
Le 40 canzoni del 2019 di Unadimille
Anche quest’anno, per il terzo anno di fila, eccoci con la classifica di fine anno di Unadimille: quaranta canzoni, nessuna distinzione di genere. Come sempre, le potete ascoltare tutte, dalla 40 alla 1, nella playlist dedicata su Spotify. Se la classifica vi piace o vi fa orrore, e soprattutto se volete un quadro molto più ampio e approfondito sulla musica che ha segnato questi ultimi tempi, vi ricordo che è disponibile “Unadimille – 1000 canzoni italiane dal 2000 a oggi, raccontate“, il mio primo libro: 500 pagine per scoprire come le canzoni hanno interpretato pulsioni, emozioni e tensioni di questi vent’anni.
40. Dola – “LIL PUMP”

Undamento
Originario di Casalvieri (nel Frusinate), Aldo Iacobelli in arte Dola è uno dei documenti più emblematici dell’ormai avvenuta completa confluenza tra il linguaggio del neo-cantautorato, sgraziato e testardamente romantico, e l’immaginario post-rap, con i suoi codici iper-marcati, la depressione scaraventata sul tavolo con naturalezza abbagliante, le dipendenze trasformate in stilema estetico (significativo è che Dola sia pubblicato da Undamento, che sul crossover tra i generi sta puntando tutto (vedi il caso di successo di Frah Quintale). Lil Pump porta direttamente la star mondiale del Soundcloud rap in una iper-classica sviolinata chitarra e voce roca alla Brunori-Sas-che-rifà-Rino-Gaetano.
Racconta la paradigmatica storia di un corteggiamento insistito ma che va puntualmente a male, rinforzato dagli incoraggiamenti (totalmente sballati) di un avvocato amico che continua a dirgli di provarci ancora (il medio-man tipicamente ricorrente nella musica di questa generazione, spauracchio di una normalità inaccessibile, come il Gaetano di Calcutta), e sciolta nella magra consolazione-xanax di un ascolto reiterato di Gucci Gang, la planetaria trap-hit da 1 miliardo di visualizzazioni su youTube, annegata in un mare di ripetizioni e dentro un beat tristissimo. Un contrasto stridente con il tono scanzonato del brano di Dola, che rende il brano un irresistibile post-tormentone di provincia.
Ascolta: Dola – “LIL PUMP”
39. Angelica – “Beviamoci”

Carosello
Angelica è l’ex cantante dei Santa Margaret, stimato gruppo indie-cantautorale che negli anni Dieci ha mancato le chance di ottenere un successo popolare (plausibile, visto il respiro dei brani). L’esordio solista Quando finisce la festa è un brillante concentrato di sensibilità pop e canzoni di fresca immediatezza (ma non banali), rese consistenti da una venatura malinconica, che richiama la sensazione di un sogno esaurito.
Sensuale e ammiccante, Beviamoci è il racconto leggero ma ricco di sfumature di due amanti che si incontrano dopo molto tempo e si ritrovano curiosi (e un po’ voraci) di osservare se il tempo li ha resi estranei, o se invece le loro piccole abitudini di un tempo sono ancora presenti. La levità vintage dell’arrangiamento punta agli anni Sessanta italiani, così come il tono colloquiale, allusivo e fresca del canto è palesemente un monumento alla Mina di era Studio Uno: “Lo prendi ancora amaro? / Cos’è che mi è successo? / Dopo di te, dopo di te / non mi è successo niente”.
Ascolta: Angelica – “Beviamoci”
38. Egokid – “Disco disagio”

INRI
Per il loro ritorno discografico a cinque anni di distanza da Troppa gente su questo pianeta e dentro una scena indie che è stata profondamente riconfigurata dall’apertura al pop, gli Egokid riprendono a tuffarsi nelle acque di una radiosa ballabilità synth, tra Umberto Tozzi e gli Hot Chip, fluorescente e felicemente glitterata, preservando tuttavia il sarcasmo affilato e lo sprezzo della mediocrità che contraddistingue i loro testi fin dagli esordi.
Disco disagio aggiorna il profilo di L’uomo qualunque ai tempi del sovranismo, compilando un campionario che, rispetto a qualche anno fa, aggiunge a cinismo e grettezza anche una dose copiosa di psicosi contemporanee, tra benaltristi, antivaccinisti e post-fascisti con profili social “pieni di gattini”. È una hit disco stilosa e elegante, per un tempo drasticamente orrorifico. Con una speranza nel futuro, a incoraggiare chi sta sprofondando per il disgusto: “Passeranno dei millennial / e ci liberemo dall’imbarazzo”, perché in fondo questo Disco disagio passerà come passa un weekend.
Ascolta: Egokid – “Disco disagio”
37. Dente – “Anche se non voglio”

Inri/Picicca/Artist First
Dopo le sbilenche Canzoni per metà del suo ultimo lavoro discografico, in cui pagava la scelta coraggiosa di allontanarsi dalle mode ricorrenti di quell’indie pop di cui proprio lui è stato in qualche modo un antenato, Dente sceglie di ripartire da una forma-canzone più solida e tradizionale, ma che sa stupire per intensità. Anche se non voglio brilla per la generosità melodica e gli odori da canzone d’autore anni Ottanta, tra morbidi synth, l’immancabile De Gregori come baluardo e un orecchio, perché no, alle morbidezze di Fabio Concato.
I versi mostrano un Dente raramente così autobiografico, in una sorta di bilancio artistico e personale: Anche se non voglio è una rivendicazione di autenticità per ogni sbaglio o idiosincrasia, da contrapporre a chi pensa di sapere come interpretarlo: “E quanto è vero iddio, ho ballato sulle onde dell’oceano / e so volare senza ali, e respirare sotto al livello del mare / ma uno scherzo è bello quando viene bene / mi bastasse essere vivo, col mio nome buffo addosso / una manciata di monete e una donna sottobraccio”. Un ritorno di classe.
Ascolta: Dente – “Anche se non voglio”
36. Massaroni Pianoforti – “50 settimane”

Cramps
In Rolling Pop Gianluca Massaroni è riuscito a convogliare la sua scrittura cantautorale spigolosa e persino velenosa in una manciata di canzoni di notevole piglio popolare. La lezione del primo Fossati – un suo riferimento imprescindibile – è se possibile ancora più palese di prima, nobilitata da una ispirata capacità di raccontare certe storture del presente in chiave dissacrante ma non implosa in se stessa (con una parte di merito da attribuire al passaggio alla rinata Cramps di Boosta, una buona opportunità dopo le peripezie discografiche che hanno sempre ridotto il potenziale di Massaroni).
Tra i pezzi più riusciti di un album interamente godibile c’è la disco-rock in odori new wave di 50 settimane, variazione sul tema della settimana-tipo nella metropoli contemporanea, incastrata tra una miriade di piccole e grandi dipendenze che servono a sublimare un disperato senso di mancanza. Massaroni riduce all’osso la componente narrativa in un testo che spara mitragliate di anglicismi, acronimi e francesismi (“Martedì c’è il meeting / mercoledì Netflix / giovedì THC”), per arrivare a stringere il fuoco ancora – dopo il Cesare Cremonini di Nessuno vuole essere Robin e i Coma_Cose di Post Concerto – sul nuovo totem della solitudine urbana: “Ma per fortuna c’è il cane”.
Ascolta: Massaroni Pianoforti – “50 settimane”
35. Giovanni Truppi – “L’unica oltre l’amore”

Virgin/Universal
L’unica oltre l’amore è uno degli highlight più emozionanti del primo album di Giovanni Truppi pubblicato per una major, Poesia e civiltà. Ballata posata, dal respiro ampio, è appoggiata su un semplice giro armonico a due accordi che lascia la melodia libera di svolazzare tra alto e basso, tra ghirigori da madrigale e toni prettamente narrativi. Il testo è una riflessione su quanto l’inclinazione dell’essere umano a dividersi tra chi salta sul carro del vincitore e chi invece si schiera dalla parte dei deboli si tramandi nella Storia e non sia, come invece viene naturale pensare, prerogativa del tempo in cui ci percepiamo.
Il colpo di genio del brano è nella dinamica del brano, articolato una lunga orazione piena di suspense, che magnetizza l’attenzione sia sul piano lirico che su quello musicale, stimolando l’orecchio a lasciarsi cullare mentre la mente si chiede dove vuole andare a parare. Fino al finale: la rivelazione di qualcosa che in realtà ci è noto, ma che raccontato così lascia uno strano tipo di conforto, amaro ma in fondo appagante.
Ascolta: Giovanni Truppi – “L’unica oltre l’amore”
34. Coma_Cose – “Mancarsi”

Asian Fake/Sony
La ballata esistenziale dei Coma_Cose, highlight dell’album di esordio Hype Aura, è un inno incredibilmente sincero al potere del farsi forza reciprocamente quando la giovinezza sembra tutt’altro che un bacino fervente di speranze, e le insicurezze sono così dense da non consentire alcuna altra vista se non il proprio timore di vivere: “ Che schifo avere vent’anni / però quant’è bello avere paura”.
È un brano potente perché universale: può parlare di amicizia, di amore in senso lato o di relazione sentimentale a tutti gli effetti, e mantiene comunque la sua capacità di fare della musica una catarsi gioiosa, una brezza di energia consolatoria. È anche una sintesi dell’abilità di Fausto Lama e California di cavalcare un’intersezione tra stili assolutamente originale, che li ha resi in poco tempo uno dei fenomeni post-indie più riconoscibili, tanto da conquistarsi un posto d’onore tra gli ospiti scelti dai Subsonica per il remake celebrativo di Microchip Emozionale.
Ascolta: Coma_Cose – “Mancarsi”
33. I Quartieri – “Vacanze su Marte”

42 Records
Ci vogliono sei anni per ascoltare il ritorno della promettente band romana I Quartieri, dopo l’esordio di Zeno (2013). In mezzo è successo di tutto: la trap, l’indie pop, le ruffianerie del nuovo cantautorato di matrice Capitale. Tutti stimoli che non hanno minimamente tentato il quartetto di casa 42 Records, anzi: il dream pop della band sembra cercare la fuga, il mettersi in disparte a osservare il lato più umbratile dell’urbe, deviando i fumi introflessi di un Thom Yorke verso carezze melodiche in odore del grande pop italiano (Ivan Graziani, Lucio Battisti).
Tutti i 27 minuti di Asap sono un viaggio sonoro estatico e stupefacente, ma Vacanze su Marte spicca davvero il salto nello spazio: la musica rappresenta la tensione a sospendersi dall’ansia, a cercare un punto chissà dove nel cielo per non farsi mettere ko da un quotidiano digitale che rosicchia ogni minuto disponibile, imprigionando l’esistenza in una virtuale catena di montaggio: “Se non hai tempo, non hai niente”. Tra i lavori del 2019 più trascurati, è una delle dimenticanze più gravi.
Ascolta: I Quartieri – “Vacanze su Marte”
32. Machete Empire Records – “BUD SPENCER (feat. Lazza, Salmo)”

Machete Empire Records/Sony/Epic
Alla fine del 2019 Spotify ha annunciato che il quarto volume della serie Machete Mixtape è stato l’album più ascoltato in assoluto in Italia (davanti a Playlist, ancora Salmo, uscito nel 2018). È vero, ed è cosa nota, che un disco pieno di featuring scelti in modo eterogeneo viene premiato dai meccanismi alla base della piattaforma, ed è facile pensare che la composizione del mixtape abbia tenuto conto con attenzione di ogni potenziale bacino d’influenza dei rapper coinvolti (compreso l’aver anticipato l’esplosione del fenomeno tha Supreme, coinvolto in Yoshi).
Ma del resto Machete è diventato il collettivo-factory-etichetta più influente del rap italiano del decennio appena concluso anche in virtù delle formidabili strategie promozionali che è capace di escogitare, che mai come nel rap sono parte integrante del processo creativo. Semmai quel che lascia storditi è la capacità dei mixtape di Machete di farsi ancora orgiastica festa del flow più pirotecnico, una fotografia dello stato dell’arte del rap nel Paese che raduna decani, innovatori e nuovi talenti (e finalmente fa un passo, anche se minimo, verso le donne rapper, includendone una per la prima volta, Beba, di talento clamoroso). Ad aprire le danze è un breve (110 secondi) quanto fulminante patchwork stilistico co-prodotto da Dade, Low Kidd e Salmo e affidato alle voci dello stesso rapper sardo in compagnia di Lazza: complice uno beat potentissimo, interrotto solo da uno stordito richiamo all’italo-western, Bud Spencer è l’ennesimo sfoggio di bravura come calcio in faccia agli aspiranti rapper, divertente e stracolmo di idee. Che contiene, forse, la più incredibile rima dell’anno: “Tu puoi fare l’influencer, il Kylie Jenner / Il transgender, il bartender / Puoi lavorare al call center o fare il pole dancer / Ma lascia il rap, che pigli schiaffi, Bud Spencer”.
Ascolta: Machete Empire Records – “BUD SPENCER (feat. Lazza, Salmo)”
31. Nicolò Carnesi – “Il futuro”

Goodfellas
Nicolò Carnesi è uno dei più sottovalutati cantautori della generazione nata a cavallo tra anni Zero e Dieci. Complice un cambio di etichetta, in Ho bisogno di dirti domani ha tentato di scrivere una nuova fase del suo percorso, arricchendo il suono di morbide languidezze retro-synth che fondono la lezione del Battisti di fine anni Settanta (Io tu noi tutti) con la fascinazione del Bon Iver sintetico (già testata nella bellissima, e dimenticata, Motel San Pietro).
Al cuore della sua scrittura resta il pessimismo come condizione di partenza, la delusione per la disfatta di questa realtà sublimata da un’ironia in chiaroscuro. Come quella che invade l’intensa Il futuro, meditazione in forma interrogativa sullo scollamento tra il progresso e il bisogno, tra una visione ottimista del domani e un presente di precarietà che è così cronicizzata da essersi fatta semplice condizione, ormai indiscutibile. La melodia fluttua nel magma stellare creato dall’arrangiamento, mentre Carnesi pone le sue domande immergendole in una malinconia disarmante: “E così questo sarebbe il futuro? Non ho neanche una casa / Ma ho un tera di storie / da farti guardare”.
Ascolta: Nicolò Carnesi – “Il futuro”
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30. Joan Thiele – “Le vacanze”

Polydor/Universal
Alessandra Joan Thiele, italo-svizzero-colombiana, ha guadagnato un certo seguito grazie a una cover di Hotline Bling di Drake, seguita due album di elegante electro-pop in inglese (Joan Thiele e Tango), che le hanno donato una certa notorietà nella scena indipendente. Ma la vera sorpresa è l’esordio in italiano di Le vacanze, una gemma easy listening prodotta da Zef che fonde Mina, synthwave e anima latina evocando la frescura di un paesaggio estivo, suadente e languido.
Scritto con la collaborazione di Nitro, il testo esplora il desiderio di una vacanza da sola per riscoprire se stessa, rassicurando la persona amata che nulla cambierà; è, nei toni morbidi di un brano ballabile ma elegante, un’altra affermazione di indipendenza femminile, rilevante perché enfatizza la realizzazione del desiderio di lei dentro il contesto di una coppia: “Io ci sarò se mi chiami io ti rispondo / prendo un aereo dall’altra parte del mondo”.
Ascolta: Joan Thiele – “Le vacanze”
29. Massimo Volume – “Una voce a Orlando”

42 Records
Il 12 giugno del 2016 a Orlando 49 persone vengono assassinate all’interno del Pulse, un locale LGBT. La strage – l’ennesima in una stagione drammatica per gli attentati, dal Bataclan a Berlino – scuote l’opinione pubblica e la stessa comunità omosessuale, mai colpita così nel cuore delle sue certezze in tempi recenti. Alla strage è ispirata Una voce a Orlando, che apre Il nuotatore in un clima di sottile tensione.
Naturalmente il brano non ha alcun intento di cronaca, né è intento di Emidio Clementi soffermarsi sui fatti; la canzone prende invece spunto da un video amatoriale girato durante la carneficina in cui si vede un poliziotto schermare alcuni sopravvissuti per tratteggiare la lucida autoanalisi della voce narrante, un personaggio schermato nelle proprie sicurezze, consapevolmente a debita distanza dagli impeti della vita, dal rischio della contaminazione, che guarda il mondo attraverso una crepa nel muro: “Scusami amore se non era mia / la voce ad Orlando, nel buio / sicura, che grida: / Avanti signori / il corpo dietro al mio / se un colpo parte / tranquilli / me lo becco io”. Così in questo autoritratto di un coraggio latitante pare di scorgere comunque la fotografia di un uomo del presente, barricato dietro infallibili alibi, a tenuta stagna di una responsabilità che è pubblica e privata.
Ascolta: Massimo Volume – “Una voce a Orlando”
28. Coez – “Domenica”

Carosello
Dopo il successo clamoroso di Faccio un casino, Coez torna ad affidarsi a Niccolò Contessa per È sempre bello: sapientemente, Contessa arricchisce il suono senza svolte radicali, ponendo grande attenzione a mantenere al centro l’abilità di Coez di creare magie pop da strutture asciutte e semplici. Domenica è immersa in una frescura synth-wave che le toglie il peso e la rende impalpabile ed lieve.
È il suono giusto per tradurre il desiderio di una domenica simbolica con la persona amata, un pausa da distrazioni e figure di contorno. Per questo è una canzone estiva perfetta, quasi alla Mango, oltre i cliché latini: perché dà eco a un’universale voglia di sospensione dal caos, in un tempo saturo.
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Ascolta: Coez – “Domenica”
27. Ginevra Di Marco e Cristina Donà – “Camminare”

self-released
Elogio all’arte del cammino come simbolico gesto di lenta scoperta e chiave per trovare naturalmente il proprio bilanciamento, il “passo giusto che credevi di aver perso”, Camminare è il nucleo del progetto a quattro mani di Cristina Donà e Ginevra Di Marco, nato dal desiderio di incrociare percorsi affini e centrali nella canzone d’autore da ormai un quarto di secolo.
Nato come Ep e poi espanso, è stato finanziato con un crowdfunding trionfale, che ha raccolto quattro volte la soglia richiesta: un modo per restare completamente autonome, e un piccolo schiaffo morale alla discografia “ufficiale”, che guarda altrove, ignorando la statura di Donà e Di Marco, a tutti gli effetti due protagoniste degli ultimi vent’anni di musica indipendente in Italia. È una canzone dolcemente posata ed eterea, in cui le note cristalline del piano di Francesco Magnelli riecheggiano le voci che cantano all’unisono, in un cerca di un simbolico punto di fusione.
Ascolta: Ginevra Di Marco & Cristina Donà – “Camminare”
26. Mecna, Sick Luke – “Canzone in lacrime”

Virgin/Universal
Se Blue Karaoke è il chiaro tentativo di Mecna di scrollarsi l’immagine di rapper tenebroso e lunare, Neverland è la virata definitiva verso una dimensione audace se non solare: un disco piacevolissimo, ricco di idee e accostamenti suggestivi, con la spina dorsale nell’RnB anni Novanta più esplicito, ricoperto da scintillanti polveri di Michael Jackson, tutto trapiantato dentro il nu-soul contemporaneo qua e là virato in emo-trap.
Un’architettura musicale sfavillante, merito dell’arguzia di un Sick Luke che sfrutta il desiderio esplorativo di Mecna per testare soluzioni che con altri artisti farebbe più fatica a sperimentare. Perdo la testa, Si baciano tutti e la title-track sono pop-RnB arty appiccicoso, ma è nel finale che si nascondono le perle più preziose, con una Canzone in lacrime che trasforma lucciconi degni del Drake più generoso in trionfale gospel-soul, con tanto di coro degno della Paola Folli più scintillante. È il colore più adatto per una originale canzone che specchia se stessa, in cui Mecna esplora la sua indole sospesa tra disastro e iper-romanticismo materializzando la stessa canzone in una lei, o viceversa: “Se sto qui, già lo sai perché, c’è una canzone in lacrime / Fa così, poi parla di me, ho dovuto farla piangere”.
Ascolta: Mecna & Sick Luke – “Canzone in lacrime”
25. Brunori Sas – “Al di là dell’amore”

Picicca/Island/Universal
Dove L’uomo nero fotografava il disorientamento di fronte alla scoperta che certi retaggi del nostro passato sono ancora vivissimi nel presente, Al di là dell’amore trova un Brunori che ormai ha dato per acquisito di essere dentro il tunnel più buio della nostra Storia, e infatti la musica è incombente e cupissima: “Questi parlano come mangiano / e infatti mangiano molto male / sono convinti che basti un tutorial / per costruire un’astronave / e fanno finta di non vedere / e fanno finta di non sapere / che si tratta di uomini / di donne e di uomini”.
Il richiamo all’attualità è implicito ma evidente: il sogno che muore sulle spiagge, il vento che ora porta spavento e dolore, il branco di cani che vuole solo fare rumore come un Paese in balia di un delirio di disumanità ferina, collassato “fuori dal torto e dalla ragione”. La tenue virata in maggiore del ritornello è lo spiraglio di speranza a cui Brunori invita ad aggrapparsi, l’invito a mettersi in cammino verso nuove vette nella certezza che proprio i più deboli, prima o poi, rimodelleranno questo orrore: “Tu devi solo smetterla di gridare / e raccontare il mondo con parole nuove / supplicando chi viene dal mare / di tracciare di nuovo il confine fra il bene ed il male”.
Ascolta: Brunori Sas – “Al di là dell’amore”
24. Achille Lauro – “Rolls Royce”

Sony / Epic
Achille Lauro è oggi l’unico artista emerso dal big bang trap degli anni Dieci che è riuscito a costruirsi un’estetica in grado di travalicare i confini del genere, per rendersi riconoscibile persino al pubblico più attempato e conservatore. Il 2019 è stato l’anno del suo assalto al pop: l’Extra-Factor, le interviste al TG1, le ospitate da Fabio Fazio, la contestata esibizione al Premio Tenco e una serie di innumerevoli piccole provocazioni, cambi d’abito, eclettismi azzardati. Sempre con scioltezza sul filo della polemica, sempre spostando il punto di attenzione sull’abilità di rendersi cangiante, plasmare il personaggio Achille su tutti i codici possibili, David Bowie e Gigi D’D’Agostino, Woodstock e Cioè.
Naturalmente origine di tutto è la fondamentale apparizione in gara a Sanremo con Rolls Royce, una canzone-cero-in-chiesa, una collezione di santini dedicata al grande topos di chi ha amato così tanto la vita da bruciarsi. Punta dove puntava la Vita spericolata di Vasco Rossi, aggiungendovi un sottotesto funebre molto accentuato e coerente con la parabola del riscatto sostanziale insita nella “narrazione Lauro”. Il colpo di genio (da attribuire in egual misura a Boss Doms e Frenetik & Orang3) è aver trasportato autotune, flow romanizzato e altri stilemi trap iper contemporanei dentro il cimitero del rock and roll, in una chiave accogliente, affabile e persino ironica, che è riuscita dove sia il gotha del nuovo indie-pop sia i trapper dai numeri potentissimi continuano a fallire: sedurre.
Ascolta: Achille Lauro – “Rolls Royce”
23. Willie Peyote – “Mango”

Turet/Virgin/Universal
C’è qualcosa di solenne ed emozionante nell’omaggio che Willie Peyote rivolge al cantautore di Lagonegro nel 2019 (che, peraltro, è stato apprezzato dalla vedova). È un monito all’indivualismo sfrenato e alla rimozione della responsabilità dell’artista, mentre la gara per la fama trasforma i nuovi idoli in figure patetiche focalizzate soltanto sul proprio successo, timorose di qualsiasi presa di posizione: “Sembro Che Guevara se provo ad espormi / finisce che perdi dei soldi / finisce che perdi gli ascolti”.
A questi “stronzi” che “chiudono bocche se provi ad opporti” Willie contrappone l’episodio della morte di Mango nel 2014, colpito da un malore mentre stava cantando Oro in un concerto: la sua dignità nel chiedere scusa al pubblico per l’interruzione del concerto diventa una sorta di modello morale, un varco sulla sconforto che WIllie prova nel muoversi in questa giungla. Irruenta, un po’ glaciale ma anche bluesy, deflagra in un finale noise di eccezionale intensità.
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Ascolta: Willie Peyote – “Mango”
22. tha Supreme – “blun7 a swishland”

Sony
Il 18 enne tha Supreme deve certamente parte del suo boom a una strategia promozionale perfetta, che segna il nuovo stato dell’arte nel marketing discografico: invece che puntare sull’anonimato radicale (lui si chiama Davide Mattei, è di Fiumicino e qualche sua foto è facilmente reperibile), si è optato per una razionata ed essenziale diffusione di materiali e dati ulteriori, affidando il grosso del lavoro estetico al linguaggio comic, tra disegni, pupazzi giganti e una specie di infantilismo stordito e straniante. Sembra un aggiornamento del modello Gorillaz nella chiave del post-futurismo pessimista contemporaneo: a X-Factor tha Supreme si è esibito in forma di ologramma ma con live band al seguito, e la performance ha qualcosa di inquietante e magnetico, il flashforward su un domani possibile in cui a essere messa in dubbio è la stessa corporeità dell’artista.
Ma tha Supreme ha fatto breccia soprattutto per l’originalità della sua proposta musicale. I beat si potrebbero definire “massimalisti” per l’enormità di cambi d’umore, idee strampalate e colori continuamente cangianti. La vocalità, in particolare, spinge il codice trap fortemente verso una dimensione melodica inedita, tra un cantilenare capriccioso e platealmente teen e l’ipotesi di un device di ultima generazione che si mette improvvisamente a frignare. Funkettone narcolettico con un vago twist reggae, blun7 a swishland è pura pasta sonora masticata e digerita da un apparato sconosciuto alla chirurgia: per chi non inorridisce, è forte la suggestione che sia un frammento degli anni Venti scaraventato all’indietro verso di noi da un baco temporale.
Ascolta: tha Supreme – “blun7 a swishland”
21. Tommaso Paradiso – “Non avere paura”

The Sold Out Music/Island/Universal
Che Tommaso Paradiso avrebbe lasciato i Thegiornalisti era una notizia praticamente già scritta. Con la band ancora in procinto di fare un maxi-concerto al Circo Massimo, i media affamati di una narrazione del fallimento ne hanno calcato le tracce per mesi pompandola come uno psicodramma, quando semmai l’unico aspetto realmente simbolico nell’evento è che va inevitabilmente a scrivere una parola fine sull’età d’oro dell’indie pop.
Se di questo breve ma intenso arco della nostra canzone più recente Paradiso è diventato il principe (e il personaggio più chiacchierato), grazie alla sua abilità di cristallizzare vulnerabilità personale e un’emotività sempre sopra le righe in formidabili miniature pop, allora Non aver paura è lo stargate perfetto per il suo futuro: una ballata in do maggiore – ripetitiva, iper-familiare e da canticchiare all’infinito – che trasforma il training autogeno per l’avvio di una carriera solista (supportato dalle amicizie d’eccezione che compaiono nel video, da Fiorello a Jovanotti alla Mannoia) in un inno universale di incoraggiamento a ogni salto nel vuoto. La catarsi di una maturità che ormai si deve accogliere.
Ascolta: Tommaso Paradiso – “Non avere paura”
20. Mina Fossati – “Luna diamante”

PDU/Il Volatore/Sony
Mina Fossati è un esercizio di “fossatismo” consapevole, spinto a un centimetro dal punto in cui l’autocitazione diventa persino ironica, per quanto è palese. È chiaramente un disco non necessario, per sua natura: il ritorno di Fossati sulle scene è giustificato solo dall’opportunità pressoché unica di mettersi al servizio di Mina. E dunque le canzoni – tutte belle, nessuna urgente – puntano l’orologio verso la stagione d’oro del Fossati più popolare, quella di Panama, Vola, i dischi per Mia Martini e per Loredana Bertè, in generale tutta la produzione tra la seconda metà degli anni Settanta e quel Ventilazione (1984) che segnò il passaggio a un altro periodo del cantautore genovese, quello più elaborato, criptico e d’autore (fa eccezione la canzone intitolata Farfalle, l’unica dove il processo funziona al contrario, con Fossati impegnato a riscrivere La pioggia di marzo, dal repertorio classico di Mina, sebbene il classico bossa abbia fatto parte a lungo delle scalette dei suoi concerti).
L’episodio più generoso in grandeur e intensità è Luna diamante: adottata anche come canzone portante del film La dea fortuna di Ferzan Ozpetek, è una ballata notturna per pianoforte e archi, mesta, drammatica e disperata. Anche in questo caso è la parziale riscrittura di una soluzione già testata: il riferimento è la struggente Cowboys, del 1983, che Mina interpretò in Mina 25 e Fossati in Le città di frontiera. A riascoltarle una dopo l’altra il gioco di rielaborazione cosciente sembra lampante. Luna diamante è l’implorazione di un cuore ferito perché la luna riesca a dissipare il dolore causato dallo stesso amante che oggi resta in silenzio. È una canzone che si muove strisciando tra i cocci di un amore a pezzi, chiedendo alla luna un miracoloso sollievo. Fossati tace, limitandosi a un mugugno sul finale. Mina, invece, canta con la voce nuda, piena, teatrale, finalmente senza artifici tecnologici, non celando alcuna delle micro imperfezioni che può avere il timbro di una grande interprete oggi quasi ottantenne. L’effetto è di un’autenticità disarmante, capace di incarnarsi in ogni dolore amoroso, in ogni tentativo estremo di salvare ciò che ormai è compromesso.
Ascolta: Mina e Ivano Fossati – “Luna Diamante”
19. Giorgio Poi – “Vinavil”

Bomba Dischi/Island/Universal
Smog ha confermato la capacità di Giorgio Poi di cogliere gli interstizi che separano il sogno dalla mediocrità quotidiana e metterli in canzone in una forma originale e riconoscibile. In Vinavil lei ha smesso di sorridere, forse annichilita dal dominio delle incombenze della vita reale, mentre lui cerca di empatizzare, rassicurarla: siamo della stessa pasta, “abbiamo il cuore strano, di cera e di Vinavil / che ti si scioglie in mano”.
L’immagine della colla vinilica è generazionale, richiama l’idea di una sostanza umana molle e fragile, che non si è mai evoluta rispetto al tempo infantile, incapace di far fronte alle durezze del quotidiano poiché ancorata a una visione ancora bidimensionale dell’esistenza. La riflessione è enfatizzata dal bellissimo video nel quale un finto Giovanni Muciaccia, storico conduttore di Art Attack, vive in solitudine tra i suoi disegni e bricolage incapace di dichiararsi alla donna che ama, finché non capirà che deve ribellarsi al simbolico mostriciattolo che gli ottenebra l’esistenza. Per arrivare ad accettare un’idea realista e possibile di felicità: “Per essere contenti / anche senza dirlo mai”.
Ascolta: Giorgio Poi – “Smog”
18. Levante – “Lo stretto necessario (feat. Carmen Consoli)”

Parlophone
La scrittura di Antonio Di Martino e Colapesce, le voci di Levante (anche co-autrice) e Carmen Consoli: un consesso della migliore canzone d’autore nata in Sicilia negli ultimi trent’anni per una dedica elegante e appassionata alla stessa isola, descritta attraverso le impressioni di chi se ne è andato (come i tre autori) ma ha comunque mantenuto un rapporto di vicinanza/distanza, odio/amore, appartenenza e allontanamento: “Perché ho dovuto perderti per ritrovare il bello di te?”.
Pubblicato opportunamente d’estate (è, in fondo, una perfetta hit pop estiva per resistenti alla latin trap), Lo stretto necessario è un brano spedito ma tenue, nobilitato da un ritornello che insiste su una melodia senza pause a puntellare una sequenza di fotografie di efficace taglio descrittivo, come un incanto che non si vuole sospendere: “Le facciate mai finite / le Madonne chiuse in una teca / le tende spiegate / casa mia sembra una nave”.
Ascolta: Levante – “Lo stretto necessario (feat. Carmen Consoli)”
17. Pacifico – “Bastasse il cielo”

Ponderosa Music
Bastasse il cielo si apre con una lunga introduzione di vibrafono: è un suono ovattato, smaterializzato, che sembra provenire da un luogo distante, dove il peso pare non esistere. Quando a quasi un minuto dall’inizio entrano le note di pianoforte, la voce di Pacifico sembra ripiombare nella realtà, come riprendendosi di colpo da un sogno, con i suoi tormenti, lo sconforto tenue, l’invocazione a mettere a tacere certi pensieri per liberarsi della tentazione di lasciarsi cadere nella sfiducia, in un tempo che sembra sempre più minaccioso: “Notte che sei qui davanti, io non ti so capire / prendi queste poche cose, mettile a dormire”. È struggente la title-track del settimo lavoro di Pacifico, uscito a sei anni di distanza da In cosa credi e forse il suo lavoro più prosciugato da ogni orpello, puro nell’espressione e cristallino nelle sonorità. Sacrosanto candidato al Tenco anche se tenuto in disparte da molti media, è un lavoro sulle ombre fragili del presente che potrebbero anche scomparire se soltanto gli uomini cominciassero ad affrontare ciò che turba una volta per tutte, magari con il coraggio di un Salto all’indietro (un’altra bellissima traccia del disco), invece che affidarsi a una generica provvidenza – il cielo – che è un po’ come lasciarsi scorrere il declino addosso, intrappolati nella nostalgia di un tempo primigenio. Mentre le nuvole restano lì.
Ascolta: Pacifico – “Bastasse il cielo”
16. Tiziano Ferro – “Accetto miracoli”

Virgin
“E ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornare”, cantava Tiziano, tre anni prima, in Potremmo ritornare. E invece non c’è più nessun “potremmo”, il condizionale è stato solo un trattenere a tutti i costi, una tagliola tra corpi già feriti. Ora è proprio il tempo di chiamare le cose con il nome della realtà, senza ferocia, ma con la lucidità di chi può veramente dire che è finita, e forse va bene così, non serve più recriminare, perché in fondo l’amore che non si voleva lasciare andare ha generato altro: un nuovo giro di giostra, amare-illudersi-promettere e poi fino a chissà cos’altro ancora. Un altro esistere, un altro amore: “Nasce dal colore di una rosa appassita un’altra vita / poche idee o sempre le stesse, prometto: “Basta promesse” / e ho cambiato e ho cambiato e anche fosse l’ultima fermata / lascio la mia vita molto meglio di come l’ho trovata”.
È il Tiziano più disarmante, quello che scava le verità dell’amore come nessuno, con un piano, qualche briciola di elettronica e una voce che sembra arrivare nel punto esatto dove puoi guardare la vita senza sapersi dire felici o distrutti, ma intanto è un miracolo esserci arrivati: “E con tutto ciò che ho visto / e difficile capire se esisto”.
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Ascolta: Tiziano Ferro – “Accetto miracoli”
15. Fulminacci – “Borghese in borghese”

Maciste Dischi
Premiato con la Targa Tenco per l’Opera Prima, Fulminacci (data di nascita: 1997) è il nuovo nome cantautorale che ha raccolto più consensi durante il 2019. Ha scavalcato la sbornia itpop della seconda metà degli anni Dieci grazie a canzoni acute e generose di idee, benedette da una scrittura spontanea e autoironica, che immette il vocabolario del disastro del presente nella scia del cantautorato romano anni 90-00: certamente Silvestri e il primo Fabi, ma anche Pier Cortese e il Leo Pari pre-itpop.
Eseguita sul palco del Club, Borghese in borghese è già un suo piccolo culto. Sullo sfondo di una Roma Capitale che descritta come ordinario campo di battaglia, tra sacchetti dell’organico da buttare una volta alla settimana e patti con l’Atac mai rispettati, è il manifesto irresistibile di un “vivere medio” che vuole sbarazzarsi del ruolo di termine di paragone negativo e raccontarsi così com’è, senza angherie snobistiche,. Anche perché chi è il vero borghese? “Tu non ci pensi, ma se guardi la tua vita / o anche se guardi la mia dall’alto / resti sempre un perdente, resto sempre un perdente”.
Ascolta: Fulminacci – “Borghese in borghese”
14. Massimo Pericolo – “Sabbie d’oro (feat. Generic Animal)”

Pluggers/Lucky Beard
Se l’urlo rabbioso di 7 miliardi è stata la novità rap più influente dell’anno, Sabbie d’oro è forse il più originale brano rap degli ultimi tempi, quello che davvero mostra la complessità del personaggio Massimo Pericolo, la straordinaria umbratilità del suo atteggiamento nei confronti della materia narrativa. Aperto da una sorta di monologo noir per sola voce, fonde i temi ricorrenti del rapper – l’odio per le istituzioni, il carcere come scuola di vita, la solitudine terapeutica – in un flusso di coscienza di grande intensità, come rapito da un’urgenza di verità più grande di lui: “Cosa volevano insegnarmi? / baby, dopo il gabbio / quello che c’ho in più è soltanto un paio d’anni”.
Non ci sono le certezze sbandierate dei trapper che si sentono arrivati al primo disco: qui c’è l’ammissione di un’identità tutta da comporre, combattuta tra l’ansia di non bruciare alcun istante dell’ esistenza e la paura di cadere nel tombino della mediocrità: “E puoi essere il più bravo come il più balordo / ma se muori in un pollaio è perché sei un pollo”.
Ascolta: Massimo Pericolo – “Sabbie d’oro (feat. Generic Animal)”
13. Clavdio – “Cuore”

Bomba Dischi
“Ho visto la tua mano strapparmi il cuore / mi sono accorto che era marrone / e non quel rosso come lo disegnavi tu”: l’esordiente Clavdio racconta lo strazio di una recidiva d’amore, la moltiplicazione del dolore delle storie finite che vengono riaperte per poi essere troncate nuovamente, dilaniando chi si era illuso di nuovo. Lo fa con una lingua stralunata, che usa parole ora mestissime e ora immerse dentro un bizzarro quotidiano spiccio: la Snai diventa un posto bello dove passare il tempo in assenza di lei, un bizzarro cinese come specchio razionale e incoraggiante al malumore del protagonista.
Picchiettata da un beat elettronico minimale e costruita su un arpeggio che ricorda quello di Someone like you di Adele, Cuore è l’ultima brillante variazione sul tema dello strazio amoroso in salsa post-romantica di casa Bomba Dischi: che Claudio abbia le carte per affermarsi come Giorgio Poi o Calcutta è tutto da dimostrare, ma intanto ha messo a segno un piccolo cult della nuova canzone italiana.
Ascolta: Clavdio – “Cuore”
12. Niccolò Fabi – “Io sono l’altro”

Polydor/Universal
Fedele a una poetica-etica di pietas e incoraggiamento alla dimensione umana del vivere, quasi impossibile da scalfire, Niccolò Fabi ha alzato la posta del suo dialogo intimo: Io sono l’altro si origina dal tema della paura del prossimo per innalzare una riflessione assoluta sull’impossibilità dell’esistere senza l’altro.
È qualcosa di più di uno scegliere da che parte stare: è l’immedesimazione nell’altro come parte o riflesso di sé, un gioco mimetico dove ogni carattere che Fabi personifica non è buono o cattivo o sbagliato, bensì è soltanto una manifestazione multiforme e cangiante della (mia) stessa esistenza, che può essermi incomprensibile, o utile o determinante quando meno potremmo immaginarlo, e basterebbe questa ragione a dissuadere ognuno dalla reticenza o peggio dall’odio: “Sono il chirurgo che ti opera domani / quello che guida mentre dormi / quello che urla come un pazzo e ti sta seduto accanto / il donatore che aspettavi per il tuo trapianto”. La voce scompare e si dissolve in una stratificazione stellare di suoni, come una moltitudine di puntini che si fanno sfocati, intercambiabili. Che siamo tutti: “Quelli che vedi sono solo i miei vestiti / adesso vacci a fare un giro /e poi mi dici”.
Ascolta: Niccolò Fabi – “Io sono l’altro”
11. Daniele Silvestri – “Argentovivo (feat. Manuel Agnelli, Rancore)

Columbia
Nel 2019 Daniele Silvestri ha concesso all’Ariston un’esibizione tra le più forti mai viste sul suo palco, superando il suo già elevato record di “teatralità” nelle partecipazioni sanremesi. Argentovivo è una mini-opera rock a tre voci, cupa, scandita dal groove maestoso di Fabio Rondanini (Calibro 35) e arricchita dalle orchestrazioni epiche di Enrico Gabrielli. Con una scelta tematica decisamente pinkfloydiana, dà voce a un sedicenne-tipo del tempo contemporaneo, iper-stimolato e iper-attivo, che la famiglia, le istituzioni e la società, in una combine di pigrizia, moralismo e mancata ricerca di un piano comunicativo, hanno condannato alla prigione fisica e simbolica di uno stordimento virtuale: “Avete preso un bambino che non stava mai fermo / l’avete messo da solo davanti a uno schermo / e adesso vi domandate se sia normale / se il solo mondo che apprezzo, è un mondo virtuale”.
Il coup de théâtre è nell’uso di Manuel Agnelli e Rancore, più comprimari di lusso che ospiti: il primo interpreta versi ieratici di confronto sul futuro con la figura del genitore, cantando come da uno spazio della mente, lontanissimo ed etereo; il secondo dà fuoco a tutte le carte migliori del suo pirotecnico flow per trasferire, con tensione fortissima, il senso di un confine labile tra ossessione e lucidità, baratro e rivalsa. È la canzone che è riuscita a far coincidere il Premio della Critica a Sanremo e la Targa Tenco per il miglior brano per la seconda volta consecutiva (dopo Mirkoeilcane, che però militava tra i giovani).
Ascolta: Daniele Silvestri – “Argentovivo (feat. Manuel Agnelli, Rancore)”
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10. Madame – “Schiccherie”

Sugar
La vicentina Madame (vero nome Francesca Calearo) ha fattezze adolescenziali (16 anni) e un’immagine già lontana dal cliché della rapper-tigre in emulazione maschile, che denota già grosso carattere. Sciccherie è una ballad urban trap appiccicosa, dotata di un testo criptico che mescola insicurezze e una carnalità fluida e ingegnosa (“Ciao amore bibbi, quanto bello, però succhia lì eh”) con un flow anomalo e seducente, che centrifuga le parole fino a nasconderne il senso e istiga all’ascolto ripetuto.
Uscita a fine dicembre 2018, Sciccherie ha levitato lentamente durante il 2019 fino all’accreditamento “ufficiale” di Madame tra le più grandi promesse rap/trap nazionali: la sua suggestiva partecipazione a Persona di Marracash, nel ruolo dell’anima digitale e misteriosa, ha reso il brano emblematicamente intitolato Madame – L’anima uno dei momenti più emozionanti di un grande album. Mentre una nuova generazione di artiste – Chadia Rodriguez, Beba, Myss Keta, Priestess – va avanti a sfidare il grande tabù del pop italiano (cioè che la donna non debba cantare di autodeterminazione sessuale), Sciccherie si è introdotta in questo lento ma imponente processo di cambio di prospettiva, occupandone un posto centrale: con la sua sensualità aliena, coraggiosa e limpidamente ambigua, la Madame è diventata già magnete di grandi aspettative, che in tanti sperano saranno realizzate. Per una scena rap che ha un bisogno urgentissimo di rimescolare le carte, i ruoli, le immagini.
Ascolta: Madame – “Sciccherie”
9. Dimartino – “Feste comandate”

42 Records
Chissà se a causa di un’uscita in un periodo già “distratto” dall’imminente Festival di Sanremo (fine gennaio), Afrodite di Dimartino è passato un po’ troppo inosservato, escluso dal novero delle opere che contano come dai premi dedicati alla canzone d’autore. Ingiustamente: perché non è solo il suo album più bello (e dalliano), ma è un’opera che – come Infedele di Colapesce – fissa un nuovo standard nella canzone d’autore degli anni Dieci per forza della proposta musicale e qualità lirica (senza contare la dimensione live: il tour di Afrodite era eccezionale).
Feste comandate è un nuovo capitolo nelle molte storie di Dimartino dedicate a chi ha lasciato il Sud e di chi al Sud è rimasto e guarda gli altri arrivare ed andarsene ancora, in un ciclo che pare eterno, sempre malinconico. Tutto è suggestione sfocata, come l’effetto di una luce artificiale dentro gli occhi di chi ha appena pianto: mentre un vocabolario simil-apocalittico prefigura un futuro prossimo indicibilmente lugubre – i carri armati, la polizia, l’amore chiuso in una legge dello Stato – l’ennesimo migrato reitera il rito ancora triste ma necessario di questa overdose di amore non richiesto che viene a prendere a Natale a mani piene. Una canzone struggente, bellissima, impossibile da capire se non si ha un pezzo di cuore che è rimasto lontano, da qualche parte nel mondo.
Ascolta: Dimartino – “Feste comandate”
8. Ghemon – “Rose viola”

Carosello/Macro Beats
Avvolta in tinte noir come una torch song dei Portishead alleggerita in cupezza, Rose viola è la slow jam in minore che ha segnato l’esordio in gara all’Ariston di Ghemon (12° posto). Indaga le sfumature di un legame impari e sbilanciato, con la particolarità di adottare il punto di vista della donna, che racconta in prima persona. Descrive il rapporto in toni di incombenza e minaccia, come una caccia, nei meandri di una sensualità inquieta: le spine, i nodi in gola, il trucco che cola.
Lo stesso viola è ambiguo: innesca la suggestione di una violenza fisica (i lividi) sebbene il brano guardi più alla dinamica complessiva di dipendenza, intrecciando la prepotenza dell’uomo e la vulnerabilità della donna: “Gli occhi perdonano / per uno come te, te / anche se dico: ‘no’ / resti dentro di me”. Per la serata dei duetti viene incisa anche Rose viola pt. 2, scelta molto seventies, insieme a Diodato e ai Calibro 35 che infatti la avvicinano a una jam di Isaac Hayes. Qui Ghemon si concede una barra rap per dare voce anche alle intenzioni benevole dell’uomo (“Ti fisso in tutta la tua maestà”), ma lascia aperta l’ipotesi che le parole siano solo ciò che lei spera di sentirsi dire, come un sogno, vista la drammaticità in cui il brano sprofonda di nuovo. Eccezionale, e un po’ sottovalutata.
Ascolta: Ghemon – “Rose viola”
7. Myss Keta – “Le ragazze di Porta Venezia – The Manifesto (feat. Priestess, Elodie, Roshelle, Joan Thiele)”

Island/Universal
Ricoperta dello status di fenomeno underground-situazionista ancora impensabile in veste discografica, Myss Keta incide nel 2016 il pop-funk stralunato di Le ragazze di Porta Venezia, sorta di canzone-tag per il popolo della fiorente Milano post-edonista e iper-queer che anima le notti dell’omonimo quartiere del capoluogo lombardo. Ad accompagnare il brano-operazione è un video orgogliosamente lo-fi, che sembra uno di quei documentari sulla controcultura milanese dei primi anni Ottanta che ogni tanto saltano fuori in qualche programmazione notturna in Rai.
Nel 2019 la Myss con il velo è un personaggio cult perfettamente inserito nelle maglie del mercato italiano, Milano (e soprattutto Porta Venezia) è in pieno accreditamento come nuova capitale rainbow nazionale e, più in generale, come sede di una vivace quanto mai necessaria costellazioni di artiste, creative e designer che mettono al centro, con prepotenza e gusto dell’ironia, l’empowerment femminile, il superamento di un’idea reazionaria dei generi, la libertà completa di affermazione del sé. Così radunato un quartetto di talenti del nuovo pop-rap italiano come Elodie, Roshelle, Priestess e Joan Thiele, più una miriade di volti noti del web, della tv, icone musicali di altre generazioni e il meglio del nuovo giro di drag artist milanese (tutte coinvolte in un video coloratissimo e gioviale), Myss Keta trasforma Le ragazze di Porta Venezia in The manifesto, un vero e proprio inno di rivalsa e presenza, identitario e potente come non se ne sentivano da anni. Più che una cover, è un rewriting radicale, che pompa nell’originale un torrente di nuova energia, leggera e gioiosa, ma ferma e decisa. È la catarsi di una battaglia appena cominciata per ribadire, con determinazione e leggiadro gusto provocatorio, che la propria presenza non si può più rimettere in discussione, e semmai può solo (ri)prendersi tutto quel che può: “Panta della tuta, piumino a vita alta / Occhi a cuoricino, pronte per la svolta”.
6. Vinicio Capossela – “Il povero Cristo”

La Cùpa
Sommessa e persino anomala nel percorso del Capossela più recente per ricerca della sottrazione, Il povero Cristo è una canzone cruciale nel viaggio pessimista tra disumanità naturale e ottenuta di Ballate per uomini e bestie (Targa Tenco per l’album, la 4a per Capossela). La parabola del Cristo che scende dalla croce, incontra l’uomo con i baffi “e un coltello da affilare” che lo sfida trattandolo con spavalda sufficienza, e realizzando che per l’uomo “non può esserci unità” decide di gettare la spugna e arrendersi, è il modo per Capossela di cantare il suo sconforto per un mondo incattivito e imbarbarito, dove persino la sua storica indiscussa fiducia nell’energia vitale e primigenia dell’uomo oltre ogni sopraffazione sembra essere sul punto di dichiarare la resa.
Eppure verso quel povero Cristo, sbigottito per un tempo in cui la pietà sembra essere diventata un suppellettile, Vinicio non riesce a risparmiare la sua canzone, uno specchio allegorico del senso di disfatta in cui in tanti tendiamo sempre più a riconoscerci, un ultimo motivo valido per non scomparire dalla battaglia delle idee. Dolce e tenue, come una ballata folk disidratata suonata davanti alla luna, in una solitudine che immalinconisce ma che oggi è colma di tenerezza.
Ascolta: Vinicio Capossela – “Il povero cristo”
5. Marracash – “APPARTENGO – IL SANGUE (feat. Massimo Pericolo)”

Universal
I vertici emotivi di Persona di Marracash sono i momenti in cui il processo di autoanalisi che caratterizza l’intera struttura narrativa riesce a moltiplicare i piani interpretativi: Madame – L’anima, Supreme – L’ego, Tutto questo niente sono tracce in cui la ricerca dell’io si carica di sfumature complesse, la psicanalisi confluisce nella ricerca artistica, il passato si riverbera nel presente, gli ospiti chiamati con certosina attenzione alla scelta diventano proiezioni interiori.
Appartengo – Il sangue è certamente la traccia in cui questo meccanismo raggiunge il livello più sorprendente: dentro un mood riflessivo che si apre a una sobria drammaticità dall’eccellente beat jazzato di Marz, Marracash riapre il cassetto del suo passato di periferia a stretto contatto con disagio e marginalità e ne ritrova gli elementi ricorrenti nel suo presente, la scontrosità e la diffidenza mai sepolta, l’abilità intelligente di “danzare” sul crinale dell’illegalità ritrovando sempre quella quasi inspiegabile paura dell’autorità (“sono un randagio ora come prima / a disagio con la polizia”). Questo far emergere dal fumo del passato la vita attuale diventa una sorta di faro dentro la nebbia di un presente confuso e smarrito: è il sangue, la componente inalterabile del nostro fluido vitale. Il vero colpo di genio è farla emergere attraverso lo sguardo altrettanto introverso e meditabondo di Massimo Pericolo, anche lui rapper fortemente connotato dal contesto in cui è nato e cresciuto, verso il quale Marracash attiva un evidente meccanismo di proiezione: la sua dichiarata impossibilità di cancellare quel che il suo Dna ambientale gli ha trasmesso, fino a farne tesoro e punto di forza, è la stessa che io, oggi che mi sono perso, ho il dovere di riprendere in mano: un codice genetico verso cui mi adatto sempre mentre la vita scorre, un’appartenenza.
Ascolta: Marracash – “APPARTENGO – IL SANGUE (feat. Massimo Pericolo)”
4. Cesare Cremonini – “Al telefono”

Trecuori/Universal
“È facile lasciarsi in un telefono”: che si tratti di uno sproloquio sterile e infarcito di emoji su Whatsapp o di una vecchia conversazione da una cornetta all’antica, il telefono è sopravvissuto alle rivoluzioni tecnologiche mantenendo la funzione di mediazione raffreddata – e quindi più dolorosa – per chiudere una storia d’amore. Non sapremmo nemmeno riepilogare l’innumerevole quantità di sequenze di film, serie tv, romanzi e persino scene teatrali in cui la sofferenza dell’amore terminato esplode e si amplifica proprio per la presenza del telefono a farsi portatore dell’infausto messaggio (almeno per uno dei due amanti): è certo tuttavia che da quando gli smartphone ci hanno concesso la facoltà di scattare foto e conservarle nella propria memoria, il telefono è diventato anche cassa di risonanza visiva di tutto quel che è stato, una desolante e impietosa tortura sottile che possiamo persino interpellare consapevolmente, certi di non voler altro che farci male.
Cesare Cremonini trasfigura questo intruglio di emozioni coagulate attorno all’oggetto in Al telefono, una ballata iper-malinconica e struggente, che restituisce perfettamente in suoni, inclinazioni melodiche e atmosfere dilanianti il trovarsi in bilico tra il lasciare andare e il non essere capaci di mollare, tra lo sbigottimento per la capacità quasi leggera dell’altro di dimenticare (“Si ricorda di me, non so niente di lei”, in cui il “lei” enfatizza la distanza sconvolgente, il ritrovarsi come sconosciuti) e il tentativo ultimo di convincerla che quel filo non è ancora del tutto tagliato: “E fammi una fotografia / e tienila per sempre nel telefono”. Battistiana fino al midollo, Al telefono rivisita esplicitamente temi e suoni (e persino l’arrangiamento di archi) di Prendila così, l’archetipo della canzone tardo-mogoliana sul dolore degli addii d’amore: in un tempo in cui citare Battisti non ha più nulla di speciale, l’operazione di Cremonini si distacca per stile, eleganza, efficacia, densità.
Ascolta: Cesare Cremonini – “Al telefono”
3. Margherita Vicario – “Mandela”

Inri
Da quasi un anno Margherita Vicario sta testando una personale versione di canzone trap: Romeo con Speranza e Abauè (Morte di un trap boy) sono insoliti tentativi di appropriarsi degli stilemi trap in una chiave ironico-critica, che riflette tanto il suo background di confine da attrice-cantante, tanto una visione ironico-critica del genere, decisamente incarnata in un raro punto di vista femminile. Il climax di questa ricerca, tuttavia, è soprattutto la sfolgorante Mandela: in pieno delirio anti-migratorio nazionale, è un pezzo geniale che nello stesso momento fa piazza pulita di stereotipi sulle donne e sugli stranieri, scherzando (ma non troppo) sul potenziale rischio che lei, in quanto donna, dovrebbe correre ritornando a casa da sola dopo una notte di scorribande: “Non è che temo gli indiani oppure i rumeni / quelli che dormon per strada / il più delle volte sono i più sereni”.
Mentre medita, si lascia affascinare dalla tenerezza di un indiano che le mette benzina e un arabo che le serve cibo: “Ti darei un morso sembri una mela aggiungo cannela / nu poco di zucchero / e buto in padela / piacere Mandela”. L’immaginazione comincia a vagare lungo le traiettorie seguite da questi Mandela in cerca di un luogo dove smettere di scappare; mentre il ritmo raddoppia fino a diventare afro-house, la voce spalanca traiettorie melodiche alla Canzonissima, cantando il suo abbraccio rassicurante: “Manila, Praga, Tirana, prendi la metro scendi a L’Avana / sorridi Mandela che questo è il tuo posto”. Brillante, inventiva e realmente contemporanea: ora deve solo esplodere.
Ascolta: Margherita Vicario – “Mandela”
2. Mahmood – “Soldi”

Island/Universal
Mahmood che vince Sanremo è la traccia tangibile della periferia italiana contemporanea che si è cercata un suono che le fosse congeniale, lo ha coltivato, lo ha alimentato. E oggi lo canta. È un’ipotesi di coabitazione, simbolica in termini politici (perché sì, per quanto Mahmood si sia sforzato di minimizzare un’interpretazione politica della sua vittoria, lo è diventata in modo lampante, marcando un prima e dopo) ma soprattutto musicali: gli arpeggi mediorientali che si attorcigliano attorno ai beat afro, il groove liquido e introflesso della trap (in quota Charlie Charles) che si spalanca ad aperture armoniche nord europee (la quota Dardust, enorme, magnetica). Successo senza precedenti nella storia del pop italiano (compreso un secondo posto all’Eurovision che ha colpito l’opinione pubblica quasi più di una vittoria) Soldi è il suono della metropoli anno 2019 che si prende l’Ariston con la sua storia universale e attualissima di figli che cercano nella musica la chiave per andare oltre i padri che non rifiutano la cultura dei padri per non fare i padri. Per andare oltre i soldi.
Ascolta: Mahmood – “Soldi”
1. Andrea Laszlo De Simone – “Immensità (suite): il sogno, la realtà, lo spazio, il tempo”

42 Records
Andrea Laszlo De Simone ha fatto un miracolo, forse il più incredibile dell’intero anno musicale, anche se predestinato, irrimediabilmente, a colpire una porzione ben ristretta del pubblico italiano. Con Immensità ha riportato al centro del discorso musicale attuale, iper-frammentato e polverizzato dentro le logiche algoritmiche, l’idea di un ascolto continuativo che pretende attenzione, abbandono e consequenzialità per essere goduto appieno. Sulle piattaforme di streaming questa mini-suite di circa 25 minuti è disponibile sia scomposta nelle quattro parti-canzoni che la compongono e sia in un’unica traccia, in una versione che però ingloba parti di raccordo non presenti nella versione “scomposta”. Un’altra opera, in sostanza, che l’autore auspica sia l’ascolto prediletto; una sfida materiale alla dittatura della playlist. Nelle fattezze di suite Immensità ammalia, seduce e soprattutto riesce a distaccare il peso di chi ascolta dalla piano terrestre per involarsi in uno spazio dell’anima, invisibile e luminosissimo come il pulviscolo stellare sulla sua copertina.
Porta a compimento qualcosa che nei live del precedente Uomo donna già si intuiva come enorme potenziale della band di De Simone: lo spazio tra una canzone e l’altra che sfuma verso l’ignoto, dando vita a un magma sonoro imprevedibile e sospeso, ora con le braccia immerse nel liquido amniotico della psichedelia, ora disciolto in dolcezze da italo-pop sinfonico dei primi anni Settanta, qui graziato da una partitura di archi creativa, intima e realmente dialogante. La trama è labile e chiede di essere lasciata alla libera interpretazione: c’è una crisi, un viaggio verso l’ignoto che passa dalla separazione (La nostra fine), un riscoprirsi solidi e integri ma differenti dal punto di partenza. C’entra l’alchimia, forse. Potrebbe essere l’invito al viaggio iniziatico per tutti coloro che sentono di collassare dentro questo mondo, per non cedere del tutto, ammettere l’esaurimento, perdersi, ritrovarsi: “Tutta la volontà / d’un tratto se ne va / di fronte all’ovvietà / tutto questo è immensità”. Un capolavoro.
Ascolta: Andrea Laszlo De Simone – “Immensità (suite): il sogno, la realtà, lo spazio, il tempo”