
Nostalgia canaglia
Articolo pubblicato su “FilmTv, n. 5/2020″
La consueta diretta Rai della notte di Capodanno, trasmessa quest’anno da Potenza, è stata solo un po’ più tremenda del solito. Chi si fosse sintonizzato per caso tra zamponi e bollicine potrebbe essersi imbattuto in un Gigi D’Alessio non troppo entusiasta intento a rileggere il canzoniere di Carosone tra Un nuovo bacio e Mon amour, un Al Bano con la solita versione reggae-world in playback della Mattinata di Leoncavallo o, per i più audaci, una Romina Power – sempre in playback – rapita da un medley tra Chattanooga Choo Choo e Power to the People di John Lennon con tanto di cartelli eco-pacifisti del calibro di “More Dharma less Drama”, sveltamente invitata a uscire da un Amadeus frettoloso o, forse, soltanto infreddolito.
Chi è sopravvissuto, all’1 circa, ha fatto la conoscenza di Gianmarco Carroccia, pupillo del C.E.T. di Mogol che da qualche tempo interpreta Lucio Battisti nello spettacolo “Emozioni. Viaggio tra le canzoni di Mogol e Battisti”, sorta di recital celebrativo in cui il pubblico può regalarsi il piacere di cantare a squarciagola La collina dei ciliegi o Dieci ragazze insieme a un “quasi Lucio” impressionante per abilità mimetica, sia fisica che fonetica. Di fianco al “sosia di Battisti” c’è proprio il vero Mogol, fautore dell’operazione, che tra un brano e l’altro racconta la golden age del duo – dal suo punto di vista, naturalmente. Un ologramma vivente, insomma. Il presente dei viventi che, come in Weekend con il morto, rimette in sesto il caro estinto con maniacale cura del make up, per portarlo come se nulla fosse mai accaduto davvero alla grande festa dello spettacolo nazionalpopolare. Disturbante, a momenti.
Lo show è solo la punta dell’iceberg di un processo di restituzione di Battisti al grande moloch della celebrazione televisiva, per anni osteggiata dalle rigide prese di posizione degli eredi per ragioni mai chiarite in modo esplicito, ma facilmente intuibili: se lo stesso Battisti, quando era ancora attivo, è fuggito dalla morsa dello spettacolo televisivo, arrivando a negarsi e persino rinascere nel suo radicale percorso con Pasquale Panella, non si capisce per quale ragione dopo la sua morte gli avrebbero dovuto essere gradite le tante manifestazioni pubbliche “in omaggio” alla sua grandezza, quasi sempre messe in bocca a personaggi che si autoattribuivano un ruolo di narratori universali del suo genio.
Oggi la situazione è cambiata perché c’è stata una sentenza di primo grado – complessa, ma cruciale nel settore del diritto d’autore – che ha, in grossolana sintesi, riconosciuto a Mogol un ingente mancato guadagno causato da questi riutilizzi negati. È il diritto che si è fatto carico di scavalcare i veti netti frapposti dalla vedova e dagli eredi per circa vent’anni dalla morte di Battisti. Tra questi, il più eclatante è caduto proprio pochi mesi fa, quando con una corposa campagna pubblicitaria on e offline il repertorio Mogol-Battisti è apparso su Spotify, con buona pace dei molti appelli lanciati in questi anni da illustri firme del giornalismo musicale perché la vedova “restituisse” al popolo italiano questo “patrimonio di tutti” (come se Spotify fosse un ente pubblico).
Cadendo la fortezza, anche per Battisti è arrivato il tempo di finire nella tagliola dei valzer celebrativi. Che sul piano artistico, naturalmente, sono di un’inconsistenza raggelante, dal brutto pseudo-musical Un’avventura con Chiatti e Riondino alla fallimentare puntata di Una storia da cantare, andato in onda a novembre su Rai Uno (e affiancato da omaggi altrettanto scipiti a De André e Dalla). Quale che sia il colosso scomparso, il meccanismo è sempre lo stesso: invece che esaltarne il ruolo pionieristico e la carica innovativa, magari dando spazio a chi nel presente ne ha raccolto l’eredità (anche se nella puntata battistiana c’erano i Coma_Cose), la tv ne fagocita la diversità e se ne appropria brutalmente con il pretesto del patrimonio collettivo. Perciò poiché Battisti come Dalla, De André, Daniele sono di tutti, allora tutti possono cantarli, raccontarli, parlarne, celebrarli, modificarne la narrazione attraverso racconti raramente confutabili e talvolta manipolatori, se non palesemente strumentali a esaltare la voce di chi – da sopravvissuto – sta raccontando. Lucio? Io l’ho conosciuto al Cantagiro del 1970, era un ragazzo timido è l’equivalente dell’eterna fabula sul caro estinto che ogni provincia o quartiere d’Italia costruisce, gonfia e plasma a vantaggio di chi invece esiste ancora: Mimmo? Io me lo ricordo nel 1995, aveva una brutta faccia…
Se c’è proprio un’entità che alimenta e rigenera con vigore questo nostro perenne far della memoria un santino è proprio la Rai, in maniera mai così palese come verso gli artisti del mondo della canzone.
Si stritola la complessità di un artista nel pugno di ferro di una celebrazione di superficie e fondamentalmente populista (c’è sempre una provenienza da un sostrato umile da raccontare con morbosità), chiudendola dentro show approssimativi sul piano dello sforzo tecnico (avete presente la famigerata sbroccata di Ornella Vanoni durante la puntata dedicata a De André? Peggio) e capaci di livellare ogni talento coinvolto assestandolo su una generica mediocrità da karaoke di piazza. Intanto la gloria dell’artista la si ingrossa, si deforma, raggiunge dimensioni troppi grandi, così gigantesche da occludere ogni spazio vitale per tutta l’altra musica, quella prodotta – qualsiasi sia il suo genere di appartenenza – da chi ha il sangue e le braccia dentro il tempo contemporaneo, neutralizzando ogni sguardo prospettico, ogni opportunità di scommessa sul domani, persino ogni quadro lucido sull’esistente. Il passato, ancora, si mangia il presente, per azione degli stessi viventi.
E continua a farlo, a stadi sempre più mistici. In questa edizione di Sanremo Amadeus ha sentito la necessità di ripristinare la serata delle cover concedendole un upgrade sorprendente, che prevede che le cover facciano punteggio insieme alle canzoni in gara inedite. È un nuovo stadio simbolico nel processo di insufflaggio del presente da parte del passato: senza un tributo pleonastico a un grande del passato – una Almeno tu nell’universo da rimpinguare, una nuova Granada per il tenorino leggero del momento – anche l’artista più virtuosamente legato al contemporaneo non potrà spuntarla per la vittoria. E se va dato merito ad Amadeus di aver investito su una narrazione a lunga durata rivolta ai Giovani in gara, è difficile non notare che la scelta di un formato interamente basato sul “duello” (di ormai anacronistica derivazione talent) altro non fa che annullare il ruolo di una direzione artistica – selezionare, scommettere, comporre un panorama – costringendo le nuove leve all’ennesima sfida per la sopravvivenza. In termini simbolici, è sempre un massacro: se sei una gloria, ci sarà sempre un posto per te, a patto che tu agisca dentro un’immobile rassicurazione; se rappresenti il nuovo, anche se hai stoffa e qualità, i posti a disposizione saranno sempre inferiori al consentito, perciò dovrai fare a cazzotti, arruffianarti chi decide, ammazzare il tuo simile per sopravvivere. L’etica di Quota 100, codificata e sigillata nella forma del format tv. “Ti ritrovi con un cuore di paglia / e un incendio che non spegni mai”, fa la canzone della coppia eterna del pop italiano: ed è un horror.