
Tiziano Ferro
Tiziano Ferro nasce a Latina nel 1980. Per almeno un decennio godrà del titolo simbolico di artista pop più rilevante a esordire in Italia dopo il Duemila, adottato da un pubblico davvero ampio e trasversale e, eccezionalmente, applaudito anche dalla critica. Il suo merito maggiore sarà quello di creare una sintesi di respiro ampio e persino internazionale tra tradizione melodica e suggestioni RnB, hip hop ed electropop, accostandovi testi a forte carattere autobiografico e confessionale, spesso profondi, sempre traboccanti di intensità e soluzioni non scontate, capaci di esplorare l’interiorità in modo inedito rispetto a quanto il pop mainstream avesse mai fatto. Penna generosa, firmerà anche importanti successi per altri artisti, affiancandoli in duetti spesso eclettici (da Fiorella Mannoia ai Linea 77, da Baby K a Giusy Ferreri).
Adolescente cresciuto tra insicurezze dovute anche a una condizione fisica di sovrappeso, esorcizzate anche nel celebre titolo del suo secondo album 111 (il suo peso prima del drastico dimagrimento) e raccontate più approfonditamente nell’autobiografia 30 anni e una chiacchierata con papà (Feltrinelli, 2010), Ferro cercherà precocemente rifugio nella musica e nel canto. La sua gavetta sarà piuttosto articolata e di non facile successo, tra cori gospel locali e serate pianobar e, più avanti, come corista per il tour dei Sottotono. L’influenza di queste esperienze sarà evidente dalle inclinazioni musicali che guarderanno al mondo RnB oltreoceano, confessata in brani come “Il sole dentro” o “Temple bar”, o più avanti in “My Steelo”, che un racconto retrospettivo di quei momenti, realizzato con la partecipazione proprio di Tormento. Sanremo gli chiuderà le porte – almeno quelle dell’Accademia propedeutica al passaggio nella manifestazione principale – per ben due volte. È nell’ambito della seconda partecipazione, tuttavia, che qualcosa finalmente si muoverà: Tiziano colpirà i discografici Alberto Salerno e Mara Maionchi, che saranno determinanti nell’aprirgli le porte della Emi. Il produttore Michele Canova farà il resto, mettendo a punto un suono che brillerà per originalità e che lo contraddistinguerà per un bel po’ di tempo.
- Rosso relativo – 2001 – EMI
- 111 / Centoundici – 2003 – EMI
- Nessuno è solo – 2006 – EMI
- Ed ero contentissimo (analisi e significato)
- Alla mia età – 2008 – EMI
- L’amore è una cosa semplice – 2011 – EMI
- TZN – The Best of Tiziano Ferro – 2014 – Universal
- Il mestiere della vita – 2016 – Universal
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Rosso relativo – 2001 – EMI
Piombato dal nulla nel mercato nel 2001, Rosso relativo costringe il pop italiano a un prima e un dopo. Il prima va datato dalla seconda metà degli anni Novanta, al tempo cioè in cui il pop mainstream vive una simbiosi quasi inscindibile con Sanremo, mentre l’immaginario black è tenuto ancora a distanza dalla scena alternativa, che vi si avvicina solo tramite il rap, da intendersi soprattutto nella sua accezione più sociale (e quindi ruvida e ben lontana da certe zuccherosità). In questo contesto sono in tanti in Italia a tentare di fondere le influenze del jazz-soul e dell’R’n’B nel pop da classifica, riuscendovi solo marginalmente: è da poco passato il Duemila quando personaggi come Giorgia o Irene Grandi, responsabili di importanti assorbimenti del gusto black nel loro pop da classifica, retrocedono per cercare conforto nelle trame rock, mentre i Festivalbar si popolano di meteore dal piglio affettato e dai testi irrilevanti.
Fino a Rosso relativo, una pietra di paragone, l’inizio del ‘dopo’. Tiziano Ferro riesce in un’operazione di sintesi tra pop, R’n’B e hip hop possibile perché non limitata da condizionamenti discografici. La metrica rap invade le strutture pop forzandone gli stereotipi, meccanizzando il ritmo e insieme umanizzando i cliché. I versi sono complessi, fitti di capitomboli, compressioni, ripetizioni e densamente concentrati sulla ritmica, spericolata e ossessiva: una vera novità per il contesto nazionale, che intendeva finora l’R’n’B soprattutto in chiave di virtuosismo melodico più che di pulsazione. La notevole dote vocale di Ferro, seppur visibilmente acerba, contribuisce a portare con mano dentro questo immaginario anche chi è allenato a Ramazzotti e Pausini, creando subito i presupposti per la costruzione di una platea ampia e mista. L’impianto imprevedibile costringe l’ascoltatore a porre finalmente attenzione ai testi, che alternano tracce fortemente confessionali (“Il bimbo dentro”, “Imbranato”) a ritratti di turbamento giovanile insolitamente espliciti e sensuali (“Le cose che non dici”, “Rosso relativo”). Ferro è davvero il primo a portare su una dimensione musicalmente rilevante le innovazioni black di fine secolo operate da personaggi come TLC, Destiny’s Child, Brandy e soprattutto Aaliyah. Lo è non solo sul territorio nazionale, ma europeo, per non dire globale: la forza universale che emanano i suoi giocattoli ritmici insieme all’afflato tipicamente mediterraneo fanno sì che “Rosso relativo” venda benissimo in Francia, Spagna, Turchia, Belgio e persino in Messico, e che l’Italia si ritrovi, d’improvviso, un front runner fortissimo con cui fare i conti.
111 / Centoundici – 2003 – EMI
Coloro che attendono Tiziano Ferro al varco della seconda prova, pronti a scommettere su una rapida evaporazione, dovranno ritirare gli scetticismi. Centoundici conferma la formula di Rosso relativo spingendola, se possibile, in territori ancora più radicali. Nei testi Tiziano insiste sul gioco linguistico e sulla derivazione hip hop, affogando i toni acerbi dell’esordio in un sostanzioso autobiografismo dominante, imposto a partire dalla title track che apre l’album come un manifesto, e che diventerà un’attitudine mai smorzata da qui in avanti. Dove era più ritmico, Tiziano calca la mano su sincopi, frammentazioni e stop improvvisi: una canzone dal ritmo sintetico singhiozzante e persino sperimentale come “Mia nonna” era stata impensabile finora in un disco pop italiano, per giunta da record di vendita, ma è un azzardo anche un brano come “In bagno in aeroporto”, forse più uno sfoggio tecnico che un saggio di equilibrio compositivo. È quando i linguaggi si integrano reciprocamente senza eccessi che arriva il capolavoro, che si chiama “Ti voglio bene”: una requisitoria dolorosa che trasuda hip hop per metrica, temi e persino linguaggio, ma che allo stesso tempo è al di sopra del genere, un momento di grande intimità cristallizzato da un’interpretazione che prefigura la tendenza drammatica dei lavori seguenti. Tuttavia è nei brani più melodici che Tiziano supera se stesso, marchiando le canzoni con un carattere ormai già inconfondibile e riuscendo al contempo a rendersi irresistibile per un pubblico sempre più ampio: se in “Sere nere” disidrata la ballata a matrice soul permettendosi di far diventare un classico un ritornello ‘con un foro lungo tre misure nel mezzo’ (quale è l’enorme pausa di silenzio che separa ‘sere’ e ‘nere’, un affronto al pop nostrano), con “Non me lo so spiegare” Tiziano registra quella che probabilmente è la più importante pop ballad tricolore dal Duemila in poi, una sintesi incredibile tra lezioni, quella lirica di Mogol – Battisti e quella melodica di Claudio Baglioni soprattutto, laconicità e sceneggiata, armonia ed enfasi.
Nessuno è solo – 2006 – EMI
Rosso relativo e soprattutto 111 hanno impostato un nuovo standard per chi vuole importare l’R’n’B nel pop; il rovescio della medaglia è che questo linguaggio ormai altamente evoluto, nel 2006, taglia ancora fuori una fetta corposa di potenziali ascoltatori, che – non interessati a ibridarsi con il genere – scambiano ancora Tiziano per un idoletto passeggero, una ‘popstar che balla e canta’ e che poco ha a che vedere con ‘la canzone’. Sembra strano metterla così, oggi che l’ibridazione delle community è il sale di tanti progetti, ma all’epoca Ferro era ancora in una situazione simile a quella che viveva Baglioni in avvio degli anni Ottanta: un seguito commerciale enorme e un potenziale in termini di composizione altrettanto splendente che però sommati ‘non facevano’ un autore vero.
Ecco allora che per Nessuno è solo Tiziano decide di intraprendere una strada rischiosa, che ripagherà sulla lunga durata: riduce al minimo se non elimina del tutto i contatti con la musica di ispirazione afroamericana e intanto esplora verticalmente e in profondità la canzone pop italiana più tradizionale, concedendosi a tratti un afflato quasi cantautorale. Le canzoni diventano più complesse e oscure nei toni, i tempi rallentano drasticamente e si attestano su un andamento consono a fare emergere tutta la verve drammatica insita nella voce di Tiziano, senza rinunciare a giochi metrici in ogni caso non scontati (il ritornello scioglilingua di “Ed ero contentissimo”). Sulla scia fortunata di “Non me lo so spiegare”, Ferro compone melodie che sembrano mettere insieme, nei riferimenti, un vero e proprio pantheon del pop italiano anni Ottanta/Novanta, poco vintage, molto di sostanza: tanto Luca Carboni (“La paura che…”, la strofa di “Ed ero contentissimo”), Michele Zarrillo (“Ti scatterò una foto”), un pizzico di Fabio Concato (“Mio fratello”). A compensare il rallentamento generale, le indagini nel synth pop di “Stop! Dimentica” e nella disco hi nrg di “E Raffaella è mia”, un assurdo tributo all’icona camp nazionalpopolare che, visto in retrospettiva, ragiona sul branding personale come farà in termini praticamente regolari l’intera nuova generazione rap del decennio successivo. Al netto di questo inno talmente nervoso da risultare eccessivo nella sua positività, quasi a tradire una maschera nevrotica di divertimento, si fa strada un tono scuro nei testi e nelle atmosfere, che suona come la traccia di un disagio tenuto in ombra dietro la coltre fragile del successo di massa. Cruciale e chiarificatrice è, in questo senso, la canzone di apertura “Tarantola d’Africa” (“E dentro che succede / Se il cuore ha troppa sete / E fuori ti diverti ma nessuno me lo chiede”), livida e fumosa, volutamente sgraziata da un tempo dispari nel ritornello, come un tavolo con un gamba più corta. La scelta di utilizzare “Tarantola” come incipit fornisce due elementi: la prova definitiva che Tiziano ormai scrive e compone a un livello espressivo di grande complessità, come farebbe un raffinato ‘cantautore pop’, e che da Nessuno è solo la sua musica ha scelto di abbandonare le superfici per scendere verso il basso, addentrarsi nelle fanghiglie personali per ingaggiare una lotta cruenta con una serie di tormenti che l’ascoltatore può decifrare soltanto in parte, ma nei quali diventa facile specchiarsi. Spalancandosi completamente al linguaggio della fragilità, Tiziano sfonda la cortina dei generi: forte di 500mila copie vendute, Nessuno è solo lo certifica come l’ultima grande star della discografia italiana, prima che il mercato entri nel tunnel senza uscita della sua più grande crisi di sempre.
Ed ero contentissimo (analisi e significato)
Alla mia età – 2008 – EMI
Nel 2008 per la cantautrice Giusy Ferreri, concorrente della prima edizione di X Factor e vincitrice morale del talent, compone insieme a Roberto Casalino il singolo di lancio “Non ti scordar di me”, un ibrido contagioso tra un tango e un recupero vintage soul alla Amy Winehouse. Il successo sarà clamoroso, certificando definitivamente Tiziano non soltanto come popstar tricolore di questo tempo, ma come autore a cinque stelle. In questa sua evoluzione melodica per le masse, esplorata e messa a punto con Nessuno è solo, Tiziano riesce nel miracolo di piacere a tutti: emoziona chi era a secco di una popstar che superasse le forme stereotipate degli Antonacci e dei Ramazzotti e intanto seduce persino i più irreprensibili seguaci della canzone d’autore ‘tradizionale’, intrigati dall’uso spinto della metrica e da un uso del verso piuttosto originale. Sempre più figure assimilabili a un mondo ‘intellettuale’ parlano di Tiziano come un ‘guilty pleasure’ condiviso, nemmeno più da celare; lui percepisce questo prezioso movimento di interesse e lo alimenta con una manciata di mosse strategiche. Prima scrive “Il re di chi ama troppo” per Fiorella Mannoia, concedendo anche un generoso duetto con la storica interprete della canzone d’autore di serie A ne Il movimento del dare (la presenza di Ferro in veste di autore tra Ligabue, Battiato, Fabrizi, Fossati e Daniele avrà il suo impatto sui palati più schizzinosi); poco dopo arriva l’endorsement di Ivano Fossati, non ancora ritiratosi dalle scene. A fine anno esce Alla mia età, che fa notizia proprio per la presenza di Fossati come co-autore di “Indietro” (ma il cantautore genovese cercherà di sminuire il suo contributo al brano) e persino per quella di Franco Battiato come voce in “Il tempo stesso”, un tour de force synth-pop battiatesco fino al midollo ma scritto invece interamente dallo stesso Ferro, in un’operazione di camouflage cantautorale piuttosto bizzarra. A sigillo finale di questa operazione ‘d’autore’ messa in atto, Ferro interpreta addirittura “Le passanti” di George Brassens nella riscrittura di Fabrizio De Andrè, nell’omaggio di Fabio Fazio per i dieci anni dalla scomparsa del cantautore. L’interpretazione di Ferro, stilisticamente agli antipodi da questo mondo, è accorata e partecipe, e infusa di sentori autobiografici.
In verità tutto l’album è intriso di un’epica confessionale senza paragoni nella sua intera discografia. Se musicalmente le incursioni nella canzone d’autore sono gli unici detour da una scrittura che altresì si assesta su un registro melodico tipicamente ad alto tasso di intensità, è nei testi che Tiziano appoggia i pesi più consistenti: torride battaglie col senso di colpa (la title track), oscuri inviti a non demordere che tradiscono l’attraversamento di un momento buio (“Il sole esiste per tutti”), dipendenze che agiscono come catene inestricabili (“Scivoli di nuovo”), desiderio di sparire, mancanza, privazione. Anche una canzone come “La traversata dell’estate”, che dovrebbe essere un momento più leggero in mezzo all’umore piuttosto lugubre dell’album, diventa in realtà una sorta di paranoia estiva distorta, traboccante di afa e di fatica. Soprattutto è diventato impossibile non vedere un tratto ricorrente, che canzoni come “Tarantola d’Africa” e “La paura che…” anticipavano in Nessuno è solo ma che qui compare a briglia talmente sciolta da diventare dilagante: l’idea che esista una forza oscura e tutta interiore che mina la relazione amorosa, che inficia la possibilità di esprimersi totalmente e pubblicamente (“È che obiettivamente non riesco / È che la pazienza ci fa divertire / Per noi innamorati / Senza volerlo dire”, “Assurdo pensare”), sebbene l’amore possa arrivare a essere talmente travolgente da portare quest’io a fare un gesto di slancio impensabile: “Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché / di notte chi la guarda possa pensare a te / per ricordarti che il mio amore è importante / che non importa ciò che dice la gente”, canta in “Il regalo più grande”, ballatona di possente slancio melodico che sembra prefigurare tutto ciò che accadrà successivamente. Perché se è vero che le canzoni vivono al di là della biografia dell’autore, è difficile non associare la tribolazione che unisce tutti questi brani al sofferto e coraggioso coming out dell’autore di soli due anni più tardi; letto in retrospettiva, Alla mia età dunque diventa il racconto delle sofferenze di un giovane uomo-medio, senza nessuna spinta iconoclasta né esperienze radicali alle spalle, per prendere coscienza della propria identità, scrollandosi il peso delle sovrastrutture, ammettendo ciò che non si vuole ammettere, smettendo di cercare approvazioni e conferme dagli altri per non mostrare la propria vulnerabilità (persino il cercato placet del cantautorato, in fondo, rientrerebbe in questa dinamica). Nell’Italia del 2009 è una cronistoria emotiva senza precedenti che, insieme al gesto del coming out pubblico, mette anche un punto definitivo su questa storia. Da lì in avanti il tormento dovrà avere altre forme, ma mai più questa. Per fortuna di tutti.
L’amore è una cosa semplice – 2011 – EMI
A ottobre 2010 Tiziano Ferro rilascia un’intervista a Vanity Fair in cui dichiara la propria omosessualità, contemporaneamente alla pubblicazione di un libro, Trent’anni e una chiacchierata con papà, in cui racconta il complesso percorso per arrivare a questa presa di consapevolezza, passato anche attraverso un percorso di analisi (fattore apparentemente secondario nella narrazione complessiva, ma epocale anch’esso, a ben vedere). È un evento importantissimo: mai un artista di tale fama, forse la popstar più influente del Paese, ha osato tanto, con tanta determinazione, riuscendo nell’impresa di smuovere le coscienza senza per forza urtarle, senza il timore di minare la propria fanbase o perdere credito. Sicuramente se nel decennio successivo un coming out non farà (quasi) più notizia, sarà in significativa misura per effetto del gesto di Ferro. E, tra le voci critiche, non saranno pochi quelli che additeranno opportunità commerciali nella combinazione in termini di tempi tra il coming out e le uscite sul mercato, compreso l’imminente nuovo album in uscita.
L’amore è una cosa semplice compare un anno dopo l’intervista accolto dal consueto successo commerciale. Rispetto al lavoro precedente, è un disco scisso e disomogeneo sul piano stilistico. Naturalmente dominano il campo le ormai classiche ballate ad ampio slancio melodico, sempre più fini nella scrittura, ma appartenenti a uno stile ormai consolidato: “Troppo buono”, “L’ultima notte al mondo” e la title track, dall’andamento vagamente simile a un bolero. Alcuni brani a tempo medio cercano di aprire lo spettro sia musicale che tematico: il singolo “La differenza tra me e te”, su una base che richiama la sintesi pop-rock messa a punto in questi anni dai Coldplay, propone una visione interiore finalmente positiva, mentre la struggente “Per dirti ciao!” vede Ferro sfidarsi a non parlare sempre di se stesso, a spostarsi nella testa di un personaggio terzo, una ragazza colpita dal lutto della persona amata. E se la cover di “La fine” di Nesli, fatta propria da Ferro con la sua ormai consueta capacità interpretativa totalizzante, sta lì con la sua tetraggine a fare da pietra d’inciampo sul passato, L’amore è una cosa semplice pare un po’ risentire della presenza di una manciata di canzoni di una leggerezza più vicina all’inconsistenza. Sono i residui di un progetto a cavallo tra swing e soul che dovrebbe omaggiare le origini dell’artista ma che è evidentemente naufragato, come stanno a documentare gli alternate take di L’amore è una cosa swing, appendice all’edizione celebrativa ed espansa dell’album, dimenticabile sul piano musicale. L’impressione è che, ora che è finalmente libero da una serie di urgenze comunicative, Ferro stia maturando il desiderio di ritornare al primo amore, l’RnB, e che l’ormai consolidato stile melodico potrà diventare presto un peso più che un’opportunità: la scelta di aprire un album così composito con un brano dal groove elegante come “Hai delle isole negli occhi” lascia pensare che, con il cuore, Tiziano stia ormai già guardando lì, oltreoceano.
TZN – The Best of Tiziano Ferro – 2014 – Universal
Alla fine del 2014 viene pubblicata in pompa magna TZN – The Best of Tiziano Ferro, la prima raccolta ufficiale dedicata al cantautore di Latina. La selezione di brani, presentati in ordine cronologico dal più recente a “XDono”, fa un certo effetto: TZN è realmente la celebrazione della più importante popstar italiana del primo post Duemila, mai inficiata da flessioni o cadute, sempre protesa verso un perfezionamento della propria espressione. Oltre alle hit, la raccolta presenta un bel focus sulle numerose collaborazioni, duetti, scritture realizzate ad hoc per una grande quantità di artisti italiani e internazionali: da Mina ai Linea 77, da John Legend a Baby K, sono pochi gli artisti italiani a poter vantare tanta eterogeneità del parco delle collaborazioni (con, in alcuni casi, esiti che sono tra le cose migliori mai fatte dagli stessi, vedi “L’amore e basta” con e per Giusy Ferreri). Dei tre inediti, due sono autocelebrativi – “Lo stadio” e “Incanto”, non le canzoni più memorabili mai scritta – mentre la terza, “Senza scappare mai più”, è un’immersione electropop a tinte scure trainata da una melodia ipnotica, senza distinzione tra strofa e ritornello, a cui Tiziano affida la pagina finale di quel percorso introspettivo che oggi si può dire chiuso, e che lascia ancora il dubbio su quel che sarà il futuro dell’autore.
Il mestiere della vita – 2016 – Universal
La raccolta TZN campeggia fissa nella classifica italiana per circa due anni, pur stravolta dall’implosione del mercato causata dallo streaming e dall’improvviso emergere di una nuova generazione di beniamini pronti a diventare il nuovo verbo del pop italiano. Il Tiziano di Il mestiere della vita sembra in parte ignorare gli smottamenti del pop contemporaneo, rapito dalla possibilità di raggiungere finalmente il suo agognato ritorno all’RnB. Solo che poiché ormai è settato su mega-produzioni a gestazione piuttosto lunga, la sua idea di Contemporary Urban, pur di fattura elegante, sembra appartenere ad almeno mezzo decennio prima: batterie elettroniche marziali e imponenti, bordoni di synth spesso invadenti, groove funky a passo pesante, ritornelli quadrati e solari, strati di voci, strati di cori, strati di effetti. Chiariamoci: nulla di brutto o di non riuscito, anzi; però la sensazione che la produzione di Michele Canova non abbia retto il passo delle rapidissime evoluzioni del gusto mondiale è forte, e così invece che guardare a Drake, l’album concepisce l’urban nel registro di un disco come Girl on Fire di Alicia Keys. Con qualche eccezione notevole: le ballate a trazione pop melodico “Il mestiere della vita” e “Potremmo ritornare”, che cuciono le intenzioni dell’album con la tradizione dei successi precedenti, l’esperimento chill-wave di “La tua vita intera”, impalpabile nei suoni e nella melodia, l’interessante “My Steelo”, che coinvolge Tormento in una sorta di sguardo speculare al passato che serve anche da monito per i nuovi fenomeni del presente. E soprattutto “Il conforto”, ballata elettronica di eccezionale complessità melodica, cantata insieme a una Carmen Consoli inedita anche a se stessa, sorprendentemente a suo agio nei panni di una Anna Oxa per l’era digitale. Se volessimo usare l’espressione “da solo vale il prezzo del biglietto” fuori dal suo abuso retorico, andrebbe assolutamente adottata per questa canzone, nel suo rapporto con l’intero album. Che è un buon risultato, ma che rafforza un’idea: che per un Tiziano all’altezza della sua statura sia arrivato il momento di confrontarsi con il presente, magari sganciandosi dalla produzione di Canova. Questa, almeno, sembra l’intenzione dichiarata, mentre lavora alacremente al suo nuovo album, previsto alla fine del 2019: la produzione di grande lusso, affidata a Timbaland, sembrerebbe confermarlo.