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Copertina l'abisso Diaframma

I ragazzi stanno bene

da L’abisso, Diaframma Records, 2018

“L’abisso”, secondo Federico Fiumani, è quello dei 60 anni, con tutte le angosce che questa soglia può portarsi dietro, soprattutto per una contro-icona come lui: “La vecchiaia fa paura. È una malattia dalla quale non si esce, un abisso… però bisogna affrontarla” (dall’intervista a XL). In realtà L’abisso, diciottesimo album dei Diaframma, uscito a cinque anni di distanza da Preso nel vortice, è un album meno apocalittico di quel che il titolo può far pensare. Come altri lavori post Duemila pubblicati a firma Diaframma, è un lavoro cristallizzato in un suo tempo, disinteressato a inseguire qualsiasi moda, piuttosto coerente con lo spirito musicale incarnato da sempre dalla band: e quindi rock seminale a trazione chitarristica dal suono tangibile e a tratti grezzo; armonie immediate, spesso ingentilite da un ottimismo retro, che emerge in un coro come in un suono delle chitarre che pareva disperso (“Luce del giorno”, “Leggerezza”), periodicamente interrotte da variazioni inattese, deviazioni sul filo della dissonanza, parentesi che non portano a nient’altro se non altra musica, che fanno venire voglia di ricominciare da capo, riascoltare, persino cantare. 

È così, diretta eppure asimmetrica, “I ragazzi stanno bene”, sei minuti e mezzo, tra i momenti più contagiosi dell’album. Una capsula power punk grezza ed euforica – il ritornello – separata un paio di strofe più enigmatiche in una tonalità minore decisamente R.E.M., il tutto introdotto da una scultura di suono più riflessiva, a velocità dimezzata, con tanto di coretti alla Velvet Underground che, come in uno strano effetto doppler, emanano suggestioni di Battiato. Tutto questo rituale rock – citazione di “The Kids Are Alright” degli Who compresa – per celebrare, nei versi straight, la morte sancita e irreversibile del rock stesso, dalla voce di chi sulla immarcescibile e fascinosa decadenza stessa del rock ha costruito un’estetica lunga una carriera. “I ragazzi stanno bene, è finita un’epoca / guardo il tempo evaporare sulla scia di un’elica / I ragazzi stanno bene nel mio sogno elettrico / come tutto sia finito, io proprio non lo so’”: senza alcuna possibilità di fraintendimento, Fiumani guarda l’orizzonte attuale, ripulito dalle distorsioni, epurato da reali gesti contro (“I Punk, col loro agire, facevano arte. I trappisti no, per niente.” ha scritto qualche giorno fa in uno dei suoi tipicamente corrosivi post su Facebook). L’immagine del disfacimento è nella seconda strofa: “Dieci secondi dura la mia vita / quattro ore di treno / ottanta euro di albergo / per dieci secondi che sono la mia vita”. Una sequenza su un unico accordo, che sfuma senza risoluzione, e che contrappone più prosaicamente i (pochi) soldi e il molto tempo investito (o sprecato?) al rock come mitologia. Trattasi della stessa semantica della concretezza tragicomica di una generazione ‘alternativa’ che attraversa i libri di Fiumani, soprattutto Brindando coi demoni, recentemente ristampato da Red Star: con i suoi racconti di etichette fallite, serate organizzate da cialtroni non paganti e invidie tra poveri, un grandioso libro-verità sull’essere outsider in un sistema di ciarlatani, estinti per auto-combustione, perché con quegli approcci non poteva che andare così, o sopravvissuti grazie a miracolosi piani B. E seppure all’apparenza sembra che siano sempre lì in piena salute, scorazzare in pompa magna, sono in realtà cronicamente sull’orlo del baratro, “con l’angoscia nelle vene”.

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