
Il servizio pubblico di Ezio Bosso
Articolo per FilmTv online
10 febbraio 2016, seconda serata del secondo Festival di Sanremo griffato Carlo Conti. Ezio Bosso entra sulla sua carrozzella, visibilmente emozionato, scambia qualche parola con il conduttore, in un clima di pacifica tensione. Molte, moltissime persone davanti al video non l’hanno mai visto, non sanno chi sia. Gli bastano poche parole a creare un clima di sospensione fortissima, a suscitare una curiosità magnetica, incrementata anche dal disinvolto sense of humor con spezza la sua evidente sensazione di trovarsi fuori posto su quel palco. Poi siede al piano, esegue pochi minuti della sua “Following a Bird” in preda a un rapimento fiero e liberatorio, che la regia tv raccoglie come fosse essa stessa invischiata nel suo godimento, come fosse rapita anch’essa. La standing ovation è vibrante ed epocale, di quelle reali e non affettate, di quelle che non si vedevano dai tempi di Ray Charles in coppia con Toto Cutugno nel 1990.
È il picco di ascolti della serata e uno dei momenti più trascendenti dell’intera storia del Festival recente. È la rivelazione accecante di Bosso, che in tv non voleva proprio andarci, a un Paese che finora lo aveva sobriamente ignorato (anche se tra teatro, numerose colonne sonore – Io non ho paura su tutte – e un’attività concertistica di assoluto pregio Bosso in realtà era dentro lo spettacolo da più di vent’anni, nella tipica condizione di ennesimo figlio d’Italia laureato oltreconfine). È anche il trionfo dello stesso Conti, trattato con fastidiosa quanto ingiusta spocchia da tanti osservatori della musica (gli stessi che ignoravano chi fosse Bosso); lo stesso Conti che, visto retrospettivamente, in quel festival selezionò nei giovani Francesco Gabbani, Ermal Meta e Mahmood, cioè in sequenza i tre futuri vincitori della categoria Big e tre delle popstar più rilevanti emerse nell’ultima parte degli anni Dieci. Ci vollero quattro mesi di lavorio e trattative per donarci l’apertura di Bosso al mezzo televisivo, con la complicità determinante della giornalista e autrice Paola Severini Melograni, che da anni dedicava la sua attività alla proposta di un racconto originale sui temi dell’inclusività per le persone diversamente abili. La sequenza è tutta online e parla da sola: l’assoluta assenza di qualsiasi tipo di sfruttamento retorico della presenza di Bosso è anche merito della profondità di campo richiesta dalla Severini.
Due anni dopo, sulla Rai 3 di Stefano Coletta (oggi direttore di Rai1), va in onda Che storia è la musica, per chi scrive il miglior format a tema musicale visto da anni in Rai. Due sole puntate, ma dense come due stagioni: la prima con le Sinfonie n°5 e n°7 di Beethoven dal Teatro Verdi di Busseto, la seconda, andata in onda a Natale 2019 dal Teatro dell’Unione di Viterbo, sulla Patetica di Tchaikovsky. Esecuzioni integrali, l’unico diktat di Bosso per fare lo show: e già questo è incredibile.
Ma tutto emana un’aura di eccezionalità: Bosso scompone le sinfonie isolando e radiografandone le melodie, coinvolge gli orchestrali in una miracolosa comunione di intenti (l’opposto esatto di Prova d’orchestra di Fellini) e persino gli ospiti, irrimediabile concessione al linguaggio tv, da un emozionato Enrico Mentana all’appassionato melomane Alfonso Signorini fino a Gino Strada, non stonano e danno il meglio di loro stessi, evidentemente gratificati di essere lì.
Con Bosso non è possibile scindere il compositore dal comunicatore: chi vive questa fusione completa come una “sporcatura pop” di chissà quale ideale dell’artista contemporaneo non ha capito nulla, e chissà dove pensa di vivere. L’artista che trasfigura la sua abilità creativa nella comunicazione della stessa attività è un tratto naturalmente distintivo di questo tempo: la differenza tra la pura vanità egoriferita e il reale desiderio di scavare all’interno dei segreti di quest’astrazione che è la musica la fa il carisma, un fattore che Bosso emanava in quantità contagiose, abnormi; è proprio la “scoperta” della tv, la rivelazione della potenza del “racconto popolare della musica”, a partire da quella temuta serata al fianco di Carlo Conti, che gli ha consentito di trasformare in atto completo, in componente integrante e centrale del suo mondo espressivo. Tant’è che nei suoi ultimi concerti sinfonici, quando già non poteva più eseguire personalmente le sue composizioni, Bosso ha in qualche modo trasferito quel formato nei teatri, creando uno spettacolo unico, in cui le parole ossigenano la musica che raccontano, riuscendo – in una catarsi che moltissimi suoi grandi predecessori potevano solo sognare – a far arrivare davvero Mozart, Tchaikovsky e il signor Beethoven a una miriade di persone che mai avrebbero pensato di poterne essere tanto travolti. Servizio pubblico puro, e per di più immerso nel godimento.
Che storia è la musica indica una via perfetta e miracolosa per comunicare la musica mentre la musica stessa si genera e si ri-ossigena, saltellando disinvolta e fiera oltre mille recinti. Bosso è come il Piero Angela dell’era gloriosa di Superquark: immerso in un progetto divulgativo dalle intenzioni grandi come la vita e rapito da una passione creativa così vulcanica da essere irraggiungibile, osservabile soltanto a distanza nella sua maestosità ma al contempo inclusiva e ammaliante. Il rimpianto, ora che sappiamo che questa serie è finita per sempre, è abissale.
Se non l’avete visto, è qui.