Mina che affoga in un lento
I calendari di Dimartino feat. Cristina Donà, da Un paese ci vuole, 2015

Sarà stato per effetto del generoso consenso critico riservato a Sarebbe bello non lasciarsi mai… e forse, in parte, anche per la suggestione di trovarsi in una nuova fase per la canzone indie italiana, finalmente ‘indulgente’ nei confronti di chi si è aperto a suoni più ‘accessibili’, fatto sta che molti osservatori hanno atteso il nuovo album di Dimartino con un’aspettativa molto elevata, sostenendo che in parte fossa stata delusa, o perlomeno fraintesa, almeno a rileggere le recensioni del tempo. Le solite espressioni come “passo indietro”, “occasione mancata” e amenità simili tradiscono in realtà uno dei più tipici errori che hanno limitato le possibilità della comunità ‘indie’ nel post Duemila: l’ansia di sentirsi sempre alla ricerca di un possibile ‘salvatore’ della canzone italiana, battezzare prima degli altri nuovi Dalla e nuovi Battisti, salvo stufarsi molto presto di ognuno di loro, abbandonando il progetto – meno enfatico, ma più rilevante – di individuare le caratteristiche concrete e originali di ciascun autore, avviando un’indagine che potesse essere rispettosa dei tempi e delle individualità di ciascun artista.
Un paese ci vuole, nel 2015, chiedeva proprio questo tipo di attenzione: invece che un lavoro di versi da citare e decontestualizzare come slogan, Dimartino aveva lavorato su un album a progetto tematico, segnato da scrittura lievemente più diradata, più votata alla descrizione degli ambienti e delle dimensioni collettive. Documento principale ne è la lingua, piuttosto antica e rinunciataria verso i neologismi del web e della società liquida che stanno invadendo in quel momento il vocabolario-tipo del pop nazionale. Al centro di Un paese ci vuole, che cita nel titolo La luna e i falò di Cesare Pavese, c’è un tema sempre presente in Dimartino finora ma mai messo così al centro dell’indagine emotiva: la provincia di tutti quelli che vanno via raccontata da chi rimane, cioè la storia di tutti quelli che, per irrequietezza o rassegnazione, o perché semplicemente “non sono gli alberi”, nutrono un rapporto di amore-odio-isteria nei confronti del proprio luogo Natale (esplicita è la storia di Vincenzo in La vita nuova: “Mostra il suo documento / come un monumento alla vita nuova / dice che fuori è meglio / e lo Stato è giusto / e la legge è buona”). Qualcuno vi ha letto, in modo superficiale, una sorta di racconto idilliaco della provincia italiana, a mio giudizio fraintendendone tanto l’umore generale: una canzone come I calendari, pezzo di chiusura dell’album e risultato clamoroso nella scrittura di Dimartino, è anche un esempio molto calzante di tale fraintendimento.
Intanto perché I calendari è un brano ‘sensorialmente’ irresistibile, che seduce muovendosi suadente al tempo di una rumba lenta, svuotata da ogni orpello nell’arrangiamento essenziale, graziata da una registrazione talmente realistica da cogliere i fruscii delle corde percosse della chitarra e i rintocchi morbidi delle singole note di pianoforte. Un suono talmente spaziale nella sua rappresentazione che è in grado di evocare immagini piuttosto nitide: la luce tardo estiva di un mattino di pioggia, gli arredi immutati nei decenni, i tempi lenti (i “culi sui muri”, geniale lampo visivo di attese e sieste consumate), i calendari con pubblicità di ferramenta e officine dai cognomi oscuri alle pareti. Il paese, ormai pronto a vedersi svuotato del tutto dei ‘ritornati’, che suonano come piccole melodie lontane dentro il tema che introduce il brano, che si porta dentro l’eco di una suggestione argentina, semanticamente sempre affini al tema della ‘migrazione’, come da tradizione ravvivata da Conte e Fossati.
Eppure tutto è finale, triste. L’armonia, con i suoi accordi diminuiti a striare di attrito la limpidezza dell’umore complessivo, sembra rendere tutto coperto dall’ombra malinconica che emanano le cose belle delle quali è già noto il termine. “E sembra che non finisca mai settembre”: l’incipit del ritornello qualifica il sentimento dominante del brano, la sua dolcezza intrinseca squarciata dalla coscienza che tutto dovrà finire, che ancora una volta la distanza interverrà a far disperdere i ricordi belli del presente. Pesanti come quelle singole gocce di pioggia che vengono giù sporadiche a impedire che il cielo sia finalmente terso, compaiono singoli lampi di dolore in immagini di cinematografica sintesi: le “cabine rotte”, la “musica triste da un bar del porto”, soprattutto quel riferimento a “Mina che affoga in un lento” per poi trasformare il ballo “in un pianto” nella seconda strofa, come un frammento visivo senza dialoghi, di eloquente bellezza, all’interno del quale si staglia con precisione l’altra presenza del brano, evocato dalla cristallina voce di Cristina Donà.
Alla cantautrice milanese, coinvolta in un duetto atipico, eppure dal sapore antichissimo, è affidato il compito di rendere perenna la promessa che sigilla il brano:
“E se domani cambierò vestiti
tu riconoscimi dagli occhi
o dalle linee delle mani
basterà”.
È un auspicio amoroso che però ha a che fare con qualcosa di ben più profondo, che condensa il senso del lavoro: la sacralità del luogo, teatro dell’idillio, potrà essere conservata anche dopo che la distanza avrà fatto il suo corso, mutando le persone, cambiandone ‘i vestiti’, come a suggerire ancora l’idea di mutamento di status che il migrare porta con sé; basterà riconoscersi con poco, uno sguardo, un contatto, e quel riavvicinamento ricongiungerà i fili di tutto: dell’amore, della familiarità, soprattutto di quel paese, che si allontana sempre, ma che comunque ci vuole.
Di Dimartino leggi anche: “Non siamo gli alberi“
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