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Mango

da Iodegradabile, Virgin, 2019

Iodegradabile è l’album che certifica il salto di Willie Peyote a una major dopo un percorso che l’ha portato ad affermarsi come artista tra i più originali nella scena indipendente. Il suo merito principale è aver collaudato un personalissimo approccio al rap che si disfa agevolmente degli aspetti meramente estetici e di superficie del linguaggio per conservarne e potenziarne la forza verbale, il colloquialismo che consente di raggiungere in modo straordinariamente diretto il cuore dell’intenzione comunicativa, in Willie sempre prepotentemente rivolta alla crisi dell’individuo nella società, che sia essa approcciata con una focale stretta sui rapporti umani e sentimentali o che guardi, in un senso più ampio, al default culturale dello stesso sistema Italia.

Così le canzoni di Willie, anche se formalmente ascrivibili al macro-mondo del rap, hanno intercettato in egual misura seguaci del flow e gli amanti della musica indie più intolleranti al suffisso pop, e comunque tutti quelli che nella sua mescola infallibile di sarcasmo tagliente e brutalità espressiva hanno ritrovato un’aderenza quasi messianica al tema dei “contenuti”, della densità dei temi affrontati, della veridicità del racconto dello spaesamento digitale. Anche per questo Willie è sempre problematico: perché il peso caricato su ogni singola rima rende queste tracce, anche quelle più scanzonate, mai futili, mai delegate a una leggerezza temporanea nel nome del puro svago.

È una tendenza che la musica di Willie Peyote vive come un mandato, ricoprendola di un’importanza sovrumana in un momento in cui anche gli artisti più insospettabili sono magnetizzati dalla circe di un pop più spensierato, anche solo per una distrazione temporanea, per potersi concedere il lusso di sospendersi da terra e vagare, magari sospinti dalla propulsione elettronica del synth-pop, in un limbo sensoriale che spesso suona come un’anestesia. Non a caso sul piano musicale Willie è profondamente analogico, suonato, pieno zeppo di porte spalancate alla jam session jazz-funk, di momenti pensati per scaricare a terra la possibilità di divagare, perdersi nel groove, sfuggire all’artificio quadrato dello Spotify pop.

Iodegradabile porta alle estreme conseguenze questa attitudine. Pur lungo solo poco più di mezzora e con un’inclinazione manifesta al creare energia pura da concerto, le canzoni suonano come macigni, come il prodotto di una riflessione tormentata e iper-ragionata sul ruolo dell’artista nel contesto musicale contemporaneo che, di conseguenza, diventa anche uno sguardo più ampio sull’esistere in un tempo che accelera esponenzialmente le pretese e riconfigura gli standard più velocemente di quanto l’io sia fisiologicamente in grado di fare, al punto tale da lasciare profondamente vivo il dubbio che inseguire le sirene delle mode e adeguarsi a cotanta pressione non serva a nulla, perché tanto le cose dovranno comunque finire, e allora viene più utile concentrarsi sulle azioni che davvero si stanno compiendo, lasciare perdere le stronzate, uscire dai fumi dell’euforia del soldo e delle fama per guardarsi con un occhio esterno. Tant’è che come una Intro eccezionalmente esplicativa illustra, il filo portante dell’album è proprio “il tempo è il rapporto dell’uomo con esso, cercando di rispondere alla domanda: sapessimo il tempo che resta, sapremmo davvero usarlo meglio?”. Lo stesso titolo del disco è un brillante e inquietante gioco di parole: in un’era di esaurimento progressivo delle risorse, posso adoperare la mia materia organica gradualmente destinata a ridursi per dire cazzate?

Io mi sento responsabile di ciò che scrivo

e non vi devo niente in cambio più di ciò che scrivo

non voglio fare il divo però sputo finché campo

finché morirò sul palco chiedendo scusa come Mango.

Il fulcro centrale di questa riflessione è Mango, una traccia perturbata e meditabonda che contiene anche un solenne ed emozionante omaggio al cantautore di Lagonegro. È un monito all’individualismo sfrenato e alla rimozione della responsabilità dell’artista, mentre la gara per la fama trasforma i nuovi idoli in figure patetiche focalizzate soltanto sul proprio successo, timorose di qualsiasi presa di posizione:

Sembro Che Guevara se provo ad espormi

finisce che perdi dei soldi

finisce che perdi gli ascolti

finisce che poi questi stronzi

visto il silenzio si sentono forti

visto il consenso se chiudono i porti

chiudono bocche se provi ad opporti.

Certo, è una questione prettamente politica: guardare allo sfacelo del mondo e avere il fegato di prendere una posizione netta; evitare di sprecare le proprie energie comunicative – il proprio ambito di influenza, nell’era in cui ciascuno è influencer – e condensarle in un messaggio, seppur urtante, ma pur sempre aderente a un pensiero. Si parla di musica, certo, ma non solo: l’antichissima questione della musica indie degli anni Dieci che ha fatto a pezzi l’antagonismo militante dei cantanti “schierati” del decennio precedente bollandolo come una forma di costrizione/violenza del messaggio contro la musica (cioè ciò che ha reso un personaggio come Caparezza inviso a tutto ciò che era hip cool), in nome di una spensieratezza e impalpabilità che lo stesso tempo sembrava richiedere, dovrebbe essere qui giunta a un punto di non ritorno; oggi ciò che è leggero non sembra più possedere neanche un grammo di quell’aura di evocativa sospensione della cupezza contemporanea che ha alimentato le gigantesche stagioni 2016-2017 dell’indie-diventato-pop. Il riferimento a I Cani, che recupera una vecchia fissazione di Willie, ma anche la frecciata da chi va da Fabio Fazio “a fare il santone”, sembrano punzonare con violenza l’inettitudine ipocrita di chi si è fatto bastare l’ipotesi di un tweet o un messaggio di solidarietà proclamato in quattro secondi da qualche pulpito televisivo per sentirsi a posto con la coscienza, mentre la realtà dei fatti è che non c’è alcuna aderenza “di missione” tra il personaggio e il messaggio, l’artista (come accade in molti altri ambiti, dalla moda al design all’architettura) è totalmente assuefatto dal tasso di interazione social del proprio micro-mondo, magari incantato dall’endorfina momentanea di un barlume di post-ironia che si crede battaglia politica e invece è solo massa informe, un soffietto digitale con cui si crede di aver generato aria mentre la tempesta imperversa. Che cosa hai davvero lasciato di importante? Che cosa hai fatto concretamente con il talento di cui sei dotato?

Ho visto che certi compagni troppo annoiati nei loro salotti
Purtroppo non si sono accorti di cosa succede sotto ai loro occhi
Troppo impegnati, gli eventi, le cene, gli manca visione d’insieme
Capisco lo sforzo, ragazzi, ma serve qualcosa più forte di un meme

Il grande scarto del brano, che lo rende diverso da qualsiasi requisitoria rap e lo cosparge di un’aura quasi commovente, è nella contrapposizione tra queste figurine senza carattere e l’episodio della morte di Mango nel 2014, colpito da un malore mentre stava cantando Oro in un concerto (fatalmente, nella sua Lucania). La sua dignità nel chiedere scusa al pubblico per l’interruzione del concerto diventa una sorta di modello morale, che lasciando aperto un varco sullo sconforto che Willie confessa, che è causato proprio dal doversi muoversi in una solitudine sempre più lacerante dentro questa giungla, magari dovendo comunque cercare punti di contatto con le richieste di pubblico e discografici: “Io a volte faccio fatica a spiegarmi”, che è un po’ come farsi cadere le braccia in una discussione pseudo-politica sui social quando si vorrebbe tentare di mostrare, con grande fatica, il valore della complessità agli altri e ci si imbatte in realtà soltanto in una semplificazione strutturale raggelante, di quelle che ti fanno dire: ora basta, mollo.

È un momento catartico e quasi religioso: la figura di Mango diventa una sorta di richiamo nobile, ancor più se si pensa che si tratta di un artista che è sempre stato refrattario al concedersi alle mode per perseguire la sua particolare idea di pop diverso, meticcio e mediterraneo. Così dopo due barre costruite su un beat laconico e vagamente bluesy, con scatti ritmici che sembrano comunicare una sorta di sicurezza traballante sui quali Willie incalza parole con glaciale irruenza, il blocco finale crea un vuoto intimo che ha lo scopo di caricare l’energia per deflagrare in una coda noise, esplosiva e distorta: incendiare il dissidio, farne palla di fuoco, scagliarla per aria. Davvero notevole.

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