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Note su Note di viaggio vol. 1

La presunta sacralità della canzone d’autore e il coraggio di superare il canone: appunti sull’album-tributo a Francesco Guccini

Quando in aprile è stato reso disponibile Faber Nostrum, un album tributo a Fabrizio De André con reinterpretazioni di stelle più o meno accreditate della scena indie contemporanea, l’accoglienza è stata molto critica. C’è chi ha colto l’occasione per ricordare quanto poco spesso i progetti di questo tipo si risolvano in successi, almeno sul piano degli esiti artistici. Chi ha demonizzato la presunta scarsa statura degli interpreti, quasi esistesse un requisito di base, una sorta di “caratura minima” per poter accedere al canzoniere di De André (come se dalla sua scomparsa non avessimo ascoltato decine di Vie del campo e Marinelle dalle più improbabili voci della penisola). Forse l’aspetto più urticante è un problema connaturato a tutti questi progetti: in assenza di una direzione netta e in qualche modo rigida, le cover tendono a essere o troppo fedeli o troppo radicali, e solitamente si accusano le prime di non aver carattere e le seconde di aver giocato con il fuoco, senza rispettare una altrettanto presunta sacralità del materiale di partenza. Perché prendersela con Gazzelle che fa “Sally” synth-pop in 4/4, tramutandola in un’asettica storia di degrado Capitale contemporaneo, quando lo stesso originale era una storia nera che sublimava l’orrore in cadenze da valzerino fiabesco, fascinosa e ammaliante proprio perché completamente fuori dal suo tempo realistico? Perché lamentarsi della inconsistenza delle generazioni recenti per poi manifestarsi inorriditi quando finalmente provano a giocare da grandi, seppur con le loro talvolta oscure regole?

In questi giorni è arrivato Note di viaggio – Vol. 1, un disco tributo a Francesco Guccini che assomiglia a “Faber Nostrum” soltanto per la struttura formale: 11 cover eseguite da artisti di varia ed eterogenea provenienza, da Ligabue a Margherita Vicario, da Giuliano Sangiorgi a Manuel Agnelli (un volume 2 è in fase di lavorazione), più l’inedito Natale a Pavana. La differenza essenziale udibile dal primo all’ultimo secondo di musica è il coordinamento di Mauro Pagani: le canzoni hanno una matrice acustica omogenea, il suono è caldo, spazioso, morbido. Pur nella diversità degli stili, che spaziano dal folk-blues al jazz fino al tango, l’album è fondato su un principio di immediata riconoscibilità delle canzoni: non c’è alcun radicalismo nella riscrittura, ogni voce si pone nei confronti del brano di partenza in maniera accogliente, partecipe, attenta nel non virare l’interpretazione verso personalismi che sovrasterebbero l’anima originaria del brano. Alcune cover sono così naturali nel loro fluire che sembrano degli originali dei nuovi interpreti. Così nonostante si tratti di un ascolto estremamente piacevole, tutto è ricoperto di un’aura a tratti persino troppo rassicurante, solo in parte mitigata dalla presenza di alcuni brani non del tutto scontati (come le tre tracce da D’amore di morte e altre sciocchezze, un Guccini datato 1996 e già proiettato verso la parte finale della sua carriera).

A me sembra che il merito dell’album sia dove il canzoniere di Guccini esonda dal terreno del cantautorato classicamente inteso e vada a svelarsi in un aspetto che viene spesso messo in secondo piano, ma che in realtà è al cuore dell’espressione gucciniana: l’incredibile sensibilità melodica, l’abilità del cantautore modenese di costruire dinamiche armoniche leggiadre, tenere o vibranti, o comunque spesso evocative, pur in presenza di testi ricchi e rigogliosi, dal peso specifico notevole.

Mi sembra che Note di viaggio – Vol. 1 miri proprio a questo: a evidenziare il punto di contatto in verità enorme tra Guccini e il popolare. Ecco perché se è vero che fa un certo effetto ascoltare il timbro caldo di Ligabue muoversi su filigrane dylaniane in Incontro o la voce di Brunori Sas spargere ondate di nostalgico cantautorato nella superba Vorrei (in se stessa un capolavoro gucciniano), le sorprese più inattese le regalano gli artisti che maneggiano abitualmente le forme del pop-rock più solido: Malika Ayane che enfatizza l’anima da chansonnier di Canzone quasi d’amore, cantandola distratta come una Vanoni immalinconita; il timbro tagliente di Francesco Gabbani che stupisce per come riesce per amplificare il cinismo dolente di Quattro stracci; Nina Zilli che porta seduzione e sensualità dentro Tango per due; Elisa che si lancia nella difficilissima impresa di rifare Auschwitz senza restare schiava del fortissimo imprinting dato al brano dai Nomadi, e allora la prosciuga in una specie di ninna nanna eterea e un po’ nord-europea, virata in un’austerità nevosa che rende estremamente contemporaneo il brano (che, ricordiamolo, è del 1966). Con Carmen Consoli e Margherita Vicario, cinque voci femminili: Guccini cantato dalle donne è davvero notevole.

Chi mi ha colpito più di tutti, tuttavia, è Giuliano Sangiorgi, che riveste Stelle di enfasi cosmica e drammatica insieme, mentre l’arrangiamento fa danzare lievi inattese risonanze di vocoder, frattaglie di cori lunari e un beat electro-minimal di grande fascino evocativo, che alla fine ti chiedi: ma anche questo è Guccini? Perché è questa la domanda che, secondo me, certifica la riuscita di un album-tributo, sospeso tra il timore di violare la regola e la necessità di celebrarne le qualità, raggiungendo il reale cuore dell’espressione musicale: far filtrare la luce su un classico o un grande maestro con la tessitura giusta, né troppo invadente né asettica, per avvicinare altre sensibilità, svelare dettagli solitamente in disparte. Tutto il resto – dalle diffidenze pregiudiziali all’ira contro chi stona “violando” il sacro graal della canzone d’autore – è accademia, calligrafia, vuoto a rendere: le grandi canzoni sanno sopravvivere a questo, da sole, senza bisogno di tutela; cercano megafoni, non scudi.