La nostra pelle
da Marassi, INRI/Garrincha Dischi, 2016
Chi è troppo giovane per aver assorbito i travagli della scena alternativa negli anni Zero potrebbe far fatica a cogliere in Marassi un portato, se non rivoluzionario, almeno pionieristico. In effetti il quinto album degli Ex Otago può sembrare pienamente inserito nel modo di intendere la canzone degli anni Dieci in Italia, almeno secondo le coordinate del nuovo indie a trazione pop: domande esistenziali senza risposte e indecisioni sentimentali su profusioni electro pop e melodie di limpidezza tangibile e quotidiana, il più possibile senza artifici.
Eppure se questa formula è diventata, a un certo punto, la migliore sintesi possibile per far avanzare la musica popolare italiana, la nuova Pangea che ha unito territori un tempo non solo lontani anni luce ma in urto reciproco, è proprio per merito di una band come gli Ex Otago, che a questo avvicinamento lavora dal 2003, quando fare cover dei Duran Duran e di Corona poteva sembrare la bizzarria più eclettica di sempre. E che, soprattutto, ha avuto il merito di trasformare quell’inclinazione pop da vezzo a profilo identitario: tra Tanti saluti e Marassi c’è un abisso nei risultati in termini di risultato, anche se l’atteggiamento della scrittura di Maurizio Carucci, mai troppo seriosa ma nemmeno superficialmente futile, è pressoché rimasto invariato.
Una canzone come La nostra pelle è, a tutt’oggi, il passo più rappresentativo del percorso evolutivo fatto dalla band, nonché una pietra di paragone per molti altri progetti aspiranti della scena neo-pop contemporanea. Vi si rintracciano tutte caratteristiche ricorrenti dell’ultimo “stile Ex Otago”: la semplicità dell’esposizione, l’asciuttezza del verso, l’immediatezza delle linee melodiche, l’assenza di retorica che si dipana in modo parallelo a una buona dose di pragmatismo (ligure). Tuttavia è come se tutti questi elementi fossero, mai come in questo caso, organizzati per rivelarsi a poco poco.
“La nostra pelle” è organizzata attorno a un giro di accordi a partenza minore e sviluppo discendente, che devia significativamente dall’umore generale di Marassi, prevalentemente in maggiore e ‘leggero’, per introdurre toni più introversi. Tutto l’arrangiamento è trainato da una soluzione in levare che – sempre per quel pragmatismo di cui ho già detto – evita di sprofondare verso una cupezza estranea al mondo Ex Otago e invece sostiene il canto come una pulsazione interiore. Anche la melodia parte con un profilo elementare – un cantato vicino al parlato, note rapide che seguono il ciclo discendente disegnato dall’armonia – per cambiare ogni volta, articolando tanti piccoli mutamenti lungo le varie sezioni (strofa, pre-chorus, seconda strofa, bridge, finale) arrivando al punto di farle apparire una diversa dall’altra: più il brano va avanti, più è come se questo piccolo abbozzo di ritratto disegnato da Carucci si completasse e arricchisse di dettagli, per arrivare al quadro finale, talmente composito e cangiante da essere ‘riconoscibile da tutti’, da poter trovare una vista in cui identificarsi.

Struttura ‘disegnata’ di “La nostra pelle”. I pallini identificano le tipologie differenti di sezioni del brano.
Anche la produzione di Matteo Cantaluppi qui sembra prendersi una pausa dall’approccio diretto e schietto degli altri brani dell’album per sfidarsi in questo gioco di arricchimento progressivo: un clap che appare sullo sfondo, una distorsione lontana, microvariazioni dell’ambiente sonoro capaci di far riecheggiare la canzone ora di suggestioni alt-rock fine anni Dieci, ora del proto-neo-soul degli XX, ora persino di umori popolareschi. Il ritornello, infatti, è un antichissimo articolare in na-na-na senza testo, con la voce di Carucci che si moltiplica ad invitare l’ascoltatore a prendere parte a tutto quanto, trovando la sua dimensione.
È la piccola e semplice magia di un brano che evolve da una dimensione minima e privata verso una sempre più pubblica e collettiva, passando dall’essere un dialogo allo specchio, un flusso di autocoscienza, fino a diventare persino un piccolo manifesto, se non un contro-inno (e basta assistere a uno dei live della band per comprendere l’imprevedibile potenza del ritornello).
Naturalmente se non ci fosse una convergenza totale tra impostazione musicale e testo questa magia non sarebbe possibile: “La nostra pelle” è una canzone dedicata all’individualismo come ancora di salvezza dell’identità, sulla sana necessità di ‘sentire’ la propria persona pur quando agisce nel pieno delle sue contraddizioni, dei suoi egoismi e delle sue idiosincrasie: “E scoprire che sei proprio tu / La persona che ti ha fatto piangere di più / Un buon amico / Lo stronzo che ti ha mentito / Sì, sei proprio tu”. Nella prima parte del brano Carucci sembra cantare di e a se stesso, ma la costruzione musicale è abile a trasformare il tutto in qualcosa di comune, enfatizzato dal rivolgersi in modo diretto all’interlocutore: “Hey, dico a te / Dove credi di scappare / Ormai sei circondato / Dalla tua pelle”.
Si è detto spesso che l’essere umano cantato dalla nuova generazione indie pop agisce in totale assenza di punti di riferimento, dominato da un profilo al ribasso che è la derivazione di una società annichilente, che si è presa pure le sue briciole, eliminando persino l’istinto al vedere il domani. Significativamente incisa da una band che ha trovato un grande pubblico in questo decennio pur nascendo in quello precedente, e che oggi gode di un credito pari a un comitato scientifico dell’itpop, “La nostra pelle” è una canzone che entra in questo substrato esistenziale invitando ogni ascoltatore a sentirsi vivo nei propri panni, riconoscere i limiti come proprie fattezze e non temere lo smarrimento interiore, attraversandolo nei suoi contrasti senza abbandonare la propria rotta, senza tradirsi, senza lasciarsi: “Anche se tra te e te non c’è comprensione / Anche se non hai tempo di starti ad ascoltare / Anche se una soluzione non ce l’hai / Tu non tradirti mai”. Puro pensiero Ex Otago, essenziale scarno eppure risoluto, che ritorna anche nel re-edit del brano firmato da Willie Peyote, in un’articolazione più ampia ma sempre fedele a questa visione utilitaristica senza però inutili spietati cinismi:
“Quasi tutto è relativo tranne il mio riflesso
Come una lente e un obiettivo
Cui vivo attraverso
Anche nolente, ci convivo lo stesso
E vorrei lasciarmi alle volte ci penso
Ma questa pelle è un recinto e un confine
è un labirinto, è l’inizio e la fine”.
A chi ha avuto il coraggio di non lasciarsi, nonostante l’apparente impossibilità di funzionare di questa relazione fra sé e sé, forse anche motivato da una canzone come questa, gli Ex Otago concedono un finale di speranza, a suo modo commovente: “Un giorno buffo di cielo assolato / Ci ritroveremo con un bel sorriso / Per aver capito poco / Di questo nostro cervello / E dell’intero mondo / Così complesso / Così spericolato”. In sostanza, ci vuole molto coraggio, ma così è: coraggio.