
Ritals
da Da questa parte del mare, Radiofandango, 2006
Oggi che Gianmaria Testa non c’è più, portato via prematuramente dalla malattia (nel 2016), viene naturale rileggere il corpus del suo lavoro – tra reading, libri, spettacoli, progetti paralleli, live concepiti come racconti in parole e musica – come uno dei punti più alti della nostra canzone d’autore dopo il Duemila.
Eppure Testa è stato a lungo – e in parte è ancora oggi nella memoria di qualcuno – un autore di musica per pochi, tangente con il circuito del canzone a tinte jazz e della letteratura impegnata, ma certamente non un nome a uso delle masse. E quanto ci si è sbagliati! Testa riusciva e essere elegante cantando una lingua chiara e nitida, senza intellettualismi o sofisticazioni.
Certo, la densità dei suoi temi e l’afflato ritroso e pacato delle esecuzioni imponeva un’attenzione partecipe, che aveva trovato prima in Francia che da noi, tant’è che quando esce Lampo, nel 1999, parte della critica è rimasta spiazzata, trovandosi al cospetto di un artista già maturo e definito (e quarantenne).
Realmente Testa era un cantautore della gente comune: autodidatta, figlio di agricoltori del cuneese (nato “dalla parte sbagliata del Tanaro, dove si fa l’Arneis e non il Barolo”, M. Serra, «Repubblica»), aveva svolto il mestiere di ferroviere fino a metà degli anni Zero, entrando in aspettativa per andare in tournée.
Nel 2006 esce il suo sesto album, Da questa parte del mare, concept album sul tema delle migrazioni moderne. È un capolavoro, il prodotto di una simbiosi esaltante tra i versi – limpidi, diretti eppure sempre evocativi – e la musica, un impasto caldo e fuori dal tempo tra catarsi acustiche, cliché folk, lezioni di De André e di Tom Waits, armonie antiche e raschi rock-blues, trasportate in musica da un manipolo di eccellenze del jazz non soltanto italiano, tra i quali Gabriele Mirabassi, Paolo Fresu, Luciano Biondini, Bill Frisell (!), sotto la direzione artistica di Greg Cohen.
Sono canzoni che danno voce a chi parte – tra ragioni, attese e illusioni – ma soprattutto a chi è da questa parte del mare, e viene sfidato a riconfigurare le proprie certezze e scegliere una collocazione rispetto a questo mutamento monumentale delle nostre abitudini. Che non sia, possibilmente, intolleranza.
Quando è ormai chiaro che la forza che sottende a questo affresco è la paura che l’incomprensione si trasformi in disumanità, perché è la Storia che lo prevede, Testa sfodera Ritals, il momento emotivamente più forte del disco. Ispirandosi alla biografia di Jean-Claude Izzo, il grande scrittore di noir, marsigliese figlio di italiani e spagnoli, Testa tende un filo verso il passato connettendo l’epopea degli italiani emigrati in Francia, chiamati “ritals”, in senso dispregiativo.
Si tratta, probabilmente, della canzone definitiva sulla retorica dell’odio difensivo verso colui che arriva e sul suo capovolgimento, spesso anch’esso utilizzato anche in chiave forzosamente retorica, basato sulla riflessione sulla nostra Storia di migranti perenni, di cercatori di miglior fortuna dall’altra parte del mondo, sui soprusi subiti, i trattamenti da animali, l’ostracismo razzista. Solo che qui è tutto astratto dalla cronaca: Testa rinuncia a qualsiasi premessa (svolta, in un certo senso, dagli altri brani dell’album) e ci fa piombare dritti all’interno della nostra riflessione avversativa e ottusa, colpendo – con poche, pochissime parole – al cuore del discorso.
È tutto in quell”eppure’ che inaugura il testo: il ribaltamento di prospettiva, l’invito a rimettere in discussione la diffidenza verso chi arriva tramutata in intolleranza memori di quel che noi stessi siamo stati:
lo sapevamo anche noi
il colore dell’offesa
e un abitare magro e magro
che non diventa casa
Ritals è una canzone sull’altro che siamo stati noi, cristallizzata con l’abilità di sintesi che sole la poesia e la canzone, in questi casi così ispirati, sono in grado di evocare: rimuovere il contesto, la narrazione, le giustificazioni ideologiche per puntare all’essenza del meccanismo identificativo, scardinandolo dall’interno, rivoltandolo per condurci, in pochi secondi, a uno spostamento del punto di vista. Nel 2020 il tema del migrante come simbolo del collasso globale è ormai al centro di diverse canzoni ed espressioni artistiche, quasi consolidato fino a diventare scontato, in molti casi. Ritals sta nella stretta schiera dei brani che sfuggono alla retorica: come Io sono l’altro, di Niccolò Fabi, che condivide con Testa l’umanesimo di fondo.
Al passo di un bolero di commovente bellezza, quasi verdiano, che dialoga a distanza con un altro capolavoro sul tema dell’italiano migrante quale è Italiani d’Argentina di Ivano Fossati, Ritals dona un climax a un album talmente generoso in pietas che la sua portata civile non si è ancora estinta, e anzi cresce: naufragio dopo naufragio, porto chiuso dopo porto chiuso. Un capolavoro.