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Ferro – il documentario – recensione per FilmTv

Nei versi stracolmi di un’emotività generosa e spesso furibonda anche sul piano della metrica musicale, Tiziano Ferro ha incarnato più di qualsiasi altra star mainstream l’era del confessionale pubblico e della convergenza esplosiva tra persona e personaggio, di cui si nutrono sia l’estetica hip hop (una sua influenza) che lo storytelling dell’era digitale, che si parli di musica, web o tv. Il suo impatto sul nostro costume è enorme e scavalca la dimensione musicale, della quale è comunque un innovatore: TZN ha convertito in hit dimensioni un tempo inconcepibili per l’ascolto popolare, come la paura della nostra complessità interiore; dal suo canzoniere, prima e dopo lo storico coming out a Vanity Fair nel 2011, emerge una fotografia perfetta della nostra ipertrofia auto-narrativa. 

Ferro, in esclusiva per Amazon Prime, va letto come un altro passaggio di questo percorso nel privato che ingloba l’opera artistica e ne diventa un tutt’uno, rilevante almeno quanto la sua autobiografia 30 anni e una chiacchierata con papà, tuttora un bestseller. Non è un documentario che tenta di umanizzare la star mostrandone il lato in ombra per, sostanzialmente, potenziarne la celebrazione (vedi alla voce Famoso su Sfera Ebbasta) o del music film più tradizionale basato sul live: della musica intesa come performance, come sfoggio edonista del corpo-cantante all’opera, resta solo una manciata di filmati d’epoca in cui l’artista appare sempre smarrito, sfuggente. C’è persino una sequenza in cui osserviamo TZN nel backstage ascoltare TZN che si esibisce sul palco, quasi lacerato da un dissidio inestricabile. Il suo disagio è anche un po’ nostro.

Tutto il rapporto con l’azione del performare è indagato in maniera problematica, nel tentativo di trasferire la comprensione intima di un tema tanto centrale per l’emotività dell’artista quanto inafferrabile per chi, diciamo, va in ufficio in bus al mattino: la fatica della fama. Lo si sperimenta nella sequenza più tesa del film, in cui si assiste al montare dell’aspettativa in TZN per l’opportunità di esibirsi come ospite fisso per tutto Sanremo 2020 e, un istante dopo, alla sua radicale delusione per essersi bloccato sul finale di Almeno tu nell’universo: una scena magistrale per l’efficacia dimessa con cui maneggia il materiale di backstage.

Asciutto e puntuale (dura 70 minuti mai superflui), Ferro è il diario della liberazione di un peso che non può sostanziarsi se non passando da un’ammissione pubblica, come è alla base dei principi dei circoli di sostegno per le dipendenze, come gli alcolismi: confessare per arrivare a una catarsi (o una redenzione, visto l’umore decisamente gospel del contesto) che sappia trasformarsi in veicolo e dare forza a chi ancora ci deve arrivare. Un film come esito di un processo: fatto per se stesso, prima di tutto, ma così onesto nell’esposizione della sua verità che, per osmosi, induce a un confronto allo specchio anche chi guarda. Perché certe autobiografie sanno essere collettive più delle opere corali. E perché in Ferro, ambientato in larga misura in una casa a Los Angeles, c’è anche la storia di come questo Paese (non) sta cambiando.

Articolo apparso su FilmTV, n. 46/2020