
Domenica
da È sempre bello, Carosello, 2019
Chiamato a gestire con grande attenzione il successo clamoroso di Faccio un casino (2017), Coez è tornato ad affidarsi a Niccolò Contessa (I Cani) per il seguito È sempre bello, pubblicato nel 2019. Correttamente l’album non ha introdotto svolte radicali, riproponendo l’equilibrio tra gli elementi che ha reso fenomeni brani come Le luci della città o La musica non c’è, ma al contempo cercando in tutti i modi possibili di fugare il sospetto di una ripetizione di comodo.
Nel 2019 siamo ormai dentro l’era della consacrazione avvenute per le star dell’indie pop anni Dieci: pertanto (come accaduto in Evergreen di Calcutta o Love di Thegiornalisti) anche per la musica di Coez è tempo di trasfigurare l’immediatezza e l’essenzialità del tocco in un suono più ricco, stratificato ma liquido, che dà l’idea di una totale coscienza del mezzo ma che allo stesso tempo non vuole sacrificare la sua capacità di essere diretto, naturale, di esporlo in totale solitudine alle sue confessioni nude e lasciar scivolare i suoi ritornelli infallibili in assoluta naturalezza.
Contessa ha lavorato con cura per tenere al centro dello spettro sonoro l’abilità di Coez di creare magie pop da strutture asciutte e semplici, salvo introdurre piccoli ma illuminanti frammenti di acustica evocativa: un arpeggio di chitarra elettrica alla Vasco Rossi fine anni Ottanta in La tua canzone, una drum machine minimale puro Carboni 1992 in Catene, che valgono come appassionati ma delicati puntamenti a una semantica ben precisa, composta da parametri in cui la scrittura di Coez può riconoscersi con agio: il dialogo affettivo diretto ed emotivamente franco, la lingua non forbita e colloquiale ma sempre estremamente precisa, una punta di (auto)ironia paradossale nel descrivere le schermaglie amorose.
Su queste basi, il brano più sorprendente del pacchetto è risultato essere certamente Domenica, scelta come singolo per l’estate (in una stagione dominata e tormentata dalla monofasica latin-trap declinata da mille artisti alla stessa maniera). Immersa in una frescura synth-wave che le toglie il peso e la rende impalpabile ed lieve, Domenica è una pop song cristallizzata in un tempo ideale: al di là della linea musicale a cui sembra attingere (gli anni Ottanta, sì, ma in una visione aurea e digitale), è il tempo della sospensione, dei pensieri che si dissolvono e del tormento del quotidiano che sfuma senza lasciare traccia. Un’utopia, insomma. Anche perché non è domenica!
Domenica ha il suono giusto per tradurre il desiderio di una domenica simbolica con la persona amata, un pausa da distrazioni e figure di contorno. Lui rivolge a lei l’auspicio di un distacco dall’iper-programmaticità della vita in cui sono confinati, di un rimuoversi leggero e aereo dall’agenda che rappresenta ogni vincolo, dai genitori (di lei) che scaraventano le loro nevrosi dentro l’intimo della coppia, dalla fatica:
Vorrei fosse domenica
Niente stadio né partite
Una coda patetica
Su questa statale andare
Volare senz’elica
Senz’elica io e te
Tutto è abbandonato, stravaccato, ondeggiante. I piedi sul cruscotto, il braccio che penzola, l’orologio che si arroventa per effetto di un sole talmente accecante da ridurre ogni dettaglio in bianco assoluto. La ritmica tiene il passo di un’energia che si vorrebbe contagiosa ma impalpabile, gentile. Il punto più alto del sogno è un ritorno all’infanzia, ancora una volta proposto con versi semplici, quasi elementari, ma di grandiosa efficacia associati all’impianto musicale:
È come se fossimo bambini
Come se fossimo destini
Che si corrono accanto
Con le mani nel vento
Come fosse domenica con te, con te
A far cadere piccole stelline luminescenti di magia è quella frase di synth che apre il brano e lo puntella regolarmente come per infondergli costantemente la sua energia altra, leggiadra e in qualche modo eterea. Da dove arriva quel synth?
Forse, ma è una supposizione, da un disco estremamente singolare, in qualche modo bistrattato, emblematico di una strada astratta e surreale che il pop sintetico degli anni Ottanta poteva prendere, e che invece il pop melodico dei primi anni Novanta ha tralasciato, chissà se per male interpretata freddezza, rivolgendosi ai suoni “caldi” del R&B e pop-soul americano. Un’intuizione che, ancora una volta, ci mette davanti il nome di Lucio Battisti, stavolta di era Pasquale Panella: è La sposa occidentale, il più luminoso e cubista dei cinque dischi panelliani. È una supposizione, ma quanta Domenica c’è in una canzone come Potrebbe essere sera?