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Sparate al dottore

Le voci di Cosmo, da L’ultima festa, 2016

Cosmo - L'ultima festa

“Le allucinazioni sono delle percezioni immaginarie, quelle più comuni sono di tipo uditivo: la persona sente delle voci immaginarie che danno, alla persona che le sente, comandi o fanno commenti sulla persona stessa, oppure parlano tra di loro” (fonte: Sun Napoli – Facoltà di Medicina).

Non solo la psichiatria ha studiato le “allucinazioni uditive”. Oliver Sacks in Musicofilia ha descritto, tra gli altri, i casi di soggetti dalla spiccata sensibilità musicale che a un certo punto della loro esistenza subiscono gravi danni o perdono del tutto l’udito, e che cominciano a sentire della musica, più o meno gradevole, non prodotta da alcune fonte fisica.

Sacks le chiama “allucinazioni musicali”:

“Vista la sordità della signora C., la parte uditiva del suo cervello, deprivata delle consuete afferenze, aveva cominciato a generare per proprio conto un’attività spontanea che assumeva la forma di allucinazioni musicali, principalmente ricordi musicali della sua giovinezza. Il cervello ha bisogno di rimanere incessantemente attivo e se non riceve la sua consueta stimolazione, uditiva o visiva che sia, se la crea da sé sotto forma di allucinazioni” (Oliver Sacks, Musicofilia, Adelphi, Milano, 2007).

Oliver Sacks, copertina della prima edizione di "Musicofilia"
Oliver Sacks, copertina della prima edizione di "Musicofilia"

Nella traccia che apre il suo L’ultima festa e ne definisce il colore, Le voci che chiamano Cosmo diventano elementi costitutivi della sua essenza, non sconosciuti: “le mie fantasie”, piaceri seppelliti in comparti stagni, icone del tempo buttato via senza impegni o doveri (“la tv”), languori sessuali o alimentari (le “porcherie”, i “sogni inconfessabili”), che assumono una visualizzazione naturale (“il profondo del mare”). Nulla di estraneo, ma più qualcosa di consueto. Un chiodo fisso che è lì anche se lo si evita, associato a una leggera sensazione di libertà.

Come un film che si apre su una sequenza onirica, come 8 e ½ di Federico Fellini, la canzone comincia con il ritornello, l’evocazione del “sento le voci” in una dimensione sospesa a mezz’aria, prima di approdare al realismo della strofa. Cosmo invoca un dottore, ma non perché sia diventato consapevole di questa forma allucinatoria. Al contrario, con quell’acume sarcastico un po’ sbruffone che gli è congeniale, informa che “c’è un ragazzo che muore affogato nella palude / del nazionalpopolare”. Chiede di essere salvato, anzi no, “sto scherzando / era così per dire / lasciamo stare”. Nel caso aveste frainteso, nel caso mi vogliate piantare una morale, una solfa micidiale, ve lo dico chiaramente: “Lasciamo stare”.

Esprime uno stato di insoddisfazione, camuffato dietro ciò che sa che conviene fare per mantenere il quieto vivere. Quel “nazional-popolare” allude certamente a una nuova vita nel rispetto dei canoni: un ambiente familiare, un’agenda giornaliera basata sui doveri. Ma sul fondo si cela anche un’ironica presa di distanza dall’artista Cosmo, che in L’ultima festa ha abbracciato soluzioni sonore potenzialmente rivolte a un pubblico molto più ampio di quanto accadeva nel suo primo lavoro solista, Disordine.

Sembra che diventato adulto il protagonista si sia dovuto rassegnare a uno stile di vita più morigerato, che offre comunque possibilità, momenti di serenità apparente: “Passo giornate a suonare”, dice, e allude certamente alla dimensione ‘laptop’ della musica sintetica che produce, pienamente realizzabile in un contesto come la camera di casa propria, trasformata in studio.

“Ogni tanto vedo gli amici”, specifica, con quell‘ogni tanto che rivela, senza troppa fatica, la forzatura. E di fatto si tradisce subito: “Non vado nemmeno più in bici / ho la gomma a terra da sei mesi”. Un’immagine di disfacimento, di imbolsimento da sprofondamento nel divano, di scazzo da notte insonne. E poi un vivere nel rimpianto, nell’ansia del tempo che passa in fretta, in una sorta di afa dell’anima, dove l’ossigeno sembra mancare: “È stato il luglio più caldo della mia vita / l’estate passa in fondo son contento sia finita”.

È una fotografia vigorosa ma non impietosa di cosa può significare scegliere di metter su comunque famiglia nel 2016, nel mare magnum del precariato e del prolungamento delle tappe vitali. Da un lato ci sono le iperstimolazioni della vita ‘lì fuori’, le serate in giro, il casino notturno, la necessità di affermare in ogni caso la propria indisponibilità al conformarsi per ribadire la vita che scorre dentro il proprio sangue (“se c’è un limite lo voglio spostare più in là” canta in L’ultima festa, pronto a sfidare metaforicamente la morte, per rispondere alla minaccia della fine, alla censura dell’ebbrezza – “mi sa che chiudono il locale”).

Su un altro fronte emerge il terrore di aderire a un modello sociale che è stato indiscutibile nel nostro Paese, un cronoprogramma anagrafico che dura da decenni, se non secoli, per cui dopo i 30 si ‘mette la testa a posto’; qualcosa che è si è tradotto, quasi sempre, nel rinunciare alle aspirazioni del singolo, impostare la propria giornata sulle esigenze di terzi (i figli, i parenti, il datore di lavoro), tramutarsi in ‘couch potato’ per non guardarsi allo specchio.

Un’idea di modello, per carità, che è certamente frutto di una generalizzazione, ma che in una serie di generazioni anagrafiche deve aver prodotto un ologramma inquietante, forse più della realtà. Al punto che spaventa a morte. Al punto che è diventato difficile, per se stessi prima di tutto, capire se i passi non compiuti restano non attuati per consapevole determinazione o per paura, una paura persino sovrastimata rispetto alla sostanza.

Questo è il terreno perfetto in cui le “allucinazioni” possono generarsi, le voci tornare a chiamare, persino a livello acustico.

La strofa di Le voci è costruita su un paesaggio sonoro ‘basico’, dove i suoni sono pochi e non riverberati, quasi domestici. Nel ritornello, invece, il tutto sembra amplificato da una sorta di brezza sonora che accompagna i versi che descrivono queste ‘voci’, un fruscio quasi oceanico, a far da sfondo a una linea melodica che sa di cantilena, costruita su sole due note.

Anche la voce muta. Nella strofa assume un tono dimesso, quasi stesse ammettendo a testa bassa il suo stato davanti a qualcuno. Quando canta “non mi lamento affatto” trasuda una scarsa convinzione, quasi avesse un groppone nella gola. Nel ritornello, invece, la voce inizia a fluttuare, si carica di effetti, si sdoppia, come se fosse regolata da un canto di sirene, creando persino dissonanze. Dove in Disordine i suoni sintetici sembravano allagare lo spettro sonoro, fin quasi a far dissolvere la voce, in L’ultima festa la gerarchia viene ribaltata. È come se Cosmo avesse finalmente scoperto la palette espressiva che gli consente il cantare in italiano. E godendone, se la gode.

Eppure la voce, ad un certo punto, si eclissa totalmente, lasciando spazio a qualcosa di magico, che sa di enorme innovazione di struttura nella canzone italiana, compresa quella che con i ritmi dance ha sempre flirtato, anche molto bene (diciamo Subsonica o Jovanotti). Dopo il primo blocco ritornello-strofa-ritornello un’onda digitale trasferisce il discorso verso un piano puramente sonoro.

Nelle battute iniziali il ritmo permane saldo, mentre arpeggi di marimba in terzine (suonate cioè a cicli di tre note, in controtempo rispetto al ritmo principale) sembrano descrivere un tragitto acquatico verso un’altra dimensione, quasi cullando il protagonista, trasportandolo in una forma semicosciente. Un torrente, più che un sentiero. Una ripresa di suoni già sperimentati con i Drink to me, la band in cui Cosmo ha esordito.

In una seconda fase scompaiono i vibrafoni e si accede a un antro puramente minimal house, oscuro, notturno, dove i suoni perdono connotazione armonica e profumano di perdita di contatto col reale. Con un po’ d’immaginazione, sembrano riprodurre quella sensazione di spaesamento misto a euforia che si prova percorrendo gli spazi di transito che portano dall’ingresso di un club al dancefloor principale.

A questo punto tutto si polverizza, in pochi attimi di silenzio. La voce bassa di Cosmo, come un bisbiglio nell’orecchio, annuncia “Senti questa”. È un ‘a parte’, un espediente teatrale per uscire dal narrazione e attirare, in maniera diretta, l’attenzione del pubblico. Sto parlando a te, ascolta bene, qui c’è il punto, guarda cosa so fare, cosa sto per fare. Gli ‘a parte’ sono ordinari nel rap e nell’hip hop, che sono linguaggi ego-riversi, costruiti a partire dalla presenza fisica, in carne e nome proprio, ribadita dell’autore del flow. Nella canzone italiana più classica sono invece rarissimi, percepiti come una violazione del rigido sistema campo-controcampo descritto.

Cosmo usa il “senti questa” per sottolineare l’ingresso in uno stadio subcosciente, puramente musicale. Il ritmo si fa convulso, più vicino a un’idea nevrotica di dubstep che alla house, l’armonia è assente, i sintetizzatori stridono metallici. Sembra, appunto, una convulsione nervosa, un impeto di energia portata al suo estremo (“il cuore mi scoppia / picchia e mi porta su”, sempre da L’ultima festa). Un momento stroboscopico di grandissimo effetto, che proietta Cosmo su un sound dal respiro realmente internazionale, ma che è ‘eccezionale’, in senso letterale, perché profondamente narrativo. Un modo di leggere la canzone, finalmente, considerando le parole e la musica come unità altrettanto espressive (un’applicazione pratica della composizione musicale, se vogliamo progressive, decisamente rara nel 2016).

È un frammento che quasi si desidererebbe durasse di più, fino a quando non si ha più cognizione del tempo, e che infatti nella dimensione live è in grado di innescare un sabba chimico. Su disco viene interrotto da un altro stop improvviso, che ci ricatapulta nella realtà col fiatone. E infatti ascoltiamo il fiato di Cosmo, come se si fosse appena svegliato da un (altro) sogno a occhi aperti, in uno stato ipnotico; un colpo di tosse, poi, come a volersi scusare davanti a qualcuno dello sprofondamento sensoriale appena concessosi. Come un ragazzino colto sul pieno di una seduta masturbatoria di enorme piacere.

Cosmo_copertina

La seconda strofa, introdotta sul silenzio, riparte con una richiesta, sempre rivolta al potenziale assistente medico: “Sparate al dottore”. Lasciate perdere i tentativi di cura, di normalizzazione, di interpretazione clinica della propria vita, di lettura delle proprie ‘allucinazioni’ dell’anima, come fossero patologie. Cosmo è consapevole della propria decisione, che cela dietro un finto distacco, che può sembrare snob (“non ho proprio il tempo / di pensare a guarire), ma è piuttosto di un materialismo squisitamente contemporaneo, se non nordico.

Dichiara Cosmo a Rockit:

“Non c’è tempo per le seghe mentali quando devi cambiare un pannolino, mordere il culetto di un bebè o sopportarlo piangere, o quando devi sederti sul divano con lui e fingere che stai salendo su un aereo o andare al parco e via dicendo. Lì pensi davvero che molte paranoie ‘sono tutte cazzate’.”

E allora Cosmo si autodetermina, in piena ‘violazione degli standard’. Si sveglia “ancora senza sveglia”, celebra questo inadeguarsi a mezzogiorno e mezzo stappando una bottiglia, un brindisi. Piuttosto che perdere la ‘voglia’, questa forza preziosissima che è, di base, l’idea che abbiamo di libertà, mette in gioco la morte (“fosse anche l’ultimo giorno della mia vita / speriamo passi prima che la voglia sia finita”). Un rafforzamento del concetto chiave di L’ultima festa, dove “sfidare la morte” piuttosto che accettare la simbolica fine della nottata.

Bisogna evitare di cedere a un facile moralismo, chiedendosi come si faccia a essere “uomini adulti” e padri responsabili secondo questo approccio; al contempo, è banale ridurre tutto a un ribellismo fine a se stesso, dominato da una scontata sindrome di Peter Pan. Le voci è ben più complesso nella rappresentazione del dubbio, del tentennamento, del dualismo interiore. Le voci è il racconto di una immersione subcosciente consapevole, ricercata nel momento in cui il ruolo sociale minaccia la normalizzazione. Fuori-dentro-fuori: per ricordarsi che essere liberi significa ricordarsi che è possibile essere liberi. Un trip, certo, ma di quelli illuminanti.

Il video musicale che accompagna il brano rafforza il concetto. Contestualizza in modo esplicito il contesto familiare a cui fa riferimento la strofa, e allo stesso tempo visualizza il delirio sub-ipnotico della sezione centrale in una serie di gesti riot, bevute, sesso, fuoco, danza sconnessa, tutto però a velocità incredibilmente rallentata, come a voler dilatare il più possibile un momento che passerà rapidissimo, consapevolmente. Cosmo ha una giacca vagamente circense, e ruota vorticosamente reggendo in mano un fuoco d’artificio che sembra una bottiglia incendiaria, tra l’antagonismo e il demoniaco, mentre le riprese lo inquadrano tramite un processo di picture-in-picture, cioè di immagine sovrapposta ad un’altra che la incornicia. Un persino troppo esplicito segnale di sdoppiamento, di visione della situazione da angolazioni opposte, che però produce un interessante effetto di frantumazione e scollamento (od osservazione) del sé.

Nel video c’è anche una nota curiosa, che moltiplica le letture. Quando Cosmo annuncia la sezione centrale, il “senti questa”, è rivolto direttamente al bambino che tiene in braccio, in un rapido ma essenziale fotogramma. Sul viso, un sorriso sardonico. Sembra un tenero sfoggio dell’abilità paterna, può essere una dedica. In fondo, vai a vedere che “in realtà qui non è niente male” davvero, e questo è come deve essere.

“Ti ha cercato tuo padre / ti voleva parlare” dice Cosmo in Dicembre, uno dei suoi (diversi) brani in cui ci sono figli e genitori. Chissà che Le voci altro non sia che un filmino amatoriale da mostrare al pupo con orgoglio tra qualche anno: la battaglia dell’anima. Per te.

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