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Sospesi

da Infedele, 42 Records, 2017

Quasi tutte le canzoni d’amore di Colapesce si basano sullo stesso schema affettivo: come in bilico su una piccola zattera troppo gracile per affrontare la tempesta, lui e lei si fanno minoranza contro la prepotenza, il sopruso e la frenesia del mondo. La loro è una resistenza stoica più che eroica, in cui la cura reciproca e l’intesa comune rappresentano l’unico antidoto contro l’ingrigimento, e al contempo forniscono una sorta di consolazione emozionale al trauma della propria diversità. Per farsi un’idea di quel che intendo, basti riprendere Restiamo in casa, dall’esordio Un meraviglioso declino, citata a dismisura da quando la quarantena epidemica causa Covid-19 ha imposto su scala nazionale il concetto di restare in casa, tra un mantra e un’affermazione dittatoriale.

Anche Sospesi, la traccia di chiusura di Infedele, terzo album di Colapesce pubblicato nel 2017, insiste sia sul tema dell’isolamento domestico sia, soprattutto, sull’inclinazione del cuore appena descritto, facendola dialogare in modo incredibilmente umorale con l’arrangiamento e con l’interpretazione vocale. Sospesi, a tutti gli effetti, è una canzone di Natale, ma anche una canzone sul lavoro. Lui garantisce a lei che presto potranno godersi un tempo di sospensione che di fatto sono i nove giorni a cavallo delle feste di Natale, apoteosi delle ferie aziendali programmate e degli obblighi parentali inespugnabili, perché sa che questo farà bene a entrambi, come rivela lo stesso timbro della voce, afflitto, bisognoso di quiete (“Da 120 anni non ho piu dei giorni vacanti”).

Il nemico – c’è sempre un nemico in Colapesce – è una massa indefinita, un grumo in cui levita il lavoro ma anche i doveri familiari, l’invasione delle persone da (ri)vedere, il calendario fitto nel tempo in cui l’uomo non vorrebbe avere agende. È l’obbligo, e l’opposto dell’obbligo è il fluttuare, la non decisione, appunto, la sospensione. Non c’è solitudine, tuttavia: il tempo di pace auspicato è a due, e Colapesce non può fare a meno che connotarlo con uno di quei suoi simbolici piccoli gesti di cura, che trasforma nella sua visione di un momento di poesia, o comunque di un’azione in cui far risuonare la sua dimensione creativa:

“O Dio se mi piace vederti legare i capelli con quella matita

se me la presti, ci faccio un racconto soltanto soltanto per te”.

Il video ufficiale del brano, diretto – come Maledetti italiani da Egomostro (2015) e come tutti i video di Infedele – dallo straordinario collettivo Ground’s Oranges – materializza questo incubo informe proveniente dall’esterno in una fascinosa struttura da thriller/b-movie fine anni Sessanta (un po’ alla Mario Bava, ma con qualche velato riferimento anche a Antichrist di Lars Von Trier), ipotizzando – ma lasciando la storia volutamente senza risposte – che il nemico di questo momento di sospensione a due sia una proiezione del mondo interiore, come fosse un riflesso delle proprie schiavitù e abitudini. È cruciale, in questo senso, la trasformazione psicotica del personaggio interpretato dall’attrice Valentina Lodovini, maschera spettrale e perfetta (proprio, appunto, come la Charlotte Gainsbourg del film di Von Trier), il cui exploit di violenza stride, in chiave felicemente antifrastica, con il passo posato alla Timber Timber del brano.

La grande magia del brano è nella finezza della costruzione armonica – calda, notturna e un po’ antica – e nel modo in cui essa si irradia morbidamente sulla ritmica dilatata fino allo sfinimento. Lo stesso Colapesce ha dichiarato l’intenzione di farne una cosa “alla Ciampi”, e così pare, in modo palese: gli scambi armonici del ritornello, il modo in cui il canto quasi si appoggia mesto sulla musica, fanno tornare alla mente le atmosfere dell’ultimo album di Piero Ciampi, Dentro e fuori, un lavoro semi compreso e spesso trascurato, con le sue estenuanti diramazioni da jazz club semi vuoto, la voce grondante mestizia, l’umore, in tutti i sensi, ‘finale’.

Mentre un’orchestra sontuosa puntella i ricchi accordi del pezzo, si fa strada un coro femminile alieno, quasi sintetico, che lo rende distante e insieme accorato, allo stesso tempo. È una derivazione di uno dei suoni psych-folk messi a punto da Iosonouncane per il capolavoro Die, forse il più iconico di tutti: un coretto folle e ingenuamente solare, campionato e utilizzato come un riff per Stormi. Sebbene proprio quel suono stia li a rimarcare che i due “stili” sono non amalgamabili perché già molto identitari, questo incontro artistico ha dato vita a un lavoro che irradia vibrazioni – rigogliose, cinematiche e di grande effetto – che ragionano da un’altra galassia musicale, che con il nuovo pop italiano non ha davvero più alcunché a che fare, e semmai guarda – per ora con prudenza, domani chissà – a un capolavoro sfuggente e irripetibile come Marco Polo di Flavio Giurato.

 

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