Anema sventurata c’a purpetta avvelenata
Ballata dell’ipocondria (o del vibrione innamorato) di Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro, da “Canti, ballate e ipocondrie d’ammore”, 2016

In quel sottobosco ricolmo di vegetazione che è la musica popolare contemporanea, olisticamente intesa, Canio Loguercio svetta da oltre vent’anni come una figura iconica, talmente peculiare da sfuggire alle definizioni per sua natura.
Performer con un passato da discografico (fonda, nei primi anni 90, la label indipendente Officina), Loguercio si muove radicalmente tra i generi e le forme espressive, alternando rock e rap, videoarte e letterature, teatro e “talkin‘ verace” (definizione di Federico Vacalebre, Il mattino).
Lucano di nascita, Loguercio ha affinato un suo personale napoletano, in anarchica intermittenza fedele quanto fantastico, per accompagnare le sue sbilenche litanie d’”ammore”. Una strada che da qualche anno si è intrecciata a quella di Alessandro D’Alessandro, organettista di riconosciuto talento e di gusto eclettico: un suono che emana una costante tensione verso forme ibride, distorte e mediate, in cui la tecnologia contamina il canone, e una “giaculatoria” può suonare come un inno posse.
Viene fuori un canzoniere che è “un fitto intrico di umori popolari, quindi antichi, ma da un’ottica per così dire post-moderna” (scrive Bazzurro su Musica Jazz). Naturalmente concepito per le “sedute dal vivo”, il repertorio è stato raccolto nel 2017 in Canti, ballate e ipocondrie d’ammore, un altro degli eccellenti progetti intermediali che rappresentano una delle molte strade di frontiera messe a punto dall’editore Squilibri da qualche anno – e che, diciamocelo, conferma come il supporto fisico oggi possa avere ancora una sua ragion d’essere, se la confezione trasuda cura professionale e sostanza editoriale, e non è solo un abbellimento da scaffale. È un album lunare, riassunto esemplarmente dal suo titolo. È anche graziato da un suggestivo iperrealismo della registrazione, al punto che ci si può sentire il suono del tasto che si solleva e il fiato scuro del canto-parlato di Loguercio, come se l’obiettivo fosse restituire nel modo più genuino possibile tutta la ‘verità’ della performance dal vivo.

Loguercio e D’Alessandro hanno guadagnato, durante il 2017, una certa dose di (inaspettata?) notorietà quando il Club Tenco li ha candidati alle Targhe nella categoria “Album in dialetto”, vinta, e persino in quella di “miglior canzone”, insieme a Baustelle, Brunori Sas, Michele Gazich ed Ermal Meta. Un accostamento che ha qualcosa di straniante, e che lascia un pizzico di amaro in bocca per il tempo estremamente ridotto fatto intercorrere dalle candidature alla proclamazione dei vincitori. A che serve, il Club, se non a dare riconoscibilità più ampia proprio a figure come Gazich o Loguercio? E come farlo se non comunicando questi nomi, dando loro il tempo per ingenerare curiosità, seminare “follower” nelle lande del gusto italico altrimenti inaccessibili?
La canzone individuata dal Club è stata la “Ballata del vibrione innamorato”, che compare in apertura e chiusura dei Canti, in due versioni intitolate pt.1 e pt. 2, come Shine On Your Crazy Diamond su Wish You Were Here o Ma il cielo è sempre più blu. Non è un brano ‘falciato’ in due, in realtà, ma una sorta di canovaccio (la prima parte) esploso ed espanso nella seconda. Nella prima versione la canzone mantiene la veste produttiva che contraddistingue l’intero album: è spoglia ed essenziale, fedele allo standard sonoro che il duo ha proposto nelle esibizioni in giro per l’Italia. Ma è la seconda versione che esalta l’intera costruzione di senso scombinando le aspettative e facendole deragliare. Qui si scatena il “putiferio”, prima di tutto ritmico: a sostenere il tutto, la pulsante tammorra di Nando Citarella, geneticamente modificata con un beat da Napoli Wave di fine millennio.
Con una prosodia che profuma addirittura di rap, il narratore si rivolge alla “Maronna addulurata” chiedendo che si faccia carico della sua “malatia”, portata da un “vibrione innamorato”. È un morbo che l’ha contagiato trasformandolo in un inquieto “vermiciello”, un mezzo zombie, “anema purgata” simile a quelle che popolano il Cimitero delle Fontanelle. Il “presentimento” è che questo batterio sia stato volutamente inoculato, come si farebbe al criceto di un esperimento, da qualcuno che “m’ha miso ll’uocchie ’ncuollo”. Chissà che non sia proprio un falso amico, forse un “munaciello” che continua a ripetere grottesche anglo-frasi rassicuranti (“keep calm stai sereno”, “hastag stai sereno”).
Seguendo un meccanismo comune agli altri brani, l’amore viene trasfigurato in una chiave patologica, dove patologia va intesa in un senso “arcaico”: è un contagio, la “puntura” di un essere animale, che trasuda insidia e fetore. Ma la mente cosciente elabora un’idea più sofisticata: e se fosse questo stesso atto dell’innamorarsi un qualcosa che “subiamo” come per l’intervento di una serie di sovrastrutture? Se oltre la tenerezza strampalata dell’immagine di un “vibrione innamorato” si celasse una presa di coscienza stordita, perché drogata, della dimensione “costruita” del sentimento nel nostro vivere contemporaneo? In fondo qui di popolare (e qui intendo il termine secondo la sua visione stereotipata, erronea poiché incapace di vedere il popolare “in linea col tempo”) non c’è molto: virus, contagi, malattie, zombi, contaminazione, avvelenamenti da un lato, con i numi e il sacro – la Maronna – dall’altro. Un affresco caotico che sa tanto di prefiche in processione quanto di fantascienza chimica.

E infatti, e un po’ a sorpresa, Ballata è in realtà una canzone Sci-Fi, un tripudio di fantasie visive deliranti innescate da un supposto complotto all’eroe. In questo senso è determinante il video che accompagna la canzone. Firmato dal videoartista Antonello Matarazzo, al lavoro con Loguercio da un decennio, è una delle visioni inserite nel Dvd che accompagna il libro-album e intitolate Apocondrie digitali, un nuovo corto circuito tra tecnica e canone, una tagline usa il neologismo ibrido di Pino Daniele (l’appocundria) per ricollegarsi al titolo del lavoro.
Soprattutto, è quanto di più lontano da “un accessorio” quanto piuttosto un “canale espanso di fruizione”.
Matarazzo contestualizza l’azione proprio in un gelido set da fantascienza Sanità-style. Insieme al suo fido D’Alessandro, truccato come un clown sotto Xanax, l’emaciato cantore diventa una cavia da laboratorio, mentre inquietanti “aneme pezzentelle” senza volto danzano una irresistibile tammurriata elettrificata. E forse anche perché tutto è sempre scena, in un’introduzione narrativa, a interpretare i caratteri salienti della canzone – la preghiera, il traditore, il disperato – compaiono Maria Pia De Vito, Rocco Papaleo e Peppe Servillo.
Il risultato è irresistibile, vischioso, una specie di surreale musical, tra claustrofobia e paganesimo, distopia e processione, in cui perdersi tra ritualità ossessive e allitterazioni vertiginose (“Strisciava nterra o vermiciello, chella creatura murticella e salmonella”). In ogni caso, una tragedia, perché (afferma Canio Loguercio a Blogfoolk) non c’è malattia più disastrosa della “paura dell’amore: dell’innamoramento oppure della morte dell’amore”.