
Gioventù bruciata
Insolita storia di gavetta quella di Mahmood, almeno confrontata con le molte storie di miracoli pop consumati in meno di una stagione: un X-Factor a 17 anni, un Sanremo Giovani senza lasciare il segno sfociato in un percorso nelle retrovie, come autore per le star del pop nostrano. Un tempo persino lungo per l’andazzo odierno, in cui Mahmood ha lavorato molto per mettere a punto una scrittura fine, capace di intercettare le trasformazioni nel gusto R’n’B globale e trasferirne quanto serve al pop italiano per cominciare a ragionare su altre strutture. Più che meritato, dunque, che sia stato “Gioventù bruciata” a vincere Sanremo Giovani 2018 (per tacere dell’altro vincitore, il ‘vecchissimo’ Einar), il più intenso dei brani composti finora da Mahmood.
Fin dal verso iniziale – “Che ne sanno loro della violenza” – è messo in chiaro che saremo si ha a che fare con un ricordo intimo e problematico e che soltanto parzialmente saremo ammessi a scoprire cosa si cela in questo fondo. Eppure, per quanto ellittico, il testo colpisce dove deve: è chiaro che questa “gioventù bruciata” ha fatto parte di “una vita incasinata”, i cui tempi sembrano dettati da fughe improvvise e riavvicinamenti problematici, gemme di serenità nascoste tra dialoghi irrisolti (“ripetevi sempre la stessa telefonata”), dolore e soprattutto distanza. È come se tutto fosse equamente diviso tra dolore e partecipazione, recriminazione ed affetto, senza che una delle sensazioni riesca a sovrastare l’altra.
Come a rafforzare l’idea che non esista scissione ma soltanto coabitazione di identità distinte, Mahmood riempie il testo di piccoli segnali luminosi, anch’essi contrastanti tra loro: da un lato suggestioni di luoghi lontani – il Mar Rosso, la Sfinge – descritti come se fossero un’idealizzazione, luoghi pensati più che visti concretamente, sospesi nel tempo; dall’altro contestualizzazioni contemporanee come la Nintendo, i Pokemon, l’allusione all’essere “primo in tendenze”, un ibridismo linguistico di grande finezza che tradisce la formazione hip hop di Mahmood. Sarebbe molto difficile negare l’esistenza di una dimensione autobiografica visti gli elementi in campo, eppure la canzone riesce nell’impresa di mantenersi su un livello fuori fuoco, come per preservare la complessità dell’emozione, più che sbandierarla. Così senza dettagliare la narrazione, immerso in una descrizione fatta impressioni e dettagli fugaci, Mahmood progressivamente costituisce l’anti-epica di un’adolescenza fatta a frammenti, nella quale il protagonista è un pezzo di famiglia diventato ologramma, onnipresente e inconsistente, che scompare ad ogni tentativo di riavvicinamento. Non c’è nulla di universale in quanto raccontato, eppure “Gioventù bruciata” straripa di empatia, come se avesse trovato il canale privilegiato per farci vivere questo grumo di emozioni opposte tra loro.
Ci riesce poiché lavora con attenzione eguale tanto sul piano del testo che sulla stratificazione dei suoni, intrisi di future soul e suggestioni alla Frank Ocean. Il brano è diviso tra una strofa in cui il timbro si muove su un registro semi-colloquiale, privato, con Mahmood che sembra quasi lasciarsi scappare le parole come da un riserbo istintivo, e un ritornello a trazione ascendente, nel quale la vocalità viene spostata di un’intera ottava e la linea melodica sembra fondersi miracolosamente con l’incedere del brano, spingendosi fino al punto più acuto della traccia drammatica: è come se il climax fosse sottoposto a un singhiozzare ritmico, una resistenza che la voce di Mahmood deve vincere, per arrivare in vetta.
Tutto questo contribuisce a scontornare “Gioventù bruciata” dal tedio del pop italiano contemporaneo, circondata dall’aura che hanno certe creazioni artistiche che dialogano con le aree più oscure e meno nitide del passato personale, risvegliando questioni sepolte o restituendo emozioni di delicata comprensione.