Le poche cose preziose
Il demone meridiano di unòrsominòre, da Una valle che brucia, 2017

Un paesaggio annichilito, tendini che non tengono, energie polverizzate. Degrado, sfacelo, desolazione, distruzione colta mentre si propaga. Una valle che brucia, come Una valle che brucia: titolo, decisamente dichiarativo, del corposo ritorno dopo una lunga pausa di unòrsominòre, moniker di Emiliano Merlin.
Un autore in qualche modo antico, inchiodato alle ripetizioni di versi e alle omofonie, ai racconti marginali di anarchici in libera resistenza e a quelli di soldati che vanno alla guerra.
Ma anche con i piedi ben saldi nell’oggi, nell’imbruttimento irreversibile rinsaldato dai canali di comunicazione, nell’ipocrisia delle icone, nella dittatura del cinismo mascherato da ironia a tutti i costi. Per questo, facilmente poco in linea con la moda del tempo, percepito come ispido al popolo dell’hype webe-comandato della seconda metà degli anni Dieci.
È facile capire perché.
“Non c’è niente da rivalutare / nel vuoto pneumatico / e nell’oroscopo de “L’Internazionale”” declama ad esempio, imperturbabile, in un pezzo che si chiama Pezzali, e che gli è valso una cospicua denigrazione da parte dei fan di Max Pezzali, o comunque di una serie di figure ben indisposte a leggere oltre l’apparenza delle parole, cioè un nucleo decisamente rappresentativo dei pavloviani da tastiera che oggi rappresentano la maggioranza non silenziosa della società (“Però Pezzali continua a far cagare / e Pasolini lasciatelo stare”).
Pezzali è una canzone incisa cinque anni prima, ma inclusa oggi in Analisi logica, un Ep pubblicato in simultanea a Una valle che brucia che vi si lega come una sorta di appendice velenosa ed elettrica. Insieme album ed Ep fanno 70 minuti di musica non annunciati, piombati dal nulla, la traccia di un’evoluzione che in qualche modo non vuole compiersi, in cui unòrsominòre non sembra aver levigato la sua ruvidezza.
Sono canzoni dense, talvolta pachidermiche, a tratti difficili da digerire nella loro interezza, mai compiacenti, scarne, gonfie di riferimenti, artistici, letterari e politici, neppure sempre espliciti, qualche volta indecifrabili. Un monstrum carico, eppure, di una disperata necessità di verità, di constatare l’impossibilità di riconoscersi un paesaggio in cui imperano la miseria culturale e ideologica.

Affresco difficile da leggere se non nella sua interezza, Una valle che brucia è paradossalmente anche un album in cui le canzoni paiono riflessioni autonome come racconti brevi, talvolta imbrigliati a scheletri narrativi definiti (Canzone di Alekos, Uomini contro), inframezzate da flussi più liberi e magmatici (Fare meno / Fare meglio), quasi bozze di appunti deliberatamente lasciati incompleti a creare scontri sensoriali. A fare emergere, soprattutto, una dicotomia problematica, totalmente coerente col quadro complessivo: un non riconoscersi più nel paesaggio circostante, e insieme un non voler arrendersi alla contemplazione sterile, lasciando che la rabbia, all’occorrenza, esploda pomposa, come in alcune devastanti divagazioni noise che emergono dal fondo tra un passo lugubre e un canto quasi monastico.
Intitolata come il romanzo “ultra-restauratore” di Paul Bourget pubblicato nel 1914 e come l’omonimo esordio letterario di Andrea Morstabilini del 2016 (ed. Il Saggiatore), Il demone meridiano è la canzone che apre Una valle che brucia e, credo, uno dei brani che meglio ne rappresenta la disposizione d’animo di cui ho appena detto.
Musicalmente è una ballata lenta ed elementare, piano basso e batteria, velocità sotto i 64 bpm, di una semplicità disarmante, di suono cristallino e soprattutto di silenzio, un silenzio splendente di religiosità, in cui è evidente anche la traccia sonora della produzione di Fabio De Min dei Non Voglio che Clara.
La costruzione musicale traspira richiami piuttosto evidenti al Dalla di Com’è profondo il mare ma soprattutto al Rino Gaetano di Tu, forse non essenzialmente tu, nell’armonia e nella prosodia. Al modo di altre canzoni di unòrsominòre, è un guscio ridotto ai minimi termini per consentire ai versi di richeggiare in libertà, quasi agissero ciascuno in isolamento. Sono riflessioni accatastate, numerose, non necessariamente legate eppure generalmente respingenti. Pensieri articolati e disarticolati, giunti e disgiunti tra loro, secondo procedimenti legati alla poesia, o persino alla messa in poesia di una prosa. Più che sprigionare associazioni di idee all’interno dei versi stessi, unòrsominòre sembra crearle dall’accostamento – o dallo scontro – di essi: per questa ragione, forse, suonano come sequenze di fendenti inflitti a un corpo già in dissanguamento.
È un tempo perfetto per vivere da idioti
che fortuna, anche stavolta, nessun connazionale tra i feriti
e passiamo allo sport
È come se ciò che rimane fosse il frutto di un processo di disidratazione progressiva di un flusso di coscienza. Alla fine, tolte le connessioni sintattiche, i soggetti e i predicati, i “lei disse” e gli “io credo”, rimangono poche parole di eccezionale sovraccarico di significato: il luogocomunismo, il frastuono mediatico, la negatività come assunto fondante, il patriottismo d’accatto per celare il cinismo, per cui ad esempio l’assenza di vittime italiane in una tragedia “declassa” automaticamente la rilevanza della tragedia stessa (dentro quell’“e passiamo allo sport”, di fatto, c’è tutta la crudeltà di una scaletta del male spacciata per palinsesto).

Così lavora, unòrsominòre, in questa sua consolidata modalità di osservazione in solitaria del mondo, pasoliniana per tratto genetico – e l’aggettivo pasoliniano, in abuso da quasi mezzo secolo, è qui obbligatorio, visto che è lo stesso unòrsominòre ad attingervi a piene mani e in forma dichiarata per la successiva Hubris, o preghiera del senza Dio.
La citazione “alta” è peraltro parte del discorso: lo è nei richiami diretti nei titoli, nelle figure rievocate, nei ‘numi tutelari’. Ma lo è anche nelle scelte musicali: Una valle che brucia respira i C.S.I. di La terra, la guerra, una questione privata e i primi album di Le luci della centrale elettrica, certe viscere di Manuel Agnelli e certe astrazioni di Cristiano Godano, certi attriti di Giorgio Canali e Rossofuoco, e certi intimismi dei primi La Crus. In realtà, forse l’eco più strutturalmente radicata è quella dell’Ivano Fossati degli anni Novanta, tra Discanto e La disciplina della terra. E non solo perché Merlin lo cita direttamente, ribaltandolo (“Ciao, signor colonnello / che c’hai il cappello per comandare / vai a cagare te e il tuo cappello / vai all’inferno e non ritornare” in Uomini contro è un rovesciamento esplicito del “Signor colonnello” a cui si appella il migrante-narratore in Pane e coraggio).
Fossati infatti trasuda nel modo stesso di scrivere: nelle anafore, nelle variazioni delle rime, nelle ripetizioni con minime variazioni sillabiche e lessicali che gli consentono di espandere i significati dei versi pur innestandosi su strutture della canzone quasi arcaiche.
Di quel Fossati unòrsominòre sembra mutuare anche l’atteggiamento anche in termini filosofici, in due aspetti. Intanto, il restare laterali rispetto agli eventi, mantenendo un punto di vista schivo ed eremitico (o monastico?), nelle certezza che questo modo di osservare le cose da lontano consenta letture più lucide di quanto accade. E poi c’è una forma di materialismo sobrio, non privo di un sarcasmo gelido, che a un’emotività che agisce di istinto oppone una spiritualità “pura”, in contrasto con una religiosità d’accatto, pagana e opportunistica (“Io sono devoto alla logica”, cantò Fossati in Iubilaeum Bolero, da La disciplina della terra). Questa dimensione religiosa, per forza eremitica, in unòrsominòre esplode, senza risparmiarsi fiamme e veleni, in versi caustici e carichi.
la pubblicità è l’anima del brutto Iddio
il Papa è molto santo e condanna la droga e la tortura
il Papa condanna la mafia la guerra la povertà
e la gente lo applaude
la gente lo applaude
Solo che quella una certa pietas presente in Fossati, in unòrsominòre è come avvizzita, ridotta a simulacro degli ultimi stracci di umanità che un singolo, in pieno atto di sfiducia nel mondo, può ricordarsi di possedere.
E allora così si potrebbe leggere il concetto più radicale di questa canzone apocalittica: negare l’amore al bambino di oggi in quanto egli sarà l’adulto di domani, “mostro” del domani. Un punto di vista in qualche modo estremo, iper–razionale, negazione di uno degli assunti fondanti della società civile: la sospensione del giudizio nei confronti dell’infanzia, come “scevra” di ogni bruttura che verrà costruita a seguire, di ogni sovrastruttura.

Se questi bambini incubano la formazione fornita da quegli adulti per i quali oggi non si può provare che orrore, è vero anche che quegli adulti, in ogni caso, siamo io e tu, interlocutore generico, oppure alter ego sentimentale. Tu che comprendi come questo nichilismo sia imprescindibile, oggi, e che pure ti illudi e decidi di stare in qualche modo al gioco (“tu nascondi e proteggi le poche cose preziose / prima che tutto di noi deluda le attese”).
E allora, pur coscienti di questa tragica verità che è la presenza del seme del male in ogni creatura, si sta al gioco:
e tornare a sorridere guardando i bambini
dimenticare che diventeranno mostri
dimenticare che son figli vostri
Perché il nichilismo di unòrsominòre non è compiuto, le sue canzoni alla fine documentano tutte la fiammella ancora accesa nel più remoto dei cunicoli delle catacombe: il gesto resistente, seppur isolato, è ancora possibile. E può essere, come Il demone meridiano conferma, anche una semplice resistenza “affettiva” a quel processo di inaridimento irreversibile a cui assistiamo e di cui siamo attori protagonisti, al contempo. Qualcosa di molto diverso, seppur speculare, dal disorientamento pro attivo di un album come A casa tutto bene di Brunori Sas, proprio per la sua natura possibilista destinato a creare collante tra i delusi della società civile e a rendersi manifesto trasversale (seppur non intenzionale, forse).
Una valle che brucia sta da tutt’altra parte, nel non riconciliabile e nell’irrisolto, sebbene al suo interno l’uomo non abbia smesso di sentirsi tale. Sta fuori dalla casa, appunto, in una prateria senza punti fermi, edifici, tettoie, paraventi. Senza esseri umani e senza rifugi. Un paesaggio arido e sfocato dal sole battente, rinsecchito e arso dalle fiamme onnipresenti e invisibili di ciò a cui stiamo assistendo, magari da reporter illusi di esserne osservatori esterni (“la vita ci ha sfiorato distratti / pause pranzo, foto digitali / commenti tutti uguali”). In mezzo al niente, una figura cupa e china, le fattezze podoliche e montanare, il grugno inscrutabile, la cute spessa, la Storia nei geni come scudo. È l’immagine che sintetizza perfettamente l’album e forse la poetica di questo autore scostante e strabiliante insieme, e non a caso è la sua copertina. Lontano dal branco, che sfuma in lontananza, destinato per sua scelta all’autoconsunzione, il bisonte solitario è lì, protetto proprio dal suo isolamento, appesantito ma ancora in grado ancora di marciare. Tra le rovine, in mezzo a una valle che brucia, e chissà quando il rogo si estinguerà.
Un’altra canzone: 867 – Augh di Mara Redeghieri
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