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Il mondo non cambia mai

H.E.R. non è un esordiente. Non mi metto a raccontare oltre 25 anni di carriera e collaborazioni di prestigio, per non cadere in una cronaca dei fatti un po’ sterile. Evidenzio due elementi soltanto.

Uno, il suo violino: sottoposto da sempre a distorsioni, deformazioni, a una richiesta di farsi disturbante, di violare la percezione più diffusa e stereotipata dello strumento. Il mutamento e la tensione verso l’essere altro già impressa nel suono delle corde. La ricordo dal vivo con i Nidi d’Arac, tra la fine degli anni Novanta e gli anni Zero una delle formazioni più spericolate nel fare merging tra tradizione popolare e futurismo elettronico, al punto che spesso la gente che intasava gli eventi neo-folk di moda all’epoca quasi fossero balere restava delusa dall’approccio sperimentale della formazione, e invocavano pizzica, pizzica per carità, e loro la pizzica la facevano, ma in una maniera destrutturata, e proprio il violino di Erma (allora Ermanno) era il fattore più tagliente del mix, anche se in realtà l’esperienza con il gruppo si chiuderà dopo qualche anno.

Due, appunto, il nome “Erma”, perché è impossibile e persino scorretto soprassedervi, mascherando l’indifferenza con nonchalance che si vorrebbe far passare per libertaria. Più di dieci anni prima che Antony Hegarty decretasse il passaggio nominativo al genere femminile e acquisisse il nome Anohni – un fatto simbolicamente cruciale nel decennio appena trascorso, che ha dato il la e ispirato una nuova generazione di artisti/e gender fluid – noi in Italia avevamo già Erma, probabilmente la prima cantautrice del nostro Paese in assoluto ad aver compiuto la transizione di genere. Il nome acquisito – H.E.R. – è un calco in codice di essenziale e assoluta determinazione: l’attributo femminile ridotto al suo stato base, quindi indiscutibile, più la scelta dell’acronimo che enfatizza l’enormità dei significati che cela, la dimensione di progetto che si fa vita (come i C.S.I.).

Noi abbiamo H.E.R. e H.E.R, quando appare al fianco di musicisti di chiara fama o progetti di evidente originalità (vedi le Iotatola fondate all’inizio degli anni Dieci da Serena Ganci e Simona Norato, artiste altrettanto coraggiose nel ribaltare i cliché del genere) è impossibile da non notare: presenza magnetica, suono alieno, portamento regale, che quasi incute mistero. Però il suo percorso resta esterno a tutto ciò che il mainstream esprime nel decennio, dall’itpop alla trap al neo-cantautorato vintage-rassicurante, così oggi che Il mondo non cambia mai sta riuscendo persino a bucare l’airplay nazionale, sembra un esordio, o comunque una prima volta.

Il mondo non cambia mai ha vinto il Premio Amnesty – Sezione emergenti ed è già una delle 8 canzoni scelte per Musicultura 2020 (le finali il 28 e 29 agosto, ma per la logica della manifestazione sono tutte già vincitrici) e, per me, è una delle poche reali sorprese dell’anno infausto in corso. È una canzone abrasiva e spigolosa, ma diretta, persino ballabile. Le aspirazioni techno del beat sono elementari, cassa in quattro e bassi potenti, la metrica è ripetitiva e stordente, ti prende per sfinimento. Persegue soluzioni straordinariamente semplici proprio perché il cuore della sua forza è nell’immediatezza da knock-out del messaggio che porta in dote: siamo incastrati in una bolla che da social si è fatta sociale, ci nutriamo ormai esclusivamente di chi approva e asseconda le nostre presunte idee per ripudiare e schernire tutto ciò che diverge, che non riusciamo ad affrontare se non con la forma dell’espulsione da noi stessi (“Pensi di essere piaciuto, sbagli / qualcuno che ti contraddice: tagli”), e intanto ci incancreniamo in un’autosufficienza che esclude la contaminazione, il confronto da cui si determina la trasformazione concreta. Solo che H.E.R. riesce a dirlo in modo più netto, feroce e universale:

Io con quelli come me tu con quelli come te
loro con quelli come voi e il mondo non cambia mai

e il mondo non cambia mai…

Il mondo non cambia mai, ripetuto e ripetuto perché la presa di coscienza di questo stallo è un dato realmente urgente ed è anche snervante, come la musica enfatizza in modo inequivocabile. È un tema che avvicina il brano al filone fondato sul dubbio e sull’impossibilità di assumere una posizione senza rispecchiarsi in quella opposta che era attraversava tutto A casa tutto bene di Brunori Sas e in particolare un brano come Secondo me: ma dove lì la posizione del cantautore si focalizzava soprattutto sull’immobilismo, in H.E.R. il collasso è già arrivato, la pazienza è terminata, la domanda di cambiamento è un requisito inevitabile per non sprofondare.

Che sia un’artista che ha posato sul cambiamento e sulla trasformazione necessaria la costruzione della sua identità è un dato altamente simbolico, che illumina di credito l’esecuzione di H.E.R. e la pone nella posizione quasi di un oracolo in allarme se non, con un po’ di amarezza, di una Cassandra.

Naturalmente il brano si presta a molte letture, da quella social-patologica a quella squisitamente legata alla cronaca politica (dov’è l’interesse nazionale quando ognuno agita istanze solo in chiave elettorale?). Tuttavia tra queste mi piace anche immaginare l’ipotesi che Il mondo non cambia mai si rivolga alla stessa comunità LGBTQIA, dilaniata negli ultimi anni da una sindrome di presupposto appagamento e da un crescente senso di inadeguatezza della classe che dovrebbe rappresentarla, che si sta a conti fatti traducendo in un’iper frammentazione delle istanze di cui, a fare le spese, sono soprattutto le urgenti necessità di tutela delle persone transgender.

Se questa lettura è plausibile, mi azzarderei a dire che Il mondo non cambia mai è probabilmente la più importante canzone transgender mai scritta in Italia: un punto di vista relegato ai margini o altresì trattato regolarmente con pietismo insopportabile, qui invece espresso dal pieno interno delle sue motivazioni più urgenti. Dove il cuore della questione non è (o non è più) la parificazione o la semplificazione dell’estensione dei diritti, ma la paura di sparire dal radar della difesa del diritto, in virtù di una pericolosa uniformazione del pensiero, soprattutto da parte di chi è cresciuto nell’ingiustizia e oggi si illude di non aver alcunché da ottenere. Perché si dà per scontato che quel che hai lo sarà per sempre:

Il coraggio di una vita estrema o la lotta di chi ancora trema
avendo solo un risultato magari crepa magari resta un po’ deluso
magari resta nel silenzio e la paura è un fallimento
nella piramide del mondo chi ci sta sotto chi ci sta dentro
non è contento.

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