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Backliner

da Ciao cuore, Sugar, 2018

Nel documentario Backliner, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2018, il regista Fabio Lovino deve confrontarsi con il compito non facile di ricostruire in 60 minuti il ritratto di un soggetto presente ma sfuggente, per nulla intenzionato a concedersi frontalmente alla camera e alla biografia, maniacalmente focalizzato sulla possibilità di fornire un’immagine di sé laterale, non egoriferita. Un bel problema se il soggetto è Riccardo Sinigallia, figura cardine degli ultimi vent’anni di musica italiana, forse l’unico il cui ruolo di produttore va considerato pressoché in totale continuità con l’attività di autore e interprete delle proprie canzoni, in una fusione di intenti e stili e atteggiamenti nei confronti della forma canzone che spesso lo hanno reso riconoscibile e non replicabile. Un bel problema perché Sinigallia di mettersi al centro dell’attenzione, naturalmente, non ne ha nessuna voglia: la ricostruzione di un preciso momento di fecondità della scena romana, dai 6 Suoi Ex al progetto La Comitiva, dai primi ibridi tra canzone d’autore e hip hop di “Quelli che benpensano” al ciclo di video simil-sperimentali con Valerio Mastandrea, è affidata ai ricordi dei protagonisti di quel momento, come Frankie Hi Nrg, Ice One, G-Max, Marina Rei, il fratello Daniele. Mastandrea, in particolare, ha più interventi di tutti, e più di tutti cerca di restituire l’anima di Sinigallia, la non ragione del suo restare schivo, la sua sensibilità irrazionale. E poi ci sono Coez, Motta (di cui Sinigallia ha prodotto La fine dei vent’anni), Caterina Caselli: figure di avvicinamento più recente, influenzate in modo significativo dal tocco di Sinigallia, nel tocco sonoro come nell’approccio al progetto complessivo, che ne parlano come potrebbero parlare di un demiurgo più che di un partner professionale. Lui, Sinigallia, si limita a poche parole, scevre da banalità e irte di idiosincrasie (la scoperta di Donna Summer e della disco, l’affezione per l’elettronica, l’ossessione per i dettagli in studio), schermato da un paio di occhialoni da sole, ben spiattellati al centro dell’inquadratura. Sembra sempre voler fuggire, volersi mettere di fianco, anche quando è evidente che in termini di fama ha raccolto meno di quanto ha fornito in termini di evoluzione del linguaggio. È chiaro e lampante che l’Italia non ha una figura che combina i ruoli del ‘dietro’ e del ‘davanti’ la scena come fa Sinigallia: il documentario di Lovino tenta in tutti i modi di portare a galla questa verità evidente, eppure difficile da argomentare (con una mancanza, cioè un glissando rumoroso  rapido sull’esperienza Tiromancino, quella che G-Max chiama il “patatrac”, lacuna di ragioni più che comprensibili e però, ecco, che peccato non parlarne).

Se mai si sentisse l’esigenza una conferma, è il film Backliner a ribadire che Backliner, la canzone, è qualcosa di più di una traccia a sfondo autobiografico: piuttosto è un manifesto interiore, una spia luminosa e lampeggiante messa lì, nel mezzo di un disco non parco di intensità come Ciao cuore, per dire al suo ascoltatore che è lì che lo specchio finalmente viene alzato da terra e puntato sull’artista, e anche se l’istinto lo porta a mettersi defilato – e infatti la canzone usa la terza persona in uno sforzo persino vistoso di allontanamento dalla materia interiore – la canzone pulsa di ogni vulnerabilità possibile.

Come Per tutti, il pezzo più autobiografico dell’omonimo precedente album, anche Backliner è collocata a metà dell’album, come se ne fosse la polpa. Non solo: anche in questo caso le parole definiscono una trama melodica vaga, accuratamente piena di vuoti e spazi tra una frase e l’altra, per lasciare che la musica prorompa quando deve, imperversando con le sue sottili dissonanze, gli arpeggi aspri, la ritmica che incalza fino al possibile.

Pochi versi per delineare il ritratto iperlaconico di questo backliner, figura di cui Sinigallia si dichiara sempre affascinato: un alter ego, una controparte speculare, la parte pratica e concreta della macchina artistica, che deve supportare, fare, lavorare, stare dietro e lavorare. Che segue gli artisti quotidianamente nel tour affiancandoli e rendendosi ora un contraltare prosaico ora una cassa di risonanza sentimentale: “Sulle rinunce / I dubbi della maggior parte / Le minime virtù / Può sembrare meno vile / Ma è un blackliner / E gli piange il cuore”.

È chiaro: parla di lui come parla di sé, ed è fin troppo scontato rilevarlo. Però è anche felicemente ambiguo: il ritornello, radicato su un’armonia spigolosa e due versi senza soggetto, può indicare cose diverse, il “pezzo” come canzone – che nonostante tutto parte, si invola verso il pubblico, attiva il motore rotante musicale, che dà trazione a tutto questo carrozzone festante che è lo showbiz – e il “pezzo” come parte di sé, abbandonato sulla strada della stessa routine del concerto, come una traccia dell’anima che vola via, un sacrificio da compiere in nome della sacra devozione al dio di questa vita al margine, tra bar, dj set, pubblicitari, notti insonni, rinunce, “minime virtù”. Una cessione di sé, idealistica e sognante, come solo “un partigiano” potrebbe fare, profondamente “fuori moda”: tant’è che di questo backliner, specchio e proiezione dell’artista, non parla mai nessuno, eppure quant’è determinante che sia lì, in mezzo alla scena, mentre i riflettori puntano altrove. Quant’è vicino al cuore.

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