
Forever di Francesco Bianconi – recensione per FilmTv
Certi uomini troppo allungati sull’asse della vita, certe sagome spigolose il mondo le osserva e reputa sempre tese in una condizione iper fragile, destinata a frantumarsi di continuo. E invece è proprio quella sottigliezza insolita in una società steroidea a farli danzare al di sopra di ogni catastrofe, lasciandoli brillare di grazia.
Per questi individui coscienti della loro condizione di minoranza, un disco come Forever, l’esordio solista di Francesco Bianconi, può sprigionare i colori di un’apparizione improvvisa ed emolliente. Perché le tensioni melodiche di Bianconi, ieratiche e insieme drammatiche, riescono a irradiare l’intera gamma emotiva del loro stare al mondo, dondolando tra ambizioni simil-classiche e improvvise furie metriche che suonano come ansia di comunicare, tra l’asciuttezza di un quadro sonoro da cui traspare la ricerca di un terapeutico isolamento e versi in cui la solitudine pare mostrarsi in tutto il suo disperato orrore.
Bianconi ha portato alle estreme conseguenze quel processo di spoliazione già nitido in certe maglie dei due volumi baustelliani L’amore e la violenza (“Ragazzina”, “Veronica n. 2”), arrivando alla carne viva di una scrittura che vibra anche schermandosi in alter ego letterari (“L’abisso”) o, addirittura, trasfigurando lo stesso italiano, dissolto in intere canzoni in inglese (“The Strenght”) o in porzioni come di un semi-recital (“Andante”, massaggiata dal timbro dolente di Rufus Wainwright), ma anche in una fuga araba piazzata lì proprio in mezzo alla scaletta, nella più lunga traccia del set (“Fàika Llìl Wnhàr”, affidata a Hindi Zahra): segni di un altrove in cui disciogliersi come tracce di una nuova coscienza del sé.
Se proprio si vuole cercare una parentela, la mente corre a Come un cammello in una grondaia di Franco Battiato, l’album di “Povera Patria” e dei lieder di Brahms e Wagner, privato della batteria e delle ritmiche pop e immerso nel placido intimismo del quartetto d’archi. Forever ha un fascino acustico simile: due pianoforti, l’organo, il Balanescu Quartet, un colore della voce registrata mai così liturgico, mai così caldo. Un disco radicalmente inadatto per questo tempo che però non potrebbe che originarsi dalla materia del tempo presente; cantate nude di chi alla persistenza fetida dei “paraggi della morte” e dei “discografici morti” frappone la brutale verità dell’amore, del bene così rivelatore da non voler essere svelato, del sesso che è compresenza di origine e fine: “Io so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare”, canta in “Certi uomini” che chiude, leggiadro e disperante, con uno dei versi più illuminanti del suo intero canzoniere: “Perché io vivo perché ho voglia di morire”. Così abbagliante da rilucere forever.
Articolo apparso su Muzik, FilmTV, n. 28/2020