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Le tovaglie degli altri

Paracadute di Giorgio Poi, da Fa niente, 2017

Giorgio Poi - Tubature

Prima di tutto, Giorgio Poi è un suono.

Un suono che ha qualcosa di compatto, come se aggredendolo da una qualsiasi angolazione non lo si riuscisse a scalfire, cementato com’è.

Eppure è un suono per nulla monolitico: piuttosto, emana la consistenza che può avere un liquido a effervescenza continua, con il basso che galoppa su ogni singola battuta scandagliandone ogni interstizio concesso, la batteria discreta ma tintinnante, la chitarra che sembra trasmettere da una vecchia ricetrasmittente costantemente al limite della sintonizzazione.

Wild Nothing, Real Estate, Pond, Tame Impala, Ivan Graziani, Mac DeMarco, Lucio Battisti, I Cani, Vampire Weekend, Piero Ciampi. Ci si può sentire tutto e di tutto, e al contempo non sentirci nulla più che una rarefatta reminiscenza: questo suono, almeno in Italia, è unico.

È una pasta ritmico-armonica essenziale che vive in funzione della sua voce: tagliante ma non urticante, acuta senza essere prevaricante, da non bollare erroneamente come una “vocina”, un timbro dalle possibilità limitate. Poi parte sempre in profilo basso, dinoccolato, al punto che sembra che al timbro ‘manchi corpo’: lascia che sia lo scheletro sonoro a invadere gli spazi, a fornire un colore ben preciso, tra la discrezione e lo zompettìo, fino al punto in cui comincia ad innalzarsi, in percorsi vocali che altrove finirebbero in un falsetto.

Diversi mesi dopo il primo ascolto di Fa niente, l’album di esordio di Giorgio Poi, questa voce sembra rafforzare l’idea che sia metafora di uno sforzo, l’affannosa ricerca della qualità degli eventi in un vivere sempre più avvizzito.

In una narrativa largamente sentimentale, le canzoni di Fa niente, omogenee eppure mai ripetitive, sembrano una sinfonia privata del “tenere duro nonostante tutto”. Se la relazione amorosa fosse un filo, la voce di Giorgio Poi starebbe lì a documentarne la tensione intermittente: si tende, si tende, si tende fino a rasentare timbriche quasi infantili, ma non si spezza. Senza tragi-patetiche esibizioni di eroismo, si rifugia in un understatement che cela una fiducia irreprensibile nelle potenzialità dello slancio amoroso, ma che all’esterno appare come un singulto.

Poi_paracadute

“La bocca è il nascondiglio più sicuro / Per un malumore / Quello che non ci si dice /Si cerca di ingoiare”: così in Acqua minerale Poi visualizza le frustrazioni di un dialogo coniugale che si sfilaccia, e sembra cantarlo proprio da un ipotetico interno esofageo, con la tensione che preme verso il basso e la voce che intanto diventa sempre più nasale, come a tenere tutto il negativo in testa, a non fargli invadere il sangue.

Il suo esiguo ma già nitido canzoniere sembra muoversi tra momenti secondari, fotografie intermedie, di quelle che si scartano o si tengono sepolte negli album degli smartphone perché tanto ce n’è una migliore che è stata scelta per rappresentarlo quel momento, che si è beccata i filtri gli hashtag esatti il conto delle visualizzazioni eccetera. I versi sono composti da scatti mossi, tentativi falliti, ricordi appannati ai quali non si è dato un peso. Sono dei Fa niente, come il titolo dell’album.

La canzone più rappresentativa di questo umore è anche la più ‘diversa’ nella tracklist: posizionata nel centro esatto del discorso (e, nei live, in apertura), Paracadute rallenta il ritmo e amplifica, se possibile, gli effetti sonori, fino a raggiungere una dimensione ‘cosmica’, che subito evoca una sensazione di solitudine.

Dove in Fa niente il racconto contempla sempre la presenza della figura femminile, in questo caso è come se ci si ritrovasse in una grande stanza buia e vuota con un faretto puntato sulla testa.

È una canzone a flusso libero, in cui i versi si polverizzano nell’aria, più che convogliare su un ritornello. Tutto è discendente: l’armonia, un giro fisso a quattro accordi, ciascuno di grado sempre inferiore al precedente; la linea melodica, con il canto che, invertendo la rotta, parte dalle note più alte e va a concludersi sempre verso il registro più basso; la struttura stessa della canzone, ad imbuto, un vortice lento verso un finale che collassa, rimpicciolendo fisicamente l’intera canzone (che alla discesa fa riferimento fin dal titolo).

Questo movimento è l’ideale per lo sviluppo del testo, in una simbiosi tra musica e parole di grande effetto. Paracadute accumula una serie di azioni che vanno a vuoto, di quelle che si compiono quando ci si dimena in solitudine consci di trovarsi in una situazione disagevole.

Ho comprato una sveglia,

ma non mi serve

tanto non ho niente da fare

e allora l’ho buttata via.

Buttare via, andarsene, inscenare sparizioni (“Ho cambiato cuscino ma non mi trovo, trovami tu”, il gioco di parole per ribaltare l’archetipo del “E ti vengo a cercare”). Tutto per ottenere un’attenzione che non arriverà. Sorge il dubbio che l’io stia compiendo una serie di gesti sottilmente autolesionisti in modo consapevole, già sapendo che avranno vani effetti, se non controproducenti. In questo canto dell’apparente petulare, ci si legge persino una punta di infantilismo: “Così impari”, esclama Poi dopo aver comprato una macchina friggitrice e averci buttato dentro i brutti pensieri.

A scorrere i nomi, faccio fatica a trovare affini autori italiani contemporanei che riescano a muoversi in modo così vivido all’interno di questa forma di indolenza. Messi via tutti i narratori legati a un immaginario del vittorioso e della leadership, resta chi sfoga la solitudine in un sardonico livore disperante o la sublima con il sarcasmo (vedi, rispettivamente, Calcutta e Dente, per citare due affinità possibili). Invece Giorgio Poi fluttua, facendo leva sulla dolcezza dell’armonia e la malinconia del paesaggio acustico per rendere tutto in qualche modo cosmico, esistenziale. Se non ci fosse questo materasso musicale versi come questi – in cui l’io si impantana nell’idea che all’altro le cose vadano sempre meglio – risulterebbero appesantiti:

I sogni degli altri

che noia mortale doverli ascoltare

i miei

non li racconto mai.

Nella debacle di un’idea aurea del sentimento sono gli oggetti a svolgere un ruolo determinante.

In Paracadute compaiono sveglie, dentifrici, macchine friggitrici, dove in Fa niente ci sono tombini, tubature, ruggine e Super Attack. Tutti hanno una consistenza molto materica, che però non è sensuale o attraente. È la loro ordinaria natura inorganica. Come una parete: finché non la si tocca avvicinandosi, non si pensa nemmeno che essa stessa è materia, è solida, ha una rugosità specifica, una temperatura.

L’oggettistica è più di un vezzo: è come se Poi si esprimesse attraverso un ordinario non poetico, ma nemmeno urtante; piuttosto, sembra attratto dai significati segreti di questo campionario industriale, che smonta e combina attraverso sostituzioni, ossimori e altri giochi retorici (le “bambole del gas” e i “cereali auricolari” di Tubature, i “chilometri di filo interverbale” in Niente di strano).

Frame dal video di "Tubature"
Frame dal video di "Tubature"

Una natura morta del Ventesimo Secolo composta da relitti che possono risultare anaffettivi, ma che acquistano un enorme valore se solo li si vuole guardare alla luce del proprio stato d’animo del momento. Quell’amore per la vita che ci si aspetta che passi – in una visione letteraria – attraverso le piccole cose, qui si scontra con l’ostilità degli cose, l’aridità degli spazi. E allora gli oggetti non evocano nulla, sono solo oggetti: constatarlo è avvilente.

I frammenti del quotidiano, che generalmente nel versare di Poi servono a riequilibrare i rimpalli di una relazione, si trasformano in piccoli grandi incubi nella dimensione della solitudine. Alcuni passaggi di Paracadute rivelano una dimensione di beffardo horror:

E sono andato a mangiare

ma il cuoco è ubriaco

e il cameriere è una spia

Mi ha portato lische d’acciuga gratin

Nella sequenza cardine della canzone, l’io cantante va in un ristorante, probabilmente forzandosi nel contatto con l’esterno. Rivelata la “fregatura”, i personaggi diventano esseri deformi, esasperati: il cuoco “ubriaco”, il cameriere “spia” che porta beffardo un piatto di “lische d’acciuga gratin” sembrano accompagnati da una risata rimbombante e claustrofobica. Il punto di non ritorno è nelle richiesta, prima attribuita a un generico interlocutore, forse la lei che non c’è più, poi personalizzata nella figura del cameriere, di “lavare le tovaglie degli altri”.

Si arriva così al nadir del collo dell’imbuto: abbandonata ogni resistenza contro lo sconforto, l’io tramuta l’immagine che ha costruito di se stesso in un essere accessorio, una figura di contorno a cui non si fa caso – come appunto un oggetto del quotidiano, una tappezzeria. Intanto, la vita la fanno gli altri: campioni del consolatorio di circostanza, gente che proclama stili di vita esplorando i sentimenti con le cinture allacciate, silhouette anonime che si perdono nel risibile scontato del rincorrersi, perdersi, innamorarsi, stupirsi, lasciarsi.

Un senso di isolamento esistenziale che si può far risalire a Il mare d’inverno: “Mare, mare / Qui non viene mai nessuno a trascinarmi via”. A suggerire la parentela interiore sembra essere lo stesso Poi, che della canzone di Loredana Bertè scritta da Ruggeri/Schiavone, fornisce una cover live che ne accentua l’anima scabra, senza perdere intensità.

Nel fornire la loro riflessione di circostanza, questi antagonisti normali pretendono di pontificare il salto nel vuoto dell’amore col paracadute, un “mezzo sicuro per sorvolare il futuro”. Da cui l’io ora solo e roso deduce che, se il sogno è questo, una nuotata in mare aperto dove si tocca sempre, se questo è il massimo del possibile investimento sentimentale, “tanto vale farselo raccontare”. Che beffa per chi ha scelto di stare fuori dall’ingranaggio, buttandosi nel vuoto a capofitto, credendoci, a questo slancio eroico, questa fuga cinematografica, una volta di più (“Domani andiamo a vivere sul mare / su palafitte a forma di astronave”, Tubature).

Allora Paracadute non può che concludersi con un fuck you all, che però non ha il ruggito sistemico del punk o il portato sociale del rap. “Che si fottano sempre”, finale e insieme fondo della canzone, è un mormorio ripetuto, come avendo la testa girata, a non farsi sentire; “di più”, la sentenza finale, ha ormai la consistenza del rumore di fondo, mentre la musica si assesta al centro, inizia a galleggiare nel nero siderale. Invece che impennare, collassa su se stessa, eliminando tutte le luci di contorno: lui, al centro e al buio, non lo riusciamo più ad ascoltare, è solo un lamento chitarristico, di enorme malinconia. Il suo atto di rivolta gli si è attorcigliato contro. Non c’è nulla da compatire. Domani passa, dice. Un altro patatrac, un bicchiere di acqua minerale per questo rospo da ingoiare, e non ci sarà più nessuna traccia. Come sempre, fa niente, fa niente.

Vabbè, ok, fa niente, ma non è vero.

Giorgio Poi Paracadute

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