
Cosa ti aspetti da me
La partecipazione di Loredana Bertè a Sanremo 2019 è il punto di arrivo di un percorso tortuoso di abnegazione e riabilitazione, auspicato da decenni ma impensabile fino a quindici anni fa: nel 2004, all’epoca di Music Farm, l’orrenda beauty-farm per artisti in cerca di un rilancio, a occupare l’interesse pubblico nei suoi confronti erano le sfuriate rabbiose e incontrollabili, quasi provocate e ricercate nella sceneggiatura diabolica del vip-talent. A Music Farm la Bertè ci era andata per autofinanziarsi l’agognato ritorno discografico dopo otto anni di silenzio, come ci teneva a precisare spesso, ben conscia che quello non fosse un contesto all’altezza del suo background artistico. Il costo della partecipazione fu certamente elevato ma permise effettivamente di creare le condizioni per il fatidico album del ritorno, Babybertè, pubblicato nel 2005 da Nar ed Edel e oggi quasi non rintracciabile. Lavoro da rocker di razza, rabbioso ed autentico, forse un po’ appiattito nei suoni, Babybertè sfodera un paio di canzoni di commovente partecipazione (Mufida o Notti senza luna) in mezzo alle molte partecipazioni amichevoli di altri artisti, che donano a tutto un’aura amichevole, di umana adesione. Poi basta. Da lì prende il via un decennio buio di abissi personali, scandito da apparizioni a Sanremo disgraziate: Musica e Parole, squalificata dalla gara perché non inedita, e Respirare in duetto con Gigi D’Alessio, un punto veramente basso, che la stessa Bertè sembra cantare senza crederci.
Poi, come è ben raccontato dal suo bellissimo libro autobiografico Traslocando, quando sembra che il percorso sia arrivato a un punto senza ritorno, arriva la svolta totalmente inaspettata, propiziata da un cambio di management finalmente in grado di comprendere in fondo le peculiarità di artista, e che sarà determinante per incentivarla a rimettersi in carreggiata. Un calendario di concerti finalmente fitto, idoneo per restituirle la percezione quotidiana del sentimento del pubblico, insieme ad apparizioni televisive in cui finalmente mostrarsi pacifica e non per forza riottosa, le consentiranno di riannodare i fili prima con se stessa e poi con il grande pubblico.
LiberTè è l’album che sintetizza questa pace ritrovata. Pulito nella produzione e asciutto nella scelta delle canzoni, sacrifica eclettismi inutili per badare alla sostanza. Scriveranno per lei Ivano Fossati e Maurizio Piccoli, anche se la canzone che la descrive meglio in questo suo momento di ritorno, Maledetto Luna Park, la firmano i giovani Ilacqua e Pulli (e per noi era tra le 40 canzoni dell’anno). E nel racconto di LiberTè era concepito con già Sanremo come punto di arrivo, come gran finale.
Messa alle spalle quella sempre più insostenibile tendenza alla (auto)demolizione del personaggio, a Sanremo 2019 Loredana imporrà l’immagine di una donna che ha attraversato la vita con estrema intensità, fronteggiando il dolore con lo stesso fegato con cui si affronta una ripartenza, bella, figa, in grandissima forma, senza l’urgenza di arpionare l’opinione pubblica con provocazioni o scenate varie, che soprattutto non chiede compassione o celebrazione tardiva, ma di vedersela alla pari di tutti gli altri (attitudine che, tra l’altro, spiega benissimo il risentimento per la vittoria mancata, il suo non voler cedere in nessun modo a fare categoria ‘a parte’).
Pur non strabiliante in termini di originalità musicale – un rock mid-tempo da collocare nell’asse temporale che ondeggia tra Zombie dei Cranberries e Io no di Vasco, insomma, un rock pienamente anni Novanta, dove in sostanza Loredana ha interrotto il percorso – Cosa di aspetti da me colpisce l’ascolto comune per la sua capacità di autoplasmarsi attorno alla figura della sua interprete, proprio nel momento in cui lei, sul palco dell’Ariston, ha raggiunto il punto di arrivo del suo percorso di rinascita. I versi secchi, a prevalenza pronominale tipicamente vaschiana, sono pensati per dire il giusto minimo che serve a lasciar che il pubblico possa ‘supporre’ tutto quello che c’è dietro la voce che le canta:
Ed io ci credevo
Ed io ci credevo sì
Ci vuole soltanto una vita
Per essere un attimo
Perché ci credevi
Perché ci credevi sì
Ti aspetti tutta una vita
Per essere un attimo
Dovrebbe parlare a un ex relazione che si è consunta, rivelando tutta la delusione delle aspettative che si è portata con sé. In realtà il piano sentimentale è decisamente secondario, una sorta di pretesto narrativo: Loredana sembra stia parlando al suo interlocutore più critico, colui che in tutto questo periodo non le ha perdonato di essere quello che era, che le ha fatto attrito, che l’ha trattata con sufficienza seppure formalmente dichiarandole fedeltà.
La Loredana degli anni Ottanta aveva talmente tanto seguito che nel 1985 poteva permettersi di essere adottata come sigla del Festivalbar (con Acqua); la Loredana dell’immediato post Duemila veniva raccontata come un fenomeno riottoso, incontrollabile e marginale, in una discografia che non riusciva a darle fiducia. Il ritornello interlocutorio – “Che cosa vuoi da me, che cosa vuoi da me, cosa ti aspetti da me” – può essere visto come una richiesta di onestà estrema al seguace che l’ha abbandonata tra il primo e il secondo tempo di questa storia, tra la luce e il buio, e che ha perso l’interesse per restituirle credito.
Una sorta di baratto nel nome dell’onestà: io sono tornata, sono qui, guardami, ma tu, prima di giudicare, ti sei veramente chiesto cosa pensi di essere, o cosa vuoi veramente? Che giustifica il ribaltamento dei piani, semplice ma piuttosto spiazzante, con il ‘me’ che si tramuta in ‘te’: “Cosa ti aspetti dentro te / Che tanto non lo sai / Tanto non lo vuoi / Quello che cerchi tu da me”. Il resto lo fa la brutalità del raschio nella voce di Loredana, il suo afflato pesante e netto, indirizzato con precisione raggelante verso chi sa che deve ascoltare. Che, questa volta, con tutte le remore possibili, non ha potuto fare altro che un gesto, uno soltanto, anch’esso decisamente vaschiano: standing ovation, standing ovation per te.