
Tutti i miei sbagli
Pubblicato soli quattro mesi prima del passaggio al 2000, Microchip emozionale ha raggiunto un obiettivo fino a quel punto soltanto sfiorato dalla pur vitale scena alternativa italiana: assorbire le nuove direzioni della club culture e dell’elettronica (trip hop, drum and bass, garage) e – con un approccio da rock band – declinarle dentro strutture riconoscibili e stimolanti per il gusto italiano del tempo, facendone materia popolare.
Dando corpo nei testi a un’immaginario futuribile ma già presente (ibridazioni uomo-macchina, fascino dell’inorganico, nuove sostanze per compensare nuove patologie), ingrigito da un’oscurità opprimente che rappresenta l’azione di poteri oscuri e globali, cromaticamente sempre più simile alla nostra provincia deformata a metropoli (il paesaggio ispiratore dell’album è la Torino pre-olimpica), Microchip emozionale è riuscito a imporsi come album-simbolo del salto nel vuoto del nuovo millennio. Paura, ebbrezza e vertigine: tutto è confluito in una tracklist dove ogni brano è diventato un classico, tuttora piatto forte dei concerti della band e, in qualche modo, una catena a cui resteranno a lungo legati, soffrendone quasi la notorietà, l’imponenza, l’aura di culto con il quale fare i conti ad aeternum.
Qualche anno dopo la canzone Benzina Ogoshi tenterà, tra ironia e autoanalisi, di esorcizzare la questione (mettendo in musica le critiche dei fan della prima ora diventati hater: “Non siete riusciti a bissare / Microchip emozionale”), ma è soprattutto l’edizione celebrativa che viene pubblicata nel novembre 2019 a mettere una sorta di chiosa finale al rapporto della band con il disco: riprendendo la straordinaria idea di Registrazioni moderne, l’album che celebrò il ritorno di Antonella Ruggiero con una rivisitazione pionieristica e innovativa del repertorio dei Matia Bazar in compagnia della meglio gioventù alternativa degli anni Novanta (compresi gli stessi Subsonica), la band ha affidato la tracklist a voci e mani di artisti che oggi hanno grosso modo l’età dei membri dei Subsonica al tempo di Microchip, e in qualche modo ne hanno seguito le tracce, ciascuno alla sua maniera: Motta, Coez, Willie Peyote, Cosmo, Fast Animals and Slow Kids, Nitro, Gemitaiz, Elisa, Achille Lauro, Lo Stato Sociale, Ensi, Myss Keta e i Coma Cose, chiamati a dare voce alla Aurora di Aurora sogna in una versione che rivela l’eccezionale anima visionaria del brano.
In buona sostanza, Microchip emozionale potrebbe essere davvero la visione in forma di album che più è riuscita a prevedere il nostro presente: l’alienazione, il gonfiarsi di un nemico invisibile e tecnocratico, l’ibridazione irreversibile con la macchina, la chimica. In quanto proveniente da un’era pre-social, forse la sua unica diversità oggettiva con il presente è che in fondo a tutto questo senso di oppressione fantasmatica Microchip contrapponeva comunque la possibilità di una resistenza collettiva, da attivare e sobillare con la frenesia delle ritmiche, l’accelerazione della dinamica musicale, un meccanismo propulsore di un’energia cosmica inaudita, soprattutto dal vivo. Oggi che siamo inabissati in un individualismo mellifluo impossibilitato a redimersi, certa furia di Microchip sembra una bellissima utopia di un futuro che, per quanto i Subsonica lo visualizzassero livido, era comunque ancora qualcosa che si poteva, se non possedere, almeno contrastare nei meandri di una Disco Labirinto eletta a proprio bunker anti-atomico, ripudiare costruendosi il presente in una forma tutta personale e customizzata: “Io sono il mio DJ”.
Ecco perché nel 1999 i Subsonica più di ogni altra band contemporanea erano riusciti nel miracolo di unire in un’unica danza rabbiosa e dissociata il pubblico della dance e del rock alternativo, cogliendone le istanze comuni al di sopra dei generi. E la volontà di potenza della band era così forte che si poteva persino pensare di tentare un passaggio ulteriore, ancora più ambizioso: il salto nel vuoto del popolare-popolare, cioè la partecipazione nei big a Sanremo 2000.
Tutti i miei sbagli è dunque il tassello che mancava, una canzone d’amore che si nutre dell’estetica inquieta e post-apocalittica dell’album ma che, dentro la sua aria plumbea, consente proprio alla relazione sentimentale di farsi spiraglio di speranza. È una canzone che non ha un carattere narrativo, come la quasi totalità dei brani dei Subsonica. C’è però la sensazione di trovarsi sull’orlo di un baratro, uno sprofondare inarrestabile che potrebbe riguardare la stessa relazione come uno stato esistenziale, o entrambe le cose:
A caduta libera in cerca di uno schianto
ma fintanto che sei qui posso dirmi vivo.
Il lessico estremo – notti e cuori sezionati, sangue, annegamenti che servono a respirare, schianti, dolore causato e dolore subito, con una punta di masochismo – radicalizza le emozioni e tiene a distanza ogni romanticismo, ma la canzone in fondo è la confessione di una dipendenza salvifica, un amore inteso come sbaglio in cui arbitrariamente incappare, per sentirsi vivi:
Nel giorno che sfugge
il tempo reale sei tu.
Questa sensazione di apnea in cui l’amore è un ultimo appiglio che salva ma tiene legato è straordinariamente trasferita nell’impianto musicale del brano: introdotta da un breve accenno sinfonico, Tutti i miei sbagli è disco-rock viscosa e insinuante; i suoi sapori apocalittico-orchestrali traducono un senso di incombenza con enfasi magniloquente, mentre l’andamento ritmico colloca l’assolutismo della costruzione sonora nella cattedrale-tempio di un club ai margini della periferia industriale, tra cromatismi serpentini e l’impressione di un buio in cui denudarsi nelle proprie vulnerabilità, confondendosi tra le ombre. È un’altra dance di fine millennio, l’opposto del colore squillante e appiattito del pop del suo tempo; è la pulsazione dei relitti di questa umanità neo-capitalista che ha capito che l’errore, il non allineamento, la sconfitta personale e le proprie ferite sono l’infrazione che questo mondo dei super-poteri tecnocratici non è in grado di controllare, la voragine in cui inabissarsi per sfuggire al luminoso e ossessivo Truman Show:
Sei tu
A difendermi e farmi male
Sezionare la notte e il cuore
Per sentirmi vivo
In tutti i miei sbagli
Samuel tende i versi della strofa con lentezza seducente e un po’ malata, concentrando l’energia per l’esplosione del ritornello dove, su una modulazione armonica piuttosto marcata, la voce si innalza in un urlo disperato e ossessivo – “tu” – mentre l’orchestra fa cadere strali sinfonici in odore di 007 (The World Is Not Enough dei Garbage, pur a una velocità diversa, condivide la medesima tendenza a incrinare la linea degli arrangiamenti, cercando dissonanze stridenti dentro un quadro fondamentalmente post-romantico).
Nel blocco finale il salto armonico viene riproposto a una tonalità ancora più alta: anticipata da un martellante intermezzo di rullante che rende il crescendo monumentale, la voce di Samuel svetta in un acuto tragico che, sul palco dell’Ariston, fa lo strano effetto di una suggestione dal bel canto narcotizzata e tradotta nelle più inquiete psicosi contemporanee. Alla fine al Festival saranno undicesimi su 16 canzoni in gara, ma poco conta: non soltanto Tutti i miei sbagli è diventata un classico contemporaneo, ma il suo canto della fragilità cosciente come condizione dell’anima irreversibile permea ogni anfratto della canzone italiana degli anni a venire.
E anche quando c’è più dolore
Non trovo un rimpianto
Non riesco ad arrendermi
A tutti i miei sbagli