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I mortali di Colapesce e Dimartino – commento

Fino all’ultimo ritornello

Articolo apparso in “Muzik”, pubblicato su “FilmTv, n. 26/2020″

“Ma che faccio, parlo dei migranti? No no no, vai sul sicuro: scrivi una canzone d’amore. Devi sembrare impegnato senza esserlo, rassicurante. E adesso cosa succede? Niente: parte un altro ritornello.”

La sequenza di apertura di I mortali pare una frattaglia di Ciprì e Maresco: Colapesce e Dimartino dibattono, con caricato accento isolano, dell’isolamento irreversibile del cantautore contemporaneo e della necessità di incontrare il presunto gusto di un pubblico che pretende ormai solo leggerezza. Una fotografia del decennio appena chiuso, insomma, nel quale i due si sono affermati come voci d’autore tra le più originali (gli ultimi Infedele e Afrodite sono album di pregiata sensibilità). Senza però mai sfondare la cortina del mainstream, anche la firma di entrambi è sempre più ricorrente nelle hit dell’airplay (tra gli altri: Gualazzi e Emma per il primo, Arisa, Levante e Ayane per il secondo).Più che amari, sono sarcastici con goduria: una sensazione che permea l’intero album, fecondo di ritornelli di presa eccezionale eppure affilatissimo nei testi, tra sguardi post-apocalittici (L’ultimo giorno), disillusione devastante (Noia mortale), proclami di sdegno contro un’umanità gretta nei suoi localismi (“Paese che vai, stronzi che trovi” da Cicale, parrebbe scartata a Sanremo 2020).

Intanto pochi ascolti e le canzoni fermentano di energia e scintillante vitalità: Rosa e Olindo (sì, proprio loro) è un piccolo capolavoro sull’amore che sfida il “buon senso”, un po’ Baustelle e Battiato certo, ma anche i Pooh più gloriosi; Luna araba  ripropone il felice canovaccio del dipinto siciliano di Lo stretto necessario (scritta da entrambi per Levante) e l’addendum simbolico di Carmen Consoli; Adolescenza nera innesta un’ode alla giovinezza sul beat electro-minimal di Mace, prima di schiudersi in un’innodia finale liberatoria.

Chi bazzica il repertorio di entrambi sa riconoscere le peculiarità dei singoli (l’inclinazione alla grandeur melodica di Dimartino, l’intimismo esplorativo di Colapesce), ma fortunatamente il disco sfugge ai limiti di un’opera split di circostanza per rendersi brillante documento di un modo di intendere la composizione: ricca, rigogliosa, spiazzante, laterale, sardonica, a volte sfuggente e un attimo dopo platealmente romantica. La migliore canzone pop possibile: corretta nelle intenzioni, sorprendente negli esiti.

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