Quando fai la spesa cosa comperi?
“Buon appetito” di Dente, da L’amore non è bello, 2009

I primi due album di Giuseppe Peveri in arte Dente, Anice in bocca e Non c’è due senza te, sono costruiti attorno a pochissimi strumenti, un rarissimo uso di percussioni, un rifiuto dell’enfasi della complessità dell’arrangiamento quasi categorico.
L’esiguità di mezzi utilizzata in chiave espressiva: in effetti, a riascoltarli oggi, nei due album sento una profonda volontà dissonante, quasi ebbra, l’equivalente sonoro di una cena organizzata nel tinello sozzo e incasinato di una casa di fuorisede. Canzoni forse scomode, in senso di benessere più che politico, ma seducenti.
Il terzo album di Dente, L’amore non è bello, conserva l’impostazione introversa degli esordi – ripetizioni ridotte all’osso, ritornelli accennati, canzoni bonsai – ma applicando per la prima volta strati di “produzione”. Sono suggestioni musicali, seppur caute, che risentono anche del determinante apporto di Enrico Gabrielli e Gianluca De Rubertis, due jolly della scena del Ventennio, puntualmente abili nel fornire ‘preziosità’ alle trame spesso essenziali di molti ‘nuovi autori’.
E così, arricchito dal loro contributo, finalmente Dente può delineare i confini del suo salotto sonoro. Una stanza in cui le gigantografie alle pareti (Lucio Battisti, Sergio Endrigo, Ivan Graziani, Francesco De Gregori) non sono fondali secondari o ardite rielaborazioni concettuali, ma piuttosto statue a grandezza naturale alle quali quasi sostituirsi, a intermittenza. Così che il debito nei confronti di questi grandi non è mai mancanza di ispirazione, ma interpretazione su traccia precisa, senza senso di colpa, né trionfalismi da omaggio. Anche perché, quale che sia la citazione e l’intensità della sua presenza, la canzone di Dente sarà comunque più piccola, meno esplosiva, “più minima”, una Canzoncina, per citarlo direttamente.
La gigantografia di riferimento in L’amore non è bello è Lucio Battisti, l’effigie più grande. Posizionata a mo’ di porta d’accesso: l’album comincia con le battute di batteria di “La presunta santità di Irene”, le stesse di “Abbracciala, abbracciali, abbracciati”, e prima di cantare Dente lascia sfilare un corposo corteo di fiati in riverbero. Più che una carezza, il puntamento verso Anima Latina (“il disco dell’isola deserta”, lo chiamerà in un’intervista) è un abbraccio caloroso, un invito a mettersi comodi: da qui in avanti, se sentite folate di Mogol-Battisti, non arricciate il naso, non credetela pretenziosità. È un binario scelto, con una naturalezza che rende l’intero album un gioiellino di equilibrio. In questo essere così esplicito, Dente sfonda anche un ulteriore portone: oggi moltissimi autori, anche piuttosto giovani, attingono senza rimorsi all’immaginario Mogol-Battisti, ma nel 2009 l’auto-attribuzione non è così scontata, né indolore.
In questo ipotetico monolocale con cucina a vista che è L’amore non è bello, la più palese delle riattribuzioni sembra essere “Buon appetito”, che diventa subito un classico da bis nei live del Peveri. Il dato non va sottovalutato: in una discografia come quella di Dente, folta seppur fatta di molte canzoni ‘accennate’, è difficile scegliere un picco, perché è raro che l’autore lavori per far spiccare qualcosa. Le canzoni sfumano l’una nell’altra, le armonie si assomigliano e si richiamano, il tono della voce è omogeneo. E allora, almeno fino a un certo punto, i suoi fan si sono scelti delle canzoni da ‘cucirsi’ addosso, magari le più decifrabili, almeno rispetto alle altre (molte, in verità) che sembrano solo bozze di qualcosa, o minuti oggetti enigmatici.
In questo movimento ondivago, senza estremizzazioni, Dente sembra orientarsi tra due ‘maschere’. La prima è quella ironica, persino paracula, quasi sbruffona nel suo sfiorare un sentimentalismo da piumone Ikea (“Vieni a vivere”, “Quel Mazzolino”), ma decisamente accattivante. L’altra è quella più intima, anche amareggiata, generalmente riversa su se stessa. Le due anime tendono a combinarsi, mentre sono poche le volte in cui ci si polarizza nettamente verso uno dei due stati, uno dei quali è certamente “Buon appetito“.
La stanza in cui ci si muove è disadorna: la chitarra acustica suona gli accordi con incombenza, la batteria incalza funerea, la voce è raddoppiata, espediente che utilizza spesso, come se questo dialogo con se stesso l’avesse già ascoltato mille volte; è anche leggermente fuori tono, come amava già fare in Anice in bocca.
L’uomo cerca di convincersi di essere oltre andato oltre lei, in una sorta di self training, ma chiaramente ci crede pochissimo:
Sapessi che felicità mi da
l’idea di non vederti più,
l’idea di non fidarmi più
qualsiasi cosa mi dirai.
Più che astio, la musica sembra suggerire una ripetitività nauseante, un ritorno costante al punto di partenza, che è un mesto accordo minore. Come quasi ovunque in Dente non c’è un ritornello, ma solo una breve variazione armonica costruita sulla coppia di versi che chiudono la strofa: “Ho messo le mani in tasca / ed ho sputato sulla tavola”, associato a un ‘tanti saluti’, “Buon appetito amore mio”. Questa stizza ha i connotati della parvenza di superiorità, ma in realtà è ammissione stessa della vulnerabilità, quell’amore mio che suona come una condanna, non riesco comunque a smettere di chiamarti così, e finché sarà così, questa pesantezza continuerà a infierire ciclicamente, senza interruzione, uguale a se stessa. Forse, più che non riuscire ad andare oltre, non voglio riuscire.
Può suonare patetico affermarlo, se lo si guarda con cinismo, ma a me pare tutto piuttosto in linea con quanto accade a una precisa generazione, smontata nella fiducia in una qualsivoglia giustizia sociale, delusa da ambizioni forse troppo stridenti, circondata da mesi di inviti fantasmatici alla ‘sostenibilità’ e alla ‘resilienza’ (grande recessione economica=2008), ma non troppo giovane da essersi formata alla scuola del materialismo. Un gruppo di persone meno visibili ma ancora aggrappate a un’idea illusoria, quasi nostalgica, del sentimento, che pubblicamente rifuggono con un cinismo esibito sui social network, frontalmente simpatico (per il quale ipotizziamo il successo della metà ‘sarcastica’ del Dente), ma che camuffa un’atroce verità: sanno di soccombere. E allora, c’è chi preferisce questo itinerario arbitrario nella sofferenza rispetto a forme di riscatto da training autogeno, attività di counseling, o semplici cambiamenti radicali tanto di moda alla fine dei Novanta. Un disastro, in pratica.
A tradurre, in modo quasi eccezionale, questo ‘vuoto di volontà’ è una strana sezione tra la seconda e la terza e ultima strofa, una sorta di stasi da ‘space-rock’, dove suoni vagano come particelle isolate in uno spazio desolato. Viene alla mente il pre-ritornello di “Space Oddity“, con il countdown che prepara al lancio spaziale, solo che qui non si va da nessuna parte; anzi, si ritorna nell’ossessione, nel giro armonico che si rifà su se stesso, finché la traccia, estenuata da se stessa, sfuma.
Quando fai la spesa cosa comperi?
Di che colore hai colorato i mobili?
Vorrei non sapere più nemmeno dove abiti
Il blocco finale è anche quello dove si palesa, evidentemente, il debito con l’effigie Battisti, quasi ‘appendendovisi’. Le tre richieste finali, poste in forma di domanda ossessiva, spostano il discorso dall’analisi del sé al domestico quotidiano degli anni in corso: il colore degli arredi, la topografia troppo ridotta delle nostre città, il “non sapere più nemmeno dove abiti”, la spesa.
È un farsi del male funesto aggrappato a Gesù Lucio, a quel dannato ricordo dello “spingere il carrello sotto braccio a te” (“Perché no“), alla ricerca di un “Monolocale” con un letto vero per stare con lei.
Addirittura, emerge il calco, lo stampo, il progetto architettonico di “E penso a te”.
Nella struttura: la canzone di Battisti non ha un vero e proprio ritornello e si avvita sulla strofa, salvo una variazione in maggiore (“Buon appetito“ non ha nemmeno il bridge, ma solo, appunto, il già detto ‘space-vuoto’).
Nel giro armonico: entrambe sono costruite su un giro da 4 accordi, i primi 3 armonicamente identici, l’ultimo una settima maggiore per Battisti, la sua relativa minore per Dente.
Nella confidenzialità intimista della voce, di cui abbiamo ampiamente detto per Dente, e che è la marca sonora più evidente in “E penso a te“, così lampante da lasciare ancora attoniti oggi per la sua ‘verità’, come se Lucio fosse davvero lì, seduto con il suo pensiero martellante, davanti a noi.
E poi: il concetto di ossessione. L’affastellarsi di voci in sovrapposizione sul finale. Il giro su “pa-pa-ra-pa-ra” che corre una decina di volte in Battisti; il giro su “E quando fai la spesa cosa comperi”, allo stesso modo, che si ripete una dozzina di volte, con Dente che sul finale, addirittura, si lascia scappare un breve gioco vocale che cita evidentemente “E penso a te”.
L’impossibilità di smettere, tornando al punto di partenza. La solitudine. L’autoconvincimento che diventa ossessione isterica.

“Buon appetito” è diventato un classico di questo decennio poiché espone questo esemplare di uomo umanamente uomo nella sua assoluta, quasi straordinaria veridicità dell’essere solo, inconsolabile, triste in modo quasi irritante. Perché non illude con una salvezza, che tanto non ci sarà. Perché ha il fegato di prendere il filo di speranza che Mogol sentiva ancora, nel 1970, nel sapere che entrambi si stavano cercando, e assottigliarlo fino a farne sparire la materia. Poi, chiaramente, ci sono le maschere piccolo borghesi, le scappatelle “Da Varese a quel Paese”, l’invito a fare “centoventi bambini”, i faffaraffa faffafa, inevitabili per sminuire, persino smontare questo squarcio di mestizia. È forse proprio ciò che rende empatico questo “Buon appetito“. La sensazione, per qualche sfuggente minuto, di aver colto l’essenza del preciso tormento di alcuni, oggi, anno 2009.
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