un percorso alternativo, ma quella modalità creativa lì, oggi, è Storia, una grande Storia, un po’ la stessa che si richiamava con nostalgia e un po’ di acredine dei Litfiba alla fine dei Novanta, mentre Perù e Renzulli si incarognivano lungo le traiettorie del pop da Festivalbar).

Di La mia generazione, in uscita a settembre, si può già ascoltare Aspettando il sole, che è anche il pezzo di apertura e in un certo senso è giusto così. Pubblicata nel 1996 dopo che Neffa aveva già vissuto l’esperienza hardcore dei Negazione e creato il più influente album rap italiano di sempre (SXM di Sangue Misto), Aspettando il sole è credo il brano che meglio esemplifica quello che era la percezione dell’Italia in quel momento.

Era la traccia impressionistica di un’inquietudine cronica, strutturale. La percezione cupa di una minaccia (il Duemila?) che filtrava e oscurava la luce, di fronte alla quale però l’io ancora non era disposto ad alzare le mani e dichiarare la resa, per quanto arduo fosse, nonostante la fatica fisica tangibile: “Cielo grigio piombo io non lascio che mi prenda”, i richiami al sole simili a una preghiera (“risplendi e scaldami”), in una sottotraccia quasi spiritualistica, gospel. Questa inquietudine la ascoltavi nelle hit da classifica (ricordo Missing degli Everything But The Girl nel remix di Todd Terry, il più triste successo da ballare mai sfornato forse), come nella pop music da Festivalbar (Carboni, Masini, e perché no un certo Pezzali). Certamente quella generazione di nuovi autori se ne fece carico e la ribaltò, incanalandola in un flusso creativo dove insieme all’angoscia ci fosse l’urto.

Chissà se è anche per questo che Giovanardi rifà Neffa accentuandone una sepolta dimensione blues, con armonica e andamento imponente, quasi grave, anche se il blues, però, a tutti gli effetti era già dentro il Neffa hip hop, già da Sangue Misto, in modo piuttosto consistente. Aspettando il sole nel 2017 è un tripudio di steel guitar e giochi vocali da Mississippi Delta, un arco fantastico e insieme filologico dal rap alle origini, coerente e armonico in termini stilistici e fascinoso sul piano estetico. Un’altra revisione che fa sembrare il Passato al di sopra del tempo, sottolineandone la sua capacità di essere strumento universale per leggere il Presente e il Futuro. Aspettando il sole questo è, in fondo: un ‘classico’ totale, perché esiste al di sopra del tempo, e sempre (r)esisterà.

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